Il suicidio ha da sempre convogliato a sé lo sguardo dello scienziato sociale, finendo per divenire vero e proprio spartiacque

FENOMENOLOGIA DEL SUICIDIO:

LA QUESTIONE GIAPPONESE

Sostenere che quanto seguirà sia frutto di un’analisi meticolosa, basata su innumerevoli statistiche e altrettanti dati raccolti e confrontati, è un azzardo alquanto impossibile. S’intende dunque scoraggiare con detta premessa qualsiasi tipo di critica metodologica, poiché non da ricerca è avvalorata la trattazione, bensì dall’osservazione del mondo con prospettiva sociologica, cercando di vivere e rivivere quell’avventura della teorizzazione di cui ci parla O’Byrne[1].

Suicidio e sociologia

Il suicidio ha da sempre convogliato a sé lo sguardo dello scienziato sociale, finendo per divenire vero e proprio spartiacque, materia oscura indagata e tradotta da autorevoli osservatori nel campo della psicologia e della sociologia. Volontariamente tralasciando i suicidi vesanici [2], ossia realtà permeate da fattori extrasociali, ci concentreremo sulla dimensione sociologica dell’azione suicida, riprendendo in questa premessa la definizione data dallo stesso Durkheim: “Si chiama suicidio ogni caso di morte che risulti direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo, compiuto dalla vittima stessa consapevole di produrre questo risultato[3].

Animati da un bonario collettivismo metodologico s’indagherà del suicidio come mero fatto sociale; di qualsiasi maniera di fare, fissata o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esteriore. O anche, un modo di fare che è generale nell’estensione di una data società, pur possedendo un’esistenza propria, indipendente dalle sue manifestazioni individuali[4].  Cercheremo dunque di identificare ed estrinsecare l’esteriorità delle maniere di agire, pensare e sentire in rapporto all’individuo e alla coercizione che questi ne subisce, estendendo le appendici della teoria alla realtà circostante, in special modo al fenomeno del suicidio in Giappone nell’era pandemica.

Suicidio e cultura nipponica

Se il suicidio è un fatto sociale non si defluirà certo nell’errore affermando che esso è altresì un fenomeno culturale, la cui lettura e interpretazione ha natura mutevole al variare della società di riferimento. Occorre quindi definire un parametro di lettura del lemma cultura affinché non s’incappi in un’ambiguità interpretativa.

Non è sforzo vano voler cercare una regola di lettura, giacché il termine è da sempre stato oggetto di uno sforzo di definizione nelle teorizzazioni sociologiche, che spesse volte, in special modo agli arbori, hanno attinto all’antropologia non poche cose, allineandosi all’idea che la cultura sia il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico, in relazione alle varie fasi di un dibattito evolutivo, o ai diversi periodi storici, o alle condizioni ambientali.

Liberarci dai preconcetti

L’animo di chi scrive è d’influenza parsonsiana, diremo dunque che la cultura è costituita da sistemi strutturali o ordinati di simboli che sono gli oggetti dell’orientamento dell’azione[5].  Cultura quindi come insieme dei modelli di comportamento che la comunità sociale ritiene validi, su cui esiste un consenso sociale e una condivisione, e che, i membri di tale società, sono tenuti a rispettare e trasmettere alla generazione successiva.

In virtù di quanto enunciato è innegabile come la pratica del suicidio in Giappone affondi la legittimità dell’azione nella validità e nella condivisione di un mal celato consenso sociale, e che proprio detta pratica sia stata tramandata di generazione in generazione, farcendola di una semantica pregna di eroismo, o da preferire/adottare come panacea al mal de vivre. Per comprendere l’avviluppato legame tra il suicidio e cultura nipponica dobbiamo però liberarci da preconcetti e prenozioni; svuotandoci con metodo dal sistema strutturale cristiano-occidentale cui siamo assoggettati, per nascita e geografia.

Giri(義理)

Fatto ciò si potrà comprendere che il suicidio e la morte, come intenzionale conseguenza prodotta dall’atto dell’autore, non sia per i giapponesi priva di significato o dolore.  Al mutare della struttura sociale mutano altresì le pratiche; e l’azione suicida, che per sistema occidentale è lacerazione della trama, vissuta con empatica emotività da parte dell’intera collettività, assume invece dimensione e significato personale-individuale nel da noi differente sistema giapponese. Un sistema la cui tradizione affonda e trova fondamento nel concetto chiave del Giri(義理); valore fondamentale per la cultura giapponese, la cui traduzione approssimativa risulterebbe essere dovere, obbligo o anche onere dell’obbligo.

Giri può essere meglio definito come un obbligo sociale, le cui forme e azioni di assolvimento collocano il sé, l’individuo, in relazione alla società.  Alcuni storici sociali ritengono che la pervasività di questo concetto nella cultura giapponese sia un riflesso dello statico ordine feudale che ha definito la società giapponese per secoli.[6] A conferma di questa tesi possiamo citare il Jūshichijō kenpō, una raccolta di norme, o per meglio dire precetti morali, ispirati a valori confuciani, buddhisti e taoisti, scritta dal principe Umayado (574 – 621-622).

