”Tutto è iniziato colla separazione tra fenomeno e noumeno. Il fine comune non esiste tanto vale che ciascuno insegua il proprio fine particolare: è un pensiero aberrante che semina il caos generale e nel quale stiamo annaspando.
La filosofia moderna, che i professori, al liceo e all’università, presentano agli studenti come un gigantesco balzo in avanti dopo la stasi e le “tenebre” del medioevo, non è altro che un graduale,
metodico, inesorabile processo di autodistruzione della ragione: della ragione vera, la ragione complessiva e armoniosa, espirt de géometrie più esprit de finesse,(1) a vantaggio di una dimensione univoca della ragione, quella logico-matematica. Il processo di dissoluzione parte dal tardo medioevo, con Guglielmo di Ockham(2), se non prima, con Pietro Abelardo(3), e procede a grandi falcate nei secoli successivi; ma raggiunge il suo vertice e il suo “capolavoro” con il criticismo kantiano. È Kant, colui che separa radicalmente e irreversibilmente il fenomeno dal noumeno(4), la cosa come appare dalla cosa in sé, che conduce a compimento tale processo di disintegrazione. Di questo tragico esito abbiamo già parlato diffusamente a suo tempo (cfr. il nostro articolo L’”io penso” kantiano e l’autocastrazione del pensiero moderno) ora ci resta da considerare, in tutta la sua portata, gli effetti devastanti che tale “scoperta”, o, se si preferisce, tale “rivoluzione”, ha avuto sul pensiero successivo.
[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]La filosofia moderna si è specializzata in quest’arte pazzesca, aberrante: vuol spiegare ogni cosa, sul modello della scienza moderna, galileiana e sperimentale, al punto da sentenziare che, se pure vi è qualcosa che essa non può spiegare, quel qualcosa non ci riguarda minimamente. [/stextbox]
Arthur Schopenhauer(5), e non è stato il peggiore dei suoi errori, tributa un’autentica ovazione a Kant per aver felicemente condotto a termine tale scoperta, riprendendo e perfezionando la primitiva intuizione di Locke: cioè la distinzione fra proprietà primarie e secondarie delle cose, come del resto avevano sostenuto molti altri prima di lui, per esempio Cartesio. Scriveva il filosofo di Danzica ne Il mondo come volontà e rappresentazione (L.C.) (pp. 542-543):
Il più grande merito di Kant è la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé, – fondata sulla dimostrazione che tra le cose e noi sussiste sempre l’intelletto, per cui esse non possono essere riconosciute secondo quello che, esse possono essere in se stesse. Egli venne condotto su questa via da Locke (vedi i “Prolegomeni ad ogni metafisica, § 12, nota 2). Questi aveva dimostrato, che le proprietà secondarie delle cose, come suono, odore, colore, durezza, mollezza, liscezza e simili, essendo fondate sulle affezioni dei sensi, non apparterrebbero al corpo obiettivo, alla cosa in se stessa, a cui egli invece assegnò solo le qualità primarie, ossia quelle, che presuppongono solo lo spazio e l’impenetrabilità, come estensione, forma, solidità, numero, mobilità. Solo che questa distinzione di Locke, facile a trovarsi, e che si mantiene alla superficie delle cose, fu quasi soltanto un preludio giovanile di quella di Kant. Questa invero, partendo da un punto incomparabilmente più alto, spiega tutto ciò, che Locke aveva lasciato valere come “qualitates primarias”, ossia proprietà della cosa in se stessa, come del pari appartenente solo alla manifestazione di essa nella nostra facoltà intellettiva, ed invero proprio perciò, che le condizioni di essa, spazio, tempo e