”A Ferragosto si addice la leggerezza
FERRAGOSTO, UN ASINELLO E IL VIAGGIO
A Ferragosto si addice la leggerezza, finanche un pizzico di grazia. È il culmine dell’estate, la fastidiosa sequenza di saracinesche chiuse per ferie, la speranza che il solleone lasci il posto ai primi temporali; un tempo sospeso, vissuto a una certa età sul filo della memoria che riveste di rosa il passato a paragone di un presente insopportabile intristito da troppi gravami, tra cui il tempo che scorre inesorabile.
Ferragosto è la festa più antica: feriae Augustae,(1) i giorni del riposo istituito dall’imperatore romano dopo il duro lavoro dei campi. La pratica intelligenza latina sapeva unire potere, religione e senso comune nella circolarità delle stagioni. Ferragosto rinnovava le vecchie feste dette “consualia”, dedicate a Conso, dio della terra e della fertilità. Ricorreva il primo agosto, non il quindici: lo spostamento è frutto dell’appropriazione cristiana, che lo fece coincidere con la celebrazione dell’assunzione in cielo di Maria.
Oppresso dal caldo, ingrigito, intristito dalle vuote strade di città, è il momento delle emozioni. Personali, mie e solo mie, come esclusivamente tuoi, amico lettore, sono i sentimenti che serbi nel cuore. Emozioni. È stata fortunata la mia generazione ad avere per colonna sonora le canzoni di Lucio Battisti, sui testi, poetici senza presunzione, di Giulio Rapetti in arte Mogol. Altro che le lagne rap e trap, il baccano allucinogeno tecno e il resto della musica di oggi, alimento del nichilismo.
Seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poiRitrovarsi a volareE sdraiarsi felice sopra l’erba ad ascoltareUn sottile dispiacereE di notte passare con lo sguardo la collina per scoprireDove il sole va a dormireDomandarsi perché quando cade la tristezza in fondo al cuoreCome la neve non fa rumore…
Basta, torniamo alla leggerezza: per me il brano più straordinario del duo magico Mogol Battisti resta, appunto, Emozioni. Inno alla giovinezza temeraria e alla sete di esperienze, anche estreme. “E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere
se poi è tanto difficile morire”. Inno all’intimità, “uscir dalla brughiera di mattina dove non si vede ad un passo, per ritrovar se stesso.” Soprattutto, canto all’irripetibilità di ogni vita, all’irriducibile soggettività di ciò che siamo: “e chiudere gli occhi per fermare qualcosa che è dentro me, ma nella mente tua non c’è. Capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi emozioni.”
Per qualche motivo, evoca una lirica di Walt Whitman: Canto me stesso, e celebro me stesso. Capire tu non puoi, ma se hai qualche minuto da buttare via seguimi al muro del tempo, nel labirinto delle mie emozioni, quelle genuine del bambino che ero. Emozioni di ferragosto, che all’epoca significava stare con papà, che lavorava di notte e quel giorno era in festa. La mia prima emozione (capire forse puoi…) è un ferragosto di tantissimi anni fa. In una sceneggiatura si scriverebbe “Nervi esterno giorno, un parco, un uomo e un bambino.” Io, naturalmente. I parchi di Nervi sono un vasto, lussureggiante polmone verde di piante esotiche, prati, fiori, vialetti e ville incastonato tra il mare e il sobborgo signorile di Nervi, estremo levante di Genova. Amo quella silenziosa foresta urbana. Da piccolo ero affascinato dalla varietà delle piante e degli alberi, che trasportavano la mente infantile in viaggi esotici, panorami immaginari, avventure sognate.
Mi sentivo Sandokan nei romanzi di Salgari, ma il vero oggetto del desiderio era il giro sul calessino trainato da Pippetto, un mite asinello rivestito di nastri di mille colori. I genovesi della mia generazione associano i parchi di Nervi a Pippetto, come i nostri figli e nipoti agli scoiattoli – introdotti successivamente – richiamati battendo tra loro due noci. Il primo viaggio con Pippetto lo feci a Ferragosto, vicino al viso raggiante di papà. Lo so perché conservo una fotografia ingiallita di quel giorno, sul cui retro un timbro datario ha fissato giorno e mese. L’anno, per civetteria, non lo rivelo. Di quella foto e di quel breve viaggio ricordo tutto: il sorriso felice di un giovane uomo orgoglioso del figlio, i miei occhi tuffati nell’immensità vegetale, il lento tragitto tra i viali e gli alberi, la carezza finale sul muso del buon asinello, la maglietta blu a righine. Da quella volta, Pippetto è il simbolo del mio ferragosto infantile, un rito irrinunciabile.
Poi l’asinello morì e il viaggio dell’anima si interruppe. Lo scrissero anche sul giornale, quello dove lavorava papà. La fine di Pippetto fu il giorno in cui smisi di essere bambino. Mi ha lasciato tre amori: per i parchi, per tutti i somarelli del mondo e per il viaggio, inteso come esperienza, sequenza di paesaggi, scoperta di uomini e cose. Diventato adulto, lessi con tenerezza e sorpresa i versi di un poeta spagnolo, Antonio Machado. “Viandante, sono le tue orme il cammino e nulla più; viandante, non esiste sentiero: si fa la strada nell’andare. Nell’andare si segna il sentiero. E, voltando lo sguardo indietro, si scorge il cammino che mai si tornerà a percorrere. Viandante, non esiste sentiero, solo scie nel mare.”