In questo editto vennero fissate delle norme che regolano ancora oggi il legame tra i debiti sociali, on, e le loro forme di pagamento, giri.  Osservando i fatti sociali contemporanei è evidente come giri e on siano alla base di quel rapporto di obbligatorietà sociale, passivamente contratto, cui è assoggettato ogni individuo che farà del giri una sorta di risarcimento morale per non deviare dal sistema. Ne consegue che l’assunzione di un debito attivi una forma di pagamento definita all’interno dell’area relazionale coinvolta, con gesti e forma mentis stabilite. La comprensione delle dialettiche dell’obbligatorietà innestate dal rapporto dell’on e del giri è fondamentale per interpretare i modi di pensare e di agire dei giapponesi. Tutti i giri confluiscono nel più importante giri congenito, il giri del buon nome che non rientra nell’articolato rapporto degli on.[7]

Risulterà quindi all’occhio dell’esperto, facendo dell’interpretazione dei fatti sociali metodo d’indagine e risoluzione, che taluni fenomeni osservabili in Giappone, come quello di togliersi la vita in risposta ad un momento di difficoltà, potrebbero essere influenzati da questi canoni culturali di obbligatorietà sociale e morale; altresì confermati e validati dalla salvaguardia del giri del buon nome, al cui ledere seguirà un lento sgretolamento della propria individualità sul piano sociale e familiare, avviando quel macchinoso dibattito di alienazione dal gruppo che condurrebbe all’atto estremo del suicidio come unica soluzione per ristabilire un’esistenza parietaria.

Suicidio e covid-19. Anomia o fatalismo?

Per la prima volta dopo undici anni il tasso di suicidi in Giappone è tornato a salire. Lo studio, pubblicato su Nature Human Behaviour, prende in considerazione due diversi periodi del 2020 e mette in luce come ci sia stato un netto cambiamento tra la prima fase della pandemia e la seconda. I tassi mensili di suicidio sono diminuiti del 14% durante i primi 5 mesi della pandemia (febbraio-giugno 2020), complici una serie di ragioni complesse, tra cui i generosi sussidi del governo, la riduzione dell’orario di lavoro e la chiusura delle scuole. Al contrario, i tassi mensili sono aumentati del 16% durante la seconda ondata (luglio-ottobre 2020), con un aumento maggiore tra le donne (37%), i bambini e gli adolescenti (49%).[8]

Seguirà ora un’intuizione si spera plausibile e motivata. Riferendoci al testo di Durkheim e alle categorie di suicidio identificate dallo studioso francese, possiamo iniziare a categorizzare questi fenomeni, sottolineando l’importanza della diversità della dimensione sociale osservata dallo studioso, che differisce per complessità da quella a noi contemporanea.

Delle categorie identificate sembra compito semplice interpretare questo aumento dei suicidi in Giappone farcendoli di una componente anomica. Ma è realmente così? Non è forse che questi suicidi, intesi come fatto sociale, hanno una peculiare connotazione di confine tra l’anomia e il fatalismo, creando un paradosso che di fatto lo stesso Durkheim non poteva osservare ai suoi tempi?

Siamo indubbiamente di fronte ad una situazione anomica, data da uno stato emergenziale che crea una frattura, una rottura, una interruzione tra ciò che viene percepito come usuale, routinario e quindi consueto. Quando subentra l’evento emergenziale l’ordine normale della quotidianità viene infranto, cadono dunque, o cambiano drasticamente e repentinamente, regole comportamentali e norme morali o etiche a cui si è fortemente vincolati. È a questo punto che si realizza un paradosso, quando la rottura, e quindi la perdita di valori e norme precedentemente acquisite, è sostituita da una disciplina e da regole ferree imposte dispoticamente nel breve periodo, escludendo qualsiasi possibilità di adattamento sociale.

Questa situazione richiama al suicidio fatalista, tipico di un eccesso di regolamentazione forzata e dispotica; esso si verifica quando la vita di una persona è eccessivamente regolamentata, quando il futuro è bloccato senza pietà e le passioni soffocate violentemente da una disciplina oppressiva. È l’opposto del suicidio anomico e appare nelle società troppo opprimenti, realtà che si traduce nell’ambizione della morte da preferire all’eccessiva e morbosa regolamentazione. Nell’emergenza pandemica da Covid-19 sta avvenendo esattamente questo, un eccesso di disciplina, controllo del tempo e dello spazio, riduzione e svilimento delle libertà e dei processi di autodeterminazione, distanziamento sociale e repressione di impulsi e passioni che hanno portato inevitabilmente alla lacerazione della trama sociale e delle consuetudini che, come le stelle per il navigante esperto, ci indicano il sentiero da seguire per non abbandonare la “norma maestra”.

Donato Sergi

 

Bibliografia

  • [1] Darren O’Byrne,  Fondamenti e teorie, Pearson Italia, Milano – Torino, 2017.
  • [2] Émile Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia, 1897.
  • [3]
  • [4]Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico, 1895.
  • [5]Talcott Parsons, Sistema sociale, 1951.
  • [6]Welzel Christian, The Asian Values ​​Thesis Revisited: Evidence from the World Values ​​Surveys, 2011.
  • [7]Davide Sirchia, Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018.
  • [8]Japan Statistics Bureau and Statistics Center.

 

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