causalità, ci sono note “a priori”. Dunque Locke aveva sottratto dalla cosa in sé la parte, che gli organi dei sensi hanno nella sua manifestazione; Kant però ora ne sottrasse anche la parte delle funzioni cerebrali (quantunque non sotto questo none); per cui adesso la distinzione del fenomeno dalla cosa in sé acquistò un significato infinitamente più grande, ed un senso assai più profondo. A questo scopo egli dové imprendere la grande separazione della nostra conoscenza “a priori” da quella “a posteriori”, il che prima di lui ancor non era mai avvenuto con la debita precisione e perfezione, né con chiara conscienza; nondimeno ora questo divenne la materia principale delle sue profonde investigazioni…
[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]Il processo di autodistruzione della ragione: il processo di dissoluzione parte dal tardo medioevo, con Guglielmo di Ockham, se non prima, con Pietro Abelardo, ma è Kant, colui che separa radicalmente e irreversibilmente il fenomeno dal noumeno, la cosa come appare dalla cosa in sé, che conduce a compimento tale processo di disintegrazione. [/stextbox]
Lasciamo al buon vecchio Schopenhauer la responsabilità di queste iperboliche lodi, come pure quella di non aver visto che la sua bestia nera, quegli che lui considerava il cialtrone filosofico per eccellenza, Hegel(6), è, al contrario, l’erede più che legittimo di Kant: che altro è, infatti, l’aver ridotto tutto il reale a pensiero, se non la logica conseguenza di aver ridotto il pensabile all’esperibile, e aver messo fra parentesi quel che resta fuori? Se le qualità esistono (e sia pure le qualità primarie: ma è rigorosa, è davvero scientifica a distinzione fra primarie e secondarie?), ma sono inerenti al pensiero piuttosto che alle cose in se stesse, allora è il pensiero, e non la realtà, l’oggetto del nostro conoscere; ma in tal caso, come stupirsi che arrivi un filosofo ancora più audace, e anche più
coerente, il quale, partendo da tali premesse, dichiara che tutta la realtà è pensiero, e quindi il pensiero non è una qualità dell’essere, ma l’essere una qualità del pensiero? A questo pazzesco capovolgimento del giusto ordine delle cose Hegel non è arrivato da solo: è stato Kant, tanto calorosamente applaudito da Schopnehauer, che gli ha fornito la corda per impiccarsi. Quanto più lontano aveva saputo vedere Berkeley(7), il quale aveva negato la distinzione fra le qualità primarie e secondarie, concludendo, dopo un attento esame, che le qualità sono tutte secondarie, e dunque sono tutte soggettive. In effetti, ammettere la distinzione cartesiana e lockiana, che è poi la distinzione kantiana, fra ciò che è e ciò che appare, crea inevitabilmente una schizofrenia: da un lato ci sono le cose quali ci appaiono, ma che costituiscono la sola realtà a noi accessibile; dall’altro, ci sono le cose in se stesse, delle quali non si può dir nulla, perché non sono esperibili, e quindi sono sì pensabili, ma che senso ha pensare ciò che non potrà mai essere constatato? In effetti, il noumeno è il caput mortuum del criticismo kantiano: se ne sta lì, in disparte, ineliminabile ma sostanzialmente inutile: non serve a nulla, e tuttavia non si può far finta che non ci sia. Dopotutto, esso è la garanzia che le cose ci sono e che il mondo esiste, e che ciò che noi esperiamo non è solo il delirio di un pazzo: in teoria, dunque, è la chiave di volta di tutto; in pratica, il filosofo procede sulla via del conoscere ignorandolo del tutto, andando avanti come se non ci fosse. Non è molto logico e non ha molto senso.