So che è davvero così, perché così pensava – senza saperlo – quel bambino. Che visse una straordinaria esperienza di viandante un altro ferragosto. Papà aveva comperato l’automobile, la prima nella nostra famiglia di gente modesta, una Fiat Seicento di seconda mano, dal colore indefinito tra il bianco e il grigio, targata Alessandria. Era l’ora delle ferie e la meta era la montagna pistoiese, la casa di un commilitone di papà, il paese di Maresca che sarebbe diventato il mio luogo del cuore. Non c’erano autostrade e il tragitto era reso difficile, quasi eroico ai miei occhi, dalla lunga, interminabile strada del Bracco, il passo che divide la provincia di Genova da quella della Spezia.
Luoghi sconosciuti, circonfusi di un’aura mitica, estranea e sinistra, poiché la nonna – per niente inclusiva – sosteneva che “la Bassa comincia sul Bracco”, dove Bassa significava Italia meridionale. Per di più, il proverbio popolare – la nonna era un’enciclopedia dei detti antichi – asseriva “spezzini, o ladri o assassini”. Iniziai il viaggio convinto che avremmo dovuto superare pericoli di ogni genere, rassicurato dalle provviste della mamma e dalla circostanza che papà aveva fatto la guerra. Il Bracco si rivelò un piacevole susseguirsi di boschi punteggiati da paesini con le case colorate.
Arrivati nella località Foce, sopra La Spezia, rimasi a bocca aperta vedendo sotto di me la bellezza straordinaria del golfo. Scoprii poi che stavo osservando Portovenere, a destra, Lerici e Tellaro a sinistra. Immagino che la passione per la geografia sia nata davanti a quel panorama. La giornata straordinariamente limpida mostrava in lontananza le Alpi Apuane e gridai: la neve, la neve. Era marmo di Carrara, invece, quello delle statue di Michelangelo, dei templi e dei palazzi. Proprio vero: nell’andare si scopre il sentiero. Giunti alla Spezia, ecco un’altra scoperta: le persone non avevano le sembianze degli assassini, non erano ostili e l’unica differenza con “noi” era un accento strano, le “e” aperte e le “s” strascicate. Un punto contro la nonna, la constatazione che non era giusto affidarsi ai pregiudizi.
Il viaggio continuò, il naso restò all’insù e la bocca si aprì ancora transitando accanto alle montagne di marmo; poi un’emozione inattesa, una città circondata da mura, Lucca. Nonostante le insistenze mie e della mamma, nessuna fermata. Anche Lucca sarebbe diventata un mito: che cosa ci sarà oltre le mura, gelose custodi della città e dei suoi palazzi? Solo al ritorno scoprimmo le meraviglie della patria di Puccini e Ungaretti, ma quel nascondimento, quell’impossibilità di penetrare l’interno della città mi restarono dentro, un simbolo di mille misteri che il viaggio della vita non avrebbe svelato.
Alla fine, giungemmo a destinazione. Papà sbuffava, il cofano scottava e il bambino non sapeva ancora che Maresca, il bel paese sotto la foresta del Teso,(2) sarebbe diventato tanto caro. Lì imparai l’italiano: Manzoni sciacquò i panni in Arno, io, più modestamente in un torrentello chiamato Occhiali. Lì trascorsi per anni le estati più belle, tra i boschi, le corse in bicicletta, la ricerca dei funghi, la cattura delle vipere (potete immaginare con quali paure materne) e il calcio balilla alla Casa del Popolo, dove c’erano anche il juke-box e il gioco delle freccette. Lì imparai ad amare le montagne e a capire la fatica degli abitanti, operai e insieme contadini.
In più, tra i paesini correva (correre, beh, è parola grossa) una ferrovia a scartamento ridotto, il trenino dei montanini. Diventò un altro oggetto del desiderio, quasi come il carrettino di Pippetto. Da tanto non c’è più, sostituita da anonimi autobus, e da allora quei luoghi incantati hanno perso un po’ del loro fascino. Lungo il percorso si vedeva uno strano monte diviso a metà, detto Libro Aperto per la sua forma singolare. Che l’amore per la lettura sia nato per l’associazione di idee venuta chissà quando a un paesano fantasioso?
Perché ho aperto questo diario minimo, insignificante, che i sapienti chiamerebbero residuo della memoria a lungo termine, importante solo per chi lo custodisce in un angolo del cuore, un file in una cartella impolverata del computer, se esistesse polvere nella memoria virtuale? Ma perché è Ferragosto ed è festa, il riposo antico voluto da Augusto, la sospensione del viaggio che chiama alla pausa e all’introspezione, e perché inseguire la memoria – fingere di bloccarla – è uno scampolo di eternità.
Chiedo scusa per il tempo perduto, che Proust afferrò nel profumo delle madeleines, i dolcetti della madre immersi nel tè di tiglio. Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Roberto PECCHIOLI
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