Quanto è lungo il tempo delle nostre vite impiegato ad aspettare? Un amore, una telefonata, una nascita, ma anche l’esito di un esame, l’accettazione di un’offerta, un treno. Gran parte della nostra esistenza è una lunga attesa di qualcosa che è alle porte, ma che potrebbe anche non arrivare mai. Siamo in bilico tra certezza e dubbio, speranza e malinconia in attesa che…  La certezza è che il tempo di chi aspetta è un dono da coltivare con cura.

 

UN MOTIVO PER RIALZARSI

racconto

di

Martina Asia Bruzzone

 

Sono in metropolitana, devo raggiungere l’Università, e nel frattempo resto ad osservare quell’attimo minuscolo in cui la vita di qualche sconosciuto si fonderà per un attimo, uno soltanto, con la mia. Solo per poche fermate si è tutti parte dello stesso viaggio e riesco perfino ad ipotizzare la mobilia delle loro case, i volti dei loro amanti, ciò che hanno mangiato.

Come quella donna con le mani arrossate, vicino la porta, che stringe la busta del supermercato tra le mani, come se dovessero portargliela via da un momento all’altro. Si vede che non sa cosa cucinare, o forse è solo triste perché suo marito è sempre più distante. Continua a cucinare per farlo riavvicinare, ma lui pensa solo a ingozzarsi e a ingrassare a dismisura.

A volte ci sono dei pensieri così rumorosi che devo tapparmi le orecchie per sopportarne il peso. Anche oggi non so cosa succederà. Resto a guardare per capire come va a finire. La mia vita si sposta dove vuole lei. Io sono solo uno che non sa. Un romanzo di cui non si è accorto nessuno, nemmeno il mio editore, i tentativi di ottimizzare i miei percorsi con i mezzi pubblici, il dottorato in Lettere in scadenza. È come se soltanto io riuscissi a vedere un’alternativa praticamente invisibile che mi sta aspettando da qualche parte, nel mondo.

Non so cosa fare per fermare la morte di mia madre che è evidente essere inevitabile per tutti tranne che per me. Non so come rincollare tutti i cocci che genero ogni volta nell’impatto con la vita vera. E per quanto io cerchi di applicare un impegno maggiore, sono solo capace di creare altre imprecisioni.

Questa la mia vita nel preciso istante in cui ti ho visto per la prima volta. Quello stesso giorno, in facoltà. Ti ho visto e sapevi perfettamente dov’eri. Ti ho visto e sapevi perfettamente schivare ogni imprevisto. Anche il mio sguardo, nascosto bene da sei diottrie. Sapevi come guardare, attraversavi le cose, con una disposizione di lieve noncuranza. Io credo di averti amato per questo. Per la tua incapacità di accorgerti dell’impronta che sei capace di lasciare. Per la rivoluzione che nasce nel tuo nome e che poi fa a meno di te. Hai guardato il mio corpo, hai guardato le mie mani.

Ti ho chiesto dell’inquietudine di Montale, mi hai riposto che ti dispiaceva non averlo conosciuto. Ti ho chiesto, perché? Mi hai risposto che sarebbe stato bello ricevere un suo sms in cui magari ti scriveva “…Dicono che la mia sia una poesia di inappartenenza, ma se era tua era di qualcuno, di te che non sei forma, ma essenza.”

Ho soffocato un sorriso, ho firmato il tuo libretto, hai preso la tua borsa, mi hai guardato e sei uscita dall’aula. Sono passati molti altri studenti, e insieme sono passati anche molti giorni. Fino a quando, mentre cercavo di mettere a posto sulla mia scrivania, imprecando contro l’ordine che delimita il mio caos, ho sentito bussare alla porta e ho gridato

   «Non c’è nessunoooo!». Mi hai risposto entrando

   «Allora posso vedere la gente morta…».

Abbiamo riso di gusto. Mi hai chiesto se fosse possibile prendere dei libri dal Dipartimento. Ho cercato di essere gentile in un modo che non mi appartiene. E per motivi stupidissimi, tra l’altro. Perché avevi il colletto della camicia fuori posto, perché avevi un tatuaggio sull’anulare destro, perché c’era qualcosa di te che non capivo e che non era importante capire. Mi sentivo a disagio con i miei scarponi troppo pesanti per la primavera che c’era fuori. Sicuramente avrai pensato avessi dei problemi. Ed era vero. 

   «Questo è il libro, può compilare la scheda così abbiamo i suoi dati».

     «Sì…»

Mancina.

Il cuore esplode in milleuno pezzi. Scrivi veloce e non perché conosci bene il tuo nome, ma perché hai fretta di andare. Dove io non lo so, non lo potevo sapere. Ma ho immaginato forte. Ho immaginato il tuo corpo premuto stretto nell’ascensore imbrattato di scritte dell’Ateneo. Due uomini della Bartolini che occupano tutto lo spazio con gli scatoloni. Ti spingono in fondo, l’inchiostro a timbro sulla gonna. La scritta “Dio non c’è mai stato” si stampa sull’orlo del tuo vestito. Non te ne accorgi nemmeno e continui a camminare portando un comandamento in giro con te.

