”In una celebre lettera, san Girolamo racconta di un sogno, o piuttosto di un incubo, che segnò la sua carriera di scrittore cristiano del IV secolo. Aveva rinunciato a tutti i suoi beni, alla famiglia, alla vita sociale, e si era ritirato a Betlemme per dedicarsi alla preghiera e all’ascesi. Aveva però portato con sé la sua biblioteca, che comprendeva numerosi autori classici tra cui, ovviamente, Cicerone.
Caduto malato, nel sogno si ritrovò al tribunale divino, presieduto da Cristo ; alla domanda del sommo giudice: «Chi sei?», Girolamo rispose con la formula utilizzata dai martiri cristiani : «Christianus sum, sono un cristiano». La replica lo lasciò atterrito: «Non sei un cristiano, sei un ciceroniano!» Svegliatosi in un bagno di sudore, Girolamo si risolse ad abbondonare ogni interesse per la letteratura profana, e si dedicò da allora in poi esclusivamente allo studio e alla traduzione latina della Bibbia, nota come Vulgata, rimasta sino al Vaticano II il testo biblico ufficiale della Chiesa cattolica.
In realtà, per la sua attività di esegeta Girolamo si guardò bene dall’abbandonare le risorse che la filologia e la retorica greca e latina gli mettevano a disposizione, la sua stessa prosa si ispira a un moderato classicismo di impronta ciceroniana. A ben vedere, sotto l’apparenza di una drammatica conversione intellettuale, il sogno indica come alle soglie del V secolo la letteratura dei cristiani non avesse ormai più alcun complesso di inferiorità nei confronti di quella classica; anzi, con questa si vuole confrontare sul piano della forma e dello stile, sia pure privilegiando l’esigenza di comunicare e insegnare a tutti, non più solo ad una ristretta élite. Non a caso, Girolamo fu autore di una raccolta di biografie di scrittori cristiani illustri, programmaticamente contrapposti a quelli pagani, greci e latini.
Sin dal II secolo i cristiani non avevano esitato ad inserirsi nel contesto comunicativo del mondo antico; se autori come Tertulliano proclamavano orgogliosamente la loro estraneità ad una cultura in declino, lo facevano pur sempre secondo i canoni della più avvertita retorica e con una strumentazione concettuale debitrice della tradizione filosofica. Proprio con la filosofia il cristianesimo stabilì un rapporto decisivo. Nel mondo antico, la filosofia era anzitutto uno stile di vita, in cui l’etica si sostanziava dei risultati della speculazione intellettuale, sotto la guida di un maestro. Cristo venne presentato come il maestro universale e la sua rivelazione come la «vera filosofia», che riassumeva in sé non solo i contenuti dispersi nelle precedenti tradizioni, ma anche gli exempla morali delle grandi figure del passato, Socrate più di ogni altro. A sua volta, questo incontro cambiò la struttura del filosofare antico: il discorso su Dio, la teologia, che sino ad allora costituiva una parte limitata nell’ambito della più generale speculazione metafisica, iniziò a rappresentare la finalità ultima cui indirizzare ogni attività intellettuale. Prese così avvio il cammino che condurrà alle artes del trivio e del quadrivio medievale; ma già Origene, Agostino, Plotino condividono la nuova gerarchia dei valori filosofici.
Sotto la penna degli scrittori cristiani, non solo i modi, bensì anche i grandi temi della filosofia antica si sono piegati a nuovi significati, e in questo modo si sono conservati e sono pervenuti ai nostri giorni. Il caso più celebre è quello del Logos, il Verbum, che dai filosofi stoici, attraverso il prologo del Vangelo di Giovanni, Giustino, Agostino e molti altri è giunto sino alle riflessioni di Benedetto XVI su fede e ragione del celebre discorso di Ratisbona del 2006, in cui il pontefice individua come intrinsecamente necessitato l’incontro tra il cristianesimo e la razionalità greca. Ma la lettura degli scrittori cristiani riserva sorprese ben altrimenti affascinanti. Commentando il Cantico dei cantici, Origene non esita ad attribuire a Dio i caratteri dell’eros dipinto dal Simposio di Platone: l’amore per la sua creatura spinge Dio a proiettarsi oltre se stesso nella forma di un amore che non solo richiede all’uomo di contraccambiarlo, ma addirittura trascina quest’ultimo a sua volta fuori di sé, nell’ekstasis della contemplazione. Idea ben presente ai mistici cristiani di ogni epoca, che sapevano cogliere la forza dirompente, leggendo eros e amo laddove noi risultiamo assuefatti alla resa, estenuata e senza nerbo, di «carità».
[stextbox id=’grey’ mode=’undefined’ bwidth=’2′ bcolor=’12e031′]Socrate: “Che mai sarà allora Eros? ”
Diotima: “Un grande demone, o Socrate: giacché tutto ciò che è demonico è qualcosa di mezzo tra dio e mortale”:[/stextbox]
Ancora, le riflessioni sviluppate nel Lelio da Cicerone sull’amicizia quale vincolo al tempo stesso sociale e affettivo saranno riprese da Agostino nella meditazione dei suoi trascorsi giovanili condotta nelle Confessioni e rilanciate in una chiave nuova, che pone questa volta il Dio cristiano a fondamento di ogni rapporto autentico tra gli uomini, superando così la frattura – drammaticamente avvertita da Cicerone – tra determinazione della ragione politica ed esigenze dell’animo individuale.
A questo incontro tra cristianesimo e tradizione classica è stato spesso rimproverato di avere snaturato i caratteri originali della predicazione e del messaggio di Gesù. Non va però dimenticato che già una parte significativa dell’ebraismo antico aveva consumato l’incontro con la lingua e la cultura greca nella cosiddetta traduzione della Bibbia dei Settanta(1), su cui ci informa la Lettera di Aristea; proprio questa Bibbia i cristiani fecero propria, fin quando Girolamo non si lanciò nell’impresa di tradurla ex novo dall’ebraico per il mondo latino. Soprattutto, le opere degli autori cristiani antichi divennero a loro volta oggetto di traduzioni e di rielaborazioni da parte di scrittori che, dal IV secolo in poi, presero ad esprimersi in una varietà di lingue (copto, siriaco, armeno, georgiano…) sino ad allora prive di dignità letteraria, dando origine a nuove culture e a nuove identità socio-religiose nel segno del cristianesimo e confermando così che la natura di quest’ultimo è intrinsecamente aperta all’incontro con le più diverse esperienze dell’uomo.
(1) La versione dei Settanta (Septuaginta in latino, indicata anche, secondo la numerazione latina, con LXX o, secondo la numerazione greca, con la lettera omicron seguita da un apice O’), è la versione della Bibbia in lingua greca, che secondo la lettera di Aristea sarebbe stata tradotta direttamente dall’ebraico da 72 saggi ad Alessandria d’Egitto; in questa città cosmopolita e tra le maggiori dell’epoca, sede della celebre Biblioteca d’Alessandria, si trovava un’importante e attiva comunità ebraica. Questa versione costituisce tuttora la versione liturgica dell’Antico Testamento per le chiese ortodosse orientali di tradizione greca. La versione dei Settanta non va confusa con le altre cinque o più versioni greche dell’Antico Testamento, la maggior parte delle quali ci sono pervenute solo in frammenti; fra queste ricordiamo le versioni di Aquila di Sinope, Simmaco l’Ebionita e Teodozione presenti nell’opera di Origene, l’Exapla. (Fonte Wikipedia)
Immagine: Raffaello, “La scuola di Atene”