[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]La filosofia moderna non è altro che un graduale, metodico, inesorabile processo di autodistruzione della ragione: risultato? oggi il vero pazzo non sospetta la propria pazzia, al contrario, si ritiene il più savio degli uomini. È tipico dei pazzi credersi savi, ed è tipico dei savi temere d’impazzire. [/stextbox]
A suo modo, è più logica e più sensata la filosofia di Hegel, che riduce tutto a Pensiero, non si sa bene di chi, pensiero di se stesso; se delle cose in sé non possiamo dir nulla, non ci resta che dire: il
nostro dire scaturisce dal pensare, e il pensare è la sola cosa certa. Capire chi sia il soggetto pensante, è un altro paio di maniche: a ogni giorno basta la sua pena. Questo, del resto, è tipico della cultura moderna: perché farsi tanti problemi in anticipo, perché rovinarsi la digestione, preoccupandosi in anzitempo di un problema che potremo risolvere in un secondo momento? L’abbandono del sistema (il tanto vituperato “sistema”, cioè della metafisica), il pragmatismo, il riduzionismo, il pensiero debole, il pensiero a termine, il pensare come tecnica senza un perché, la scelta dei mezzi slegata dai fini: tutto nasce da qui. In fondo, è un oblio della serietà del pensare; ed è nato dall’oblio della serietà della vita. Solo se si parte dal presupposto che il mondo ha un senso, e quindi anche il nostro esistere ha un senso, solo in questo caso il pensiero si pone sui binari giusti: cerca di capire come e perché. Ma se si sorvola su questo presupposto, il pensare si riduce a un voler spiegare, anche senza aver capito. La filosofia moderna si è specializzata in quest’arte pazzesca, aberrante: vuol spiegare ogni cosa, sul modello della scienza moderna, galileiana e sperimentale, al punto da sentenziare che, se pure vi è qualcosa che essa non può spiegare, quel qualcosa non ci riguarda minimamente (anzi è meglio gettare nel fuoco i libri che ne parlano, come esorta a fare David Hume(8)); però non si preoccupa di comprendere, perché per comprendere bisogna porre la questione del senso: infatti non si può comprendere una cosa che non abbia senso. Ma dire che del noumeno nulla sappiamo, è la stessa cosa che dire che non sappiamo se il reale abbia un senso, oppure no. Intanto costruiamo le macchine, manipoliamo la materia, cloniamo gli esseri viventi: poi, forse, cominceremo a domandarci che senso abbia. Lo facciamo, perché è possibile, e più non dimandare. L’essere, che è la cosa in sé, si comporta allo stesso modo: si nasconde, non si lascia vedere; e, così facendo permette che ciascuno se ne vada per la sua strada, indipendentemente dalla ricerca del fine comune. Forse il fine comune non esiste: tanto vale che ciascuno insegua il proprio fine particolare. Ebbene, questo è un pensiero aberrante, perché semina il caos nel quale oggi stiamo annaspando; un caos intellettuale prima ancora che sociale, politico, economico, morale, culturale.
I filosofi antecedenti alla modernità, e solo pochi filosofi che in essa si son trovati a vivere, ma senza subirne le pressioni e i ricatti, come Kierkegaard(9), bensì tenendo alta la bandiera della vera libertà del pensiero, si sarebbero vergognati di giungere a simili conclusioni. Essi infatti sapevano che la vera libertà non è la libertà assoluta: sia perché questa è impossibile, essendo un attributo
divino, sia perché, se anche fosse possibile, porterebbe l’uomo a diventare nemico di se stesso. L’uomo, creatura finita, ma con l’ardente nostalgia dell’infinito, non può né appagare da solo tale nostalgia, né deve negarla, attribuendo a se stesso le prerogative divine, perché in entrambi i casi finisce per esorbitare dal proprio statuto ontologico, mettendosi in un vicolo cieco, il che gli frutterà solo delusione, amarezza e dolore. La filosofia moderna esalta la curiositas, ma nega o ignora la virtus: è, paradossalmente, sia una filosofia della hybris, della dismisura, perché rivendica all’uomo l’esercizio di possibilità che non gli appartengono, sia una filosofia della rinuncia e della sconfitta, perché si mortifica da se stessa in ciò che di più grande ha l’uomo: la profondità di un pensiero che non pensa in maniera slegata, difforme e perfino contraria al senso dell’essere, il quale ultimo comprende, spiega e supera il pensiero, conducendolo fin là dove esso, da solo, non potrebbe mai giungere, cioè fino alle soglie dell’Essere. D’altra parte, una filosofia che dichiara inconoscibile la cosa in sé, è una filosofia dimezzata, buona per esseri dimezzati, che si adattano a vivere una vita dimezzata. E non solo dimezzati: sdoppiati, scissi. Il dramma dell’uomo moderno è essenzialmente questo: avendo perduto il riferimento con la cosa in sé, ha perduto anche la coscienza della propria unità interiore. È divenuto uno, nessuno e centomila; e dubita di tutto, perfino se la vita sia sogno o realtà (Calderon de la Barca), perfino se sia cosa migliore essere o non essere, vivere o morire (Shakespeare), perfino se la vita non gli sia stata data da un dio malvagio e beffardo (Leopardi) e se la libertà non gli sia stata data, come un dono avvelenato, per la sua maledizione e la sua infelicità (Montale, Sartre).
