No Tempo, mai ti vanterai ch’io cambi!

Le piramidi che innalzi con rinnovata potenza

non mi dicon niente di nuovo, nulla di strano

non son che nuove vesti di cose già vedute […]

William Shakespeare, Sonetti 123

Ognuno di noi ha provato la netta e improvvisa sensazione di avere già vissuto in un passato indefinibile situazioni assolutamente identiche: di aver conosciuto una certa persona che incontra per la prima volta, di aver già visto un luogo in cui non è mai stato, d’aver già pronunciato frasi che non ha mai detto. A tale sporadica, labile e improvvisa impressione di paradossale riconoscimento dell’impossibile si accompagna l’acuta consapevolezza che la percezione attuale non corrisponde ad alcun ricordo effettivo. Sappiamo anzi perfettamente che solo ora stiamo vivendo, per la prima volta, quella determinata esperienza. Eppure la convinzione di ripercorrere frammenti di passato è, per alcuni istanti, così netta e imperiosa da riempirci di sconcerto e da provocare un disorientamento temporale.

Più dell’80% delle persone ha sperimentato nella propria vita il fenomeno psichico del déjà vu. Praticamente tutti quindi almeno una volta abbiamo avuto la sensazione di aver già vissuto un’esperienza, visitato  un luogo, o avuto un dialogo con una determinata persona, anche se in realtà era una circostanza del tutto originale, mai vissuta prima. Nonostante l’ampia diffusione del fenomeno e il fascino che da sempre l’accompagna però, solo negli ultimi anni gli scienziati hanno cercato di dare una spiegazione scientifica al déjà vu. Secondo studi di alcuni anni fa, il déjà vu sembrava fosse dovuto a un’alterazione mnemonica. Ci sembrava quindi di aver già vissuto un determinato momento perché nel cassetto della nostra memoria, per sbaglio, era stato depositato un ricordo falso.

Durante il breve scorrere delle sequenze del “déjà vu” sembra talvolta di essere addirittura capaci di predire quel che sta per accadere, come se conoscessimo l’immediato futuro e sapessimo ciò che ancora ignoriamo. O come se assistessimo a uno spettacolo già visto, di cui anticipiamo la scena successiva. Così proprio mentre una parte di noi si rende conto che il tempo cronologico continua inesorabilmente a scorrere, per l’altra ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà sembrano invece marciare in parallelo.

È come trovarsi dinanzi a un “trompe-l’oeil” temporale, a un falso e illusorio riconoscimento di una situazione da parte della memoria, a un ragionevole ricordo del presente.

Nel 1993 uscì un bellissimo film: Ricomincio da capo (Groundhog Day) diretto da Harold Ramis ed interpretato da Bill Murray e Andie MacDowell. Phil Connors è un insopportabile meteorologo televisivo che, controvoglia, deve recarsi nella piccola città di Punxsutawney, in Pennsylvania, per fare un reportage sulla tradizionale ricorrenza del Giorno della Marmotta.

Qui però rimane intrappolato in un circolo temporale: ogni mattina, alle 06.00 in punto, viene svegliato dalla radio che trasmette sempre lo stesso brano musicale (I Got You Babe di Sonny & Cher), e da allora la giornata trascorre inesorabilmente allo stesso modo della precedente. Gli eventi si ripetono esattamente uguali ogni giorno, e lui ben presto impara a sfruttarli per passare una giornata stravagante, spendere soldi, conquistare donne, imparare a suonare il pianoforte. Ma ogni tentativo di sedurre la bella collega Rita fallisce invariabilmente.

Alla lunga questa vita ripetitiva lo porta però alla depressione e a tentare continuamente il suicidio, nei modi più strani, ma il giorno dopo si risveglia comunque, sempre nel Giorno della Marmotta. Durante uno di questi giorni Phil si confida con Rita che, comunque scettica, gli offre il consiglio di dedicare questa vita intrappolata ad aiutare il prossimo. Phil capisce così che non può in un singolo giorno – ovviamente – aiutare tutti, ma può migliorare se stesso. Scopre così i suoi talenti e capisce i bisogni altrui, il che lo rende un uomo apprezzato ed amato, insomma, un uomo migliore.

Alla fine tutto ciò lo porta ad uscire dall’incantesimo, e a trovare finalmente il vero amore.

Negli ultimi anni il fenomeno del déjà vu è stato sottoposto ad una serie di ricerche psicologiche e neurofisiologiche che ci permettono di avere alcuni dati al riguardo.

Esiste uno studio realizzato da Akira O’Connor dell’Università di Leeds in cui è stato analizzato il caso di un uomo di Sidney, un professore di letteratura cieco dalla nascita che presentava continue sensazioni di “déjà vu”. Le sue esperienze si basavano su sensazioni improvvise di andare in luogo nuovo per la prima volta e sentire che lo conosceva già oppure di parlare con persone sconosciute e credere che fossero amicizie già consolidate. Questo studio ha permesso di dedurre che il déjà vu non si basa esclusivamente sul canale visivo, ossia quando si vede una strada per la prima volta e ci si sente sopraffatti da una serie di sensazioni inesplicabili che forse si avrebbero avuto lo stesso anche ad occhi chiusi.

