Il declino degli imperi è sempre tumultuoso e drammatico

FENOMENOLOGIA DEL DECLINO: CINQUE PEZZI FACILI

Il Simplicissimus

Il declino di un impero non è mai un evento improvviso, ma un processo tumultuoso e drammatico, segnato da illusioni di grandezza, corruzione interna, incapacità di adattarsi, accelerazione delle crisi e, infine, una caduta spettacolare.


I Cinque Pezzi del Declino:

1️⃣ L’illusione dell’onnipotenza – Il momento in cui il potere crede di essere eterno e infallibile, ignorando i segnali di fragilità.

2️⃣ La corrosione interna – Il degrado istituzionale, la corruzione e la perdita di coesione sociale minano le fondamenta del sistema.

3️⃣ L’incapacità di adattarsi – Gli imperi in crisi si aggrappano a modelli obsoleti, rifiutando il cambiamento e aggravando la loro vulnerabilità.

4️⃣ L’accelerazione del crollo – Gli eventi si succedono rapidamente: crisi economiche, sconfitte militari, insurrezioni interne e perdita di legittimità.

5️⃣ La spettacolarizzazione della fine – Il declino si trasforma in un dramma collettivo, tra farsa e tragedia, spesso accompagnato da atti disperati di chi detiene il potere.

Nel presente, mentre alcuni imperi moderni mostrano segni di affaticamento e fragilità, possiamo riconoscere in tempo i sintomi del declino? Oppure la storia è condannata a ripetersi con le stesse dinamiche? Attraverso un viaggio tra passato e presente, questa riflessione offre una chiave di lettura per comprendere i grandi collassi della storia e forse, anticipare quelli che verranno. (f.d.b.)

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Il declino degli imperi è sempre tumultuoso e drammatico soprattutto nella fase in cui non si è ancora del tutto preso della realtà e si cerca in qualche modo di impedirne gli sviluppi. La seconda presidenza Trump è quella destinata appunto a mettere in luce la decadenza mischiando la debolezza con la forza bruta, tentando il tutto e il contrario di tutto, mentre si cerca di nascondere la ripida discesa del potere planetario andando contro l’evidenza dei fatti e rimanendo prigionieri non solo delle menzogne dell’altro giorno, ma anche di pregiudizi duri a morire che continuano ad essere ciclostilati nelle menti dei cittadini.

Comincerò con un esempio facile quanto eclatante sul piano cognitivo: il New York Times, da sempre uno dei maggiori ciambellani mediatici alla corte di Washington (per un momento astraiamoci dalla battaglia politica in corso), proprio ieri ha tirato fuori un articolo sulla Cina che nulla ha da invidiare ai peggiori bar sport dell’universo mondo. Scrive che l’ex celeste impero produce un vasto numero di laureati Stem (l’acronimo con cui in Usa si designano i laureati in materie scientifiche e tecniche ndr.) ma non è nota per l’innovazione. I fattori culturali e politici possono aiutare a spiegare il perché”. Ricordate gli anni ormai lontani in cui si diceva che i giapponesi sapevano solo imitare? Beh, è la stessa stronzata, solo che in questo caso non ha proprio nessun appiglio. Come si misura infatti l’innovazione, soprattutto quella tecnologica? Ovviamente dai brevetti che vengono registrati. Ed ecco qui sotto la classifica del numero di brevetti per Paese stilato dall’Ompi ovvero dall’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale:

Come si vede la Cina doppia ampiamente gli Usa nonostante il fatto che molti brevetti di altri Paesi vengano comunque registrati in Usa. Capisco che c’è da chiudere la ferita provocata da Deep Seek allo smisurato ego americano, ma la palese esagerazione dimostra che la lingua batte dove il dente duole, senza peraltro che ci sia un dentista nei paraggi.