[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]Kierkegaard, fu uno dei pochi a tenere alta la bandiera della vera libertà del pensiero: sapeva che la vera libertà non è la libertà assoluta, sia perché questa è impossibile, essendo un attributo divino, sia perché, se anche fosse possibile, porterebbe l’uomo a diventare nemico di se stesso. [/stextbox]
Non si esce da questo vicolo cieco, se non tornando all’unità dell’essere, superando la divisione tra fenomeno e noumeno. E non si torna all’unità dell’essere se non si recupera l’unità della coscienza. E non si recupera l’unità della coscienza se non si torna alla consapevolezza dello statuto ontologico dell’uomo: al senso del suo limite, al senso della sua grandezza, al senso della sua vocazione. Fino a quando l’uomo moderno continuerà a considerare irraggiungibile e indefinibile la cosa in sé, non farà alcun passo avanti, non riuscirà a superare il punto morto. Certo, è evidente che le cose come appaiono a noi non sono, in tutto e per tutto, le cose in se stesse; ma di qui a dire che sono due cose diverse, ce ne corre. Non sono due cose diverse, bensì due aspetti di una stessa cosa. Il fenomeno non è una realtà separata dal noumeno, perché, se lo fosse, sarebbe anche staccata da esso, il che è assurdo: se fossero due realtà staccate, in che modo il noumeno si manifesterebbe a noi come fenomeno? Invece sono la stessa cosa, ma il fenomeno è ciò che noi riusciamo a percepire direttamente del noumeno, mentre quest’ultimo è la cosa nella sua intima verità. Una mela, direbbe san Tommaso d’Aquino, è sempre una mela: solo che se un osservatore è daltonico, non la vede dello stesso coloro che la vedono gli altri; e se è estremamente miope, da una certa distanza non saprebbe nemmeno identificarla. Eppure è sempre lei: sia che resti posata sul tavolo, sia che la guardiamo da lontano; sia che ci sia molta luce, sia che ve ne sia poca. Anche noi siamo sempre noi, perché, se fossimo nessuno o centomila, non staremmo qui a tormentarci con questo dubbio: infatti è un dubbio che può sorgere solo da parte di una coscienza unitaria. Se la coscienza non fosse unitaria, non ci sarebbe alcun dubbio, ma solo la consapevolezza di essere degli io differenti; nel qual caso resterebbe da spiegare come sia nata la credenza nell’io. Allo stesso modo, solo colui che ha conservato almeno un barlume di ragione può dubitare di essere pazzo; ma il vero pazzo non sospetta la propria pazzia, al contrario, si ritiene il più savio degli uomini. È tipico dei pazzi credersi savi, ed è tipico dei savi temere d’impazzire. Ora, la rinuncia alla cosa in sé ha introdotto la pazzia nel mondo perché solo la cosa in sé, essendo ciò che è e venendo riconosciuta come tale, garantisce la verità di tutto il resto. Senza la cosa in sé, o meglio senza la fiducia di poter riconoscere – non diciamo di comprendere – la cosa in sé, viene meno qualsiasi criterio di verità, per cui tutto diventa fluido, relativo, evanescente. Il mondo allora è una foresta da incubo, disseminata di specchi che ci rimandano all’infinito l’immagine di uno sconosciuto inquietante, allucinato, che siamo noi stessi…
Francesco Lamendola
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Note