In termini religiosi ha dato luogo all’idea della trasmigrazione delle anime, una metempsicosi dove in un lampo ci ricordiamo di vite trascorse. Un atteggiamento condannato dalla Chiesa, Sant’Agostino diceva che era una trappola del demonio. Aristotele sosteneva che quelli che dicevano di aver vissuto esperienze precedenti erano dei pazzi, mentre Nietzsche lo considerava un ritorno all’uguale. Noi viviamo le stesse esperienze in una circolarità enorme: accettiamo il passato senza rimpianti e guardiamo al futuro con innocenza. Per Freud non era una pura illusione, ma una reale fantasia radicata nell’inconscio.

Dunque un fenomeno in apparenza così trascurabile ha attirato su di sé, specie tra Ottocento e Novecento, l’attenzione quasi ossessiva di scienziati, poeti e filosofi, che vi hanno individuato un microcosmo in cui s’incrociano e si scontrano, diversamente modulati, i desideri, i disagi, le paure, le fantasie, i rimpianti, i progetti e i pensieri più riposti degli uomini.

Ha fornito alimento alla poesia di Shakespeare, Rossetti, Verlaine o Ungaretti, di Benjamin o di Bloch, alla filosofia di Henri Bergson che un secolo fa scrisse Le souvenir du présent et la fausse reconnaissance, e al fiorire delle spiegazioni mediche e psicologiche del fenomeno.

Ma gli attimi del “déjà vu” si rivestono talvolta anche dei solenni paramenti dell’estasi (delle esperienze di fuoriuscita dal tempo ordinario) per assumere allora la fisionomia e la risonanza di stati privilegiati dell’esistenza. È come se, grazie a loro, si lacerasse un velo e avessimo l’improvvisa visione di uno scenario profondo ed enigmatico, che riceve luce da una fonte nascosta.

Si dice che il tempo sia irreversibile, il déjà vu è simile a un granello di sabbia che inceppa  per un attimo il collaudato funzionamento di quell’ingranaggio e incrina la fede da una inscalfibile e monolitica realtà.

Sebbene l’espressione “déjà vu” sia relativamente tarda (coniata nel 1876 da Émile Boirac ed esplicitamente tematizzata da Louis Dugas nel 1894), il fenomeno è antico ed è stato sicuramente sperimentato da quasi tutti e, da alcuni, con inquietante frequenza, come il caso di Lamartine e di Pirandello. Il primo, ha sostenuto: «Non ho quasi mai incontrato un luogo o una  cosa la cui prima vista non fosse per me come un ricordo! Abbiamo vissuto due volte o mille volte? La nostra memoria non è che uno specchi appannato che il soffio di Dio ravviva?» Pirandello si espresse in questi termini: «Qualche volta uomini nuovi e paesi mi sono parsi ritratti e paesaggi d’una galleria che debbo aver visitata molto tempo fa, chi sa quando […]. Ho sempre tutto, e più che mai gli uomini, dovunque».

Se questo fenomeno è parso a Lamartine il soffio chiarificatore di un Dio sullo specchio appannato della coscienza, e ad Agostino l’inganno di un demone; potrebbe trattarsi del soffio del nostro respiro, occasionalmente capace, nei rari momenti in cui riesce a far evaporare l’ovvietà, di far riflettere nitidamente le nostre speranze, le nostre paure, le idee e le illusioni più nascoste.  Borges diceva che «basta una sola “ripetizione” per dimostrare che il tempo è un inganno» o che esso si ripete.

Con le parole del sonetto 123 di Shakespeare si potrebbe allora dire:

«No Tempo, mai ti vanterai ch’io cambi!/Le piramidi che innalzi con rinnovata potenza/non mi dicon niente di nuovo, nulla di strano/non son che nuove vesti di cose già vedute./È breve l’arco della vita, perciò guardiam stupiti/il vecchio che ci imponi come fosse nuovo,/e che vogliamo credere fatto a nostro gusto/piuttosto di pensare che già ne udimmo dire./Io ti sfido Tempo e sfido i tuoi registri,/perché non mi sorprende il tuo presente od il passato/le tue vestigia mentono e mente quanto vediamo/fatto grande o piccolo dalla tua continua furia:/questo io ti giuro e questo manterrò,/a scorno tuo e della tua falce, io non cambierò».

BIBLIOGRAFIA

«Piramidi di tempo. Storia e teoria del déjà vu» Remo Bodei – Il Mulino. Anno 2006

«Il déjà vu» Alan S. Brown . Rubettinon Editore . Anno 2008 

 

Immagine: La persistenza della memoria Salvator Dalì,  – 1931 –  Museum of Modern Art di New York.

 

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