Altro esempio, questa volta più diretto  è la difficoltà di Trump e dei suoi uomini di elaborare una strategia di pace per l’Ucraina, perché essi partono da presupposti totalmente errati: il primo, preso acriticamente dalle balle di Kiev, è che i russi avrebbero subito 1 milioni di morti, mentre le perdite sono meno di 90 mila, il secondo proviene da un vecchio pregiudizio secondo cui la Russia sarebbe debole e che ora si troverebbe sull’orlo di una devastante crisi economica, quando invece sta crescendo come mai prima. Quindi non riescono a comprendere perché Mosca non si butti a corpo morto sulle proposte di un cessate il fuoco o di un congelamento del conflitto. La sola cosa chiara dentro questa confusione che gli Usa hanno chiesto al semi stato dell’unione che si chiama Gran Bretagna di presiedere il gruppo di difesa dell’Ucraina, il che vuol dire che la Casa Bianca – come del resto è evidente dalle molte dichiarazioni in questo senso – intende che sia l’Europa a farsi carico di un’ulteriore appoggio a Kiev. E per la Ue questo è davvero un terremoto che probabilmente manderà a remengo la von der Leyen e la sua cricca di guerrafondai. Non tutto il male viene per nuocere.

Terzo fatto è il tentativo di Trump di ridurre il deficit della bilancia commerciale Usa attraverso i dazi e quindi di mettere una pezza all’enorme debito americano. Ma i dazi significano anche aumento dei prezzi, soprattutto in un Paese che si è volutamente deindustrializzato e dove la maggiore attività è di fare denaro attraverso il denaro. Ciò vuol, dire inflazione e riduzione della domanda il che porterà un minor apporto di dollari alla gigantesca bolla del mercato finanziario statunitense che rischierà di scoppiare ancor prima del previsto. Ma la decadenza significa proprio che le opzioni si diradano o che hanno tempi troppo lunghi per essere efficaci.

Questo ci porta al quarto punto: l’illusoria guerra ai Brics, promettendo dazi del 100 per cento per chi non commercia in dollari: è una mera follia perché non solo accentua l’aspetto precedentemente trattato ma rende più evidente il pesante bastone che gli Usa vogliono imporre a tutti. In più non tiene contro del fatto che da anni i Brics commerciano tra di loro nelle proprie valute. D’altronde tutta l’economia americana si basa sul dollaro come valuta di riserva universale e che una volta detronizzato il biglietto verde, gli Usa sarebbero finiti come potenza planetaria che succhia risorse ovunque come un vampiro.

Infine e siamo alla quinta questione: da una parte Trump appoggia Netanyahu nel piano di trasferimento dei palestinesi della striscia di Gaza in Egitto e Giordania, già peraltro formulato da t a Tel Aviv ormai due anni fa. E si illude che ricattando questi Paesi con lo spettro della cessazione degli “aiuti” che gli Usa forniscono per tenerli dentro il Washington consensus, essi ubbidiranno. Ma il fatto è che in Egitto domina la fratellanza mussulmana nonostante i tentativi di Al Sissi di circoscriverla e che in Giordania una notevole parte della popolazione è di origine palestinese: questa situazione non sarebbe accettata. Dunque questi regimi si troverebbero ben presto in bilico molto più che se mancassero i finanziamenti americani. Tuttavia anche se questo piano riuscisse, Trump e l’America si assumerebbero in prima persona la responsabilità di questa pulizia etnica dopo la strage. La caduta di immagine sarebbe clamorosa e l’effetto complessivo sarebbe quello di trasferire la questione palestinese dalla striscia di Gaza a tutto il Medio Oriente.

«VACANZE MARITTIME A GAZA»

Insomma, è un mondo fattosi labirintico dove il vecchio leone tenta di raggiungere la gazzella e non ci riesce, mentre nelle sue notti agitate sogna di poter uccidere un bufalo come ai bei tempi. Ma quelli sono ormai tramontati e non è che ruggendo tutta la savana tremi.

Redazione

 

 

 

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