- (1) Blaise Pascal – Esprit de géométrie ed esprit de finesse. Pur essendo un matematico e un fisico, Blaise Pascal (1623-1662) sottolinea come la scienza abbia dei limiti costitutivi che ne “inibiscono” l’utilità e ne restringono notevolmente il campo d’azione. L’esprit de finesse è, in Pascal, la capacità intuitiva che appartiene più al sentimento che alla ragione; in pratica è la capacità di intuire il bene. La distinzione tra esprit de géométrie ed esprit de finesse è chiarita da un’altra famosa distinzione introdotta da Pascal, quella tra la ragione (raison) e il cuore (coeur). La ragione è la facoltà di conoscere scientificamente, cioè matematicamente, e si esprime sia nell’intuizione (anche, in molti casi, sensibile) sia nella deduzione, e corrisponde a quello che Pascal definisce esprit de geometrie. Il cuore, invece, a volte è inteso da Pascal in senso ampio, e allora s’identifica con la facoltà intuitiva in generale, a volte invece inteso in senso più proprio, e allora è la facoltà di intuire la verità della religione e della morale: s’identifica così con l’esprit de finesse. “Il cuore, non la ragione, sente Dio; – scrive Pascal – ecco che cos’è la fede: “Dio sensibile al cuore non alla ragione”. Altrove: “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Il cuore, in particolare, è la facoltà che ci permette di comprendere e accettare le “prove” storiche e morali, su cui si fonda la religione cristiana, cioè le testimonianze, la tradizione e i miracoli.
- (2) Guglielmo di Ockham, od Occam (in latino Gulielmus Occamus, in inglese William of Ockham; Ockham, 1288 – Monaco di Baviera, 1347), è stato un teologo, filosofo e religioso francescano inglese. Nel 1324 ad Avignone fu accusato di eresia dal Cancelliere dell’università di Oxford, John Lutterell, che aveva estratto una lista di cinquantasei articoli dal Commento alle Sentenze; il pontefice Giovanni XXII nominò una commissione d’inchiesta composta da sei membri che esaminò cinquantuno sue enunciazioni teologiche. Dopo un primo rapporto, giudicato non abbastanza severo, ne fu redatto un secondo nel quale 7 articoli furono condannati come eretici, 37 dichiarati falsi, 4 ritenuti ambigui o temerari o ridicoli, 3 non censurati. Nonostante questo giudizio la condanna formale da parte di Papa Giovanni XXII, per motivi sconosciuti, non fu mai pronunciata.
- (3) Pietro Abelardo (Le Pallet, 1079 – Chalon-sur-Saône, 21 aprile 1142) è stato un filosofo, teologo e compositore francese, talvolta chiamato anche Pietro Palatino a seguito della latinizzazione del nome della sua città di origine. Precursore della Scolastica, fu uno dei più importanti e famosi filosofi e pensatori del medioevo. Per alcune idee fu considerato eretico dalla Chiesa cattolica nel Concilio Lateranense II del 1139. Nel corso della sua vita si mosse da una città all’altra fondando scuole e dando così i primi impulsi alla diffusione del pensiero filosofico e scientifico. Conquistò masse di allievi grazie all’eccezionale abilità nel padroneggiare la logica e la dialettica, e all’acume critico con cui analizzava la Bibbia e i Padri della Chiesa. Ebbe come temibile avversario Bernardo di Chiaravalle, che non gli risparmiò nemmeno le accuse di eresia. Le sue idee religiose, e in particolare le sue opinioni sulla Trinità, si collocavano in effetti al di fuori della dottrina della Chiesa cattolica, tanto da essere condannate dai concili di Soissons (1121) e di Sens (1140). «Non si deve credere in nulla se prima non lo si è capito.» (Pietro Abelardo, Historia Calamitatum, IX)
- (4) Il noumeno nella filosofia di Platone, “io penso, pondero, considero” rappresenta una specie intelligibile o idea e indica tutto ciò che non può essere percepito nel mondo tangibile, ma a cui si può arrivare solo tramite il ragionamento. Il noumeno, come concetto, fonda l’idea di metafisica in Platone. Secondo Sesto Empirico, già Anassagora avrebbe contrapposto ciò che è pensato a ciò che appare = i fenomeni. Il noumeno compare anche nella filosofia di Immanuel Kant (dove è anche chiamato cosa in sé, in tedesco Ding an sich). In Kant il noumeno è un concetto dai caratteri problematici che si riferisce ad una realtà inconoscibile ed indescrivibile che, in qualche modo, si trova “al fondo” dei fenomeni che osserviamo, sullo sfondo, al di là dell’apparenza (di come cioè le cose ci appaiono).
- (5) Arthur Schopenhauer (Danzica, 22 febbraio 1788 – Francoforte sul Meno, 21 settembre 1860) è stato un filosofo tedesco, uno dei maggiori pensatori del XIX secolo e dell’epoca moderna. Il suo pensiero recupera alcuni elementi dell’illuminismo, della filosofia di Platone, del romanticismo e del kantismo, fondendoli con la suggestione esercitata dalle dottrine orientali, specialmente quella buddhista e induista. Schopenhauer crea una sua originale concezione filosofica caratterizzata da un forte pessimismo, la quale ebbe una straordinaria influenza, seppur a volte completamente rielaborata, sui filosofi successivi, come ad esempio Friedrich Nietzsche, e, in generale, sulla cultura europea coeva e successiva, inserendosi nella corrente delle filosofie della vita. La volontà spinge l’uomo a desiderare, agire, lottare, soffrire, ma è situata fuori dallo spazio e dal tempo; la volontà è unica e universale, cieca e malvagia, in quanto non regolata dalla ragione. La realtà è assurda, insensata, priva di ogni scopo (irrazionalismo). L’essere umano non ha possibilità di scegliere: crede di perseguire proprie finalità e di prendere decisioni in piena autonomia, ma non è così, perché chi decide per lui è la volontà con il suo cieco impulso alla vita e alla sopravvivenza, all’istinto di conservazione e di perpetuazione della specie. Schopenhauer parlava dell’Io come di una voce che rimbomba in una sfera cava di vetro e se si cerca di afferrare questa voce, che sembra la propria, ma non lo è, ci si rende conto di abbracciare un fantasma. Gli individui sono un capriccio di questa volontà di vivere, di questa entità anonima che parla in tutti gli esseri viventi, dalle formiche all’uomo, “siamo come dei ghirigori che la volontà di vivere traccia nella lavagna infinita dello spazio e del tempo” o ancora, siamo come i personaggi della commedia dell’arte italiana, Pantalone e Colombina, che ripetono sempre la loro parte e in un certo modo non vivono ma sono vissuti, non pensano ma son pensati, non agiscono ma sono agiti. Anche Freud parlò dell’Io in questi termini, dicendo che non è padrone in casa sua, che non guida la danza, un Io che deve districarsi tra varie istanze psichiche e tra varie forze, che non può controllare.
- (6) Georg Wilhelm Friedrich Hegel (Stoccarda, 27 agosto 1770 – Berlino, 14 novembre 1831) è stato un filosofo tedesco, considerato il rappresentante più significativo dell’idealismo tedesco. Hegel è autore di una delle linee di pensiero più profonde e complesse della tradizione occidentale: la sua riflessione filosofica, sistematica e onnicomprensiva, influenzerà il pensiero di Goethe e contribuirà alla revisione critica della filosofia kantiana. La filosofia hegeliana è stata definita, tra l’altro, come “idealismo assoluto”. La filosofia di Hegel segna una svolta decisiva all’interno della storia della filosofia: da un lato, molti dei problemi classici della filosofia moderna verranno riformulati e problematizzati diversamente, come il rapporto mente-natura, soggetto-oggetto, epistemologia-ontologia (in ambito teoretico) o i temi relativi al diritto, alla moralità, allo Stato (in ambito pratico e morale); dall’altro, vengono ripensati la dialettica (col suo momento positivo, quello negativo e il momento di superamento/conservazione, Aufhebung in tedesco, della contraddizione), la distinzione fra eticità (a sua volta distinta in Stato, società civile e famiglia) e moralità, fra intelletto e ragione, ecc. Inoltre verrà data maggiore importanza a temi tradizionalmente non facenti parte della filosofia a pieno titolo (arte, religione, storia). Filosofia in primis e, in seconda battuta, religione e, infine l’arte, sono tre momenti dello Spirito assoluto dopo lo Spirito soggettivo e quello oggettivo (con l’eticità che costituisce la sintesi della moralità e del diritto; quest’ultimo è il più astratto).
- (7) George Berkeley (Kilkenny, 12 marzo 1685 – Oxford, 14 gennaio 1753) è stato un filosofo, teologo e vescovo anglicano irlandese, uno dei tre grandi empiristi britannici assieme a John Locke e David Hume. Per Berkeley l’unico scopo autentico della filosofia è quello di confermare e avvalorare la visione della religione: è Dio, infatti, l’unica causa della realtà naturale. Nei Commentari filosofici scrive che, se l’estensione esistesse al di fuori della mente, o si avrebbe a che fare con un Dio esteso, oppure si dovrebbe riconoscere un essere eterno e infinito accanto a Dio. Berkeley aderisce quindi all’immaterialismo ovvero alla dottrina per cui nulla esiste al di fuori della mente: non esiste la materia, ma solo Dio e gli spiriti umani. «Le idee che ci facciamo delle cose sono tutto ciò che possiamo dire della materia. Perciò per “materia” si deve intendere una sostanza inerte e priva di alcun senso, della quale però si pensa che abbia estensione, forma e movimento. È quindi chiaro che la nozione stessa di ciò che viene chiamato “materia” o “sostanza corporea” è contraddittoria. Non è quindi il caso di spendere altro tempo per dimostrarne l’assurdità.» (Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, § 9)
- (8) David Hume (Edimburgo, 7 maggio 1711 – Edimburgo, 25 agosto 1776) è stato un filosofo scozzese. È considerato il terzo e forse il più radicale dei British Empiricists (“empiristi britannici”), dopo l’inglese John Locke e l’anglo-irlandese George Berkeley. La filosofia di Hume è spesso definita come uno scetticismo radicale dal punto di vista teorico e moderato dal punto di vista pratico. Il suo pensiero può inoltre essere inscritto all’interno del naturalismo. Gli studi su Hume hanno spesso oscillato nel dare più importanza alla componente scettica (evidenziata dai positivisti logici) e coloro che hanno dato risalto al lato naturalista. Quel che è certo è che ebbe una decisiva influenza sullo sviluppo della scienza e della filosofia moderna.
- (9) Søren Aabye Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855) è stato un filosofo, teologo e scrittore danese, il cui pensiero è da alcuni studiosi considerato punto di avvio dell’esistenzialismo. La sua filosofia prese corpo da un doppio rifiuto, ossia il rifiuto della filosofia hegeliana (“dove Hegel finisce, lì press’a poco comincia il Cristianesimo; l’errore è semplicemente che Hegel pensa di avere a questo punto liquidato il Cristianesimo: anzi di essere andato molto più in là!”) e l’allontanamento dal vuoto formalismo della Chiesa danese. «Non c’è nulla che spaventi di più l’uomo che prendere coscienza dell’immensità di cosa è capace di fare e diventare.» (Søren Kierkegaard)
Fonte
Libri Citati
- Il mondo come volontà e rappresentazione.
- Testo tedesco a fronte
- Arthur Schopenhauer
- Curatore: S. Giametta
- Editore: Bompiani
- Collana: Il pensiero occidentale
- Anno edizione: 2006
- In commercio dal: 4 ottobre 2006
- Pagine: LXX-2288 p., Rilegato
- EAN: 9788845257100. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/mondo-come-volonta-rappresentazione-testo-libro-arthur-schopenhauer/e/9788845257100?lgw_code=1122-B9788845257100&gclid=Cj0KCQiAv8PyBRDMARIsAFo4wK1mEnPQb_-wF4GNxJeN4GM7FEaBomschiuQNxRShPUs6hoUOcqLlOwaApgPEALw_wcB” btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista. € 41,25[/btn]
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