Guardi veloce tutte le bancarelle senza mai toccare niente, il tuo sguardo si posa su tutto e non rivendica niente. Sei sul 46, ti porta verso casa. Che non è la tua, ma è come se lo fosse. Perché ci sono i tuoi calzini sul termosifone, perché c’è una foto che ti assomiglia appesa sul frigorifero, perché ci sono i tuoi fluidi che viaggiano nelle tubature sotto al pavimento.

In cucina qualcuno ha dimenticato di fare i piatti, il sugo attaccato alla pentola, il frigo è abitato da tofu, zucchine, uova, panna, yogurt al bifidus di Marzia che è pigra.

Entri in camera tua, che affaccia su un terrazzo intriso di umido, lo stesso che adesso senti attraversarti la pelle non appena poggi il sedere sul lenzuolo impercettibilmente fradicio. Allunghi le gambe, in quel modo che poi diventerà così familiare per me. Il libro è già aperto sul tuo sterno, prima di leggere devi trovare la matita sul comodino e mettere la data sulla prima pagina. Un vezzo, come quello di conservare gli scontrini di qualsiasi cosa che non si sa mai.

Nella prima pagina, qualcosa ti sorprende e ti porta in un altro stato d’animo, diverso da quello che pensavi di dover indossare. C’è un numero di telefono scritto, in una grafia frettolosa. Quel numero è il mio. Scritto mentre cercavi la carta di identità nella borsa. Mai fatto un gesto tanto pericoloso. Non sai se sorridere, non sai se arrabbiarti, non sai. Dall’altra parte della città, ci sono io che non so se nella fretta ho sbagliato come sempre qualche cifra, magari il cinque potrebbe assomigliare a un sei… Vaffanculo alle penne a gel.

Invece tu hai chiamato. La tua voce filtrata a malapena da un Motorola invecchiato nelle tasche dei miei jeans. 

   «Ciao.»

   «Ciao…»

  «Sei tu?»

   «Io, sì, sì. Ma chi ‘tu’ cerchi…?»

   «Sei…sei…tu, l’assistente di… insomma, di comparata!»

   «Sì, sono io. Anche se per poco ancora.»

   «Allora sono stata fortunata.»

   «Ah…»

   «Sì, nel senso che se avessi trovato qualcun altro al posto tuo, magari non l’avrebbe capita la storia dell’sms di Montale…»

   «Ah…»

   «…»

   «Volevi dirmi qualcosa?»

   «Sì, dovevi chiedermela quando avevo più coraggio.»

   «E ora?»

   «Domani, in quella libreria con l’insegna messa al contrario, ci sarà un reading di uno scrittore. Potremmo vederci lì se ti và…»

   «Sì, va bene.»

   «Alle sette?»

   «Alle sette.»

   «Ok, a domani.»

   «Ciao…»

 

Per il giorno che era domani, ho indossato un pantalone blu di lino e una camicia bianca stirata molto male. Quando davvero le sette arrivarono, non solo nella mia testa, ma inequivocabilmente su tutti gli orologi del paese, ho raggiunto la libreria. Tu non c’eri ancora, per cui non puoi conoscere questo pezzo di storia, per questo devo raccontartelo.

Entrando la porta ha leggermente cigolato. Il rumore tipico di ingranaggio inceppato, di astinenza da olio. Le poche persone che erano presenti, già sedute e in attesa, si sono voltate infastidite, e ho sentito il mio viso avvampare. In fondo non era mica colpa mia se lo scrittore che aspettavano ero io…

Come sempre mi precedeva un’aura di delusione, tipo nube che mi avvolge, facendomi emergere dall’abisso di cui solitamente il mio corpo sprofonda. Ho preso posto sulla sedia in legno chiaro posizionata di fronte a tutte le altre. Ho potuto scorgere gli sguardi dei presenti farsi dubbiosi, avevano il libro tra le mani e poi guardavano il mio viso, cercando un’assurda somiglianza. Il titolare della libreria, in evidente stato di ebbrezza, ha fatto una breve introduzione, leggendo qualcosa da un foglio di carta stropicciata con delle vistose macchie di olio. Il ritmo delle sue parole era talmente rallentato che credevo di aver premuto distrattamente da qualche parte il tasto “slow down” sul suo corpo. Quando ha smesso di parlare, il silenzio che ha preceduto l’applauso, timidissimo, sembrava essere una minaccia anziché un incoraggiamento. Per cui ho cominciato subito a leggere le cose che avevo preparato. Ogni tanto sollevavo lo sguardo e mi guardavo intorno, per vedere se tra le pagine di qualche libro, poggiata sulle gambe degli astanti, spuntava per caso la canna di una pistola. Ad un tratto mi sono accorto di te, appoggiata allo scaffale dei classici con una gonna nera e una strana espressione dipinta sul viso. Allora la mia voce si è spaccata in mille toni. Chissà cosa avrai pensato quando mi hai visto lì, in quella libreria dai colori smunti e l’odore di incenso alla vaniglia.

Sentivo la gola riempirsi di lame per ogni parola che pronunciavo, non avevo più fiato e Giorgio, il libraio, mi guardava dall’angolo in cui si era nascosto, implorandomi di non mollare. In fondo quel reading l’aveva voluto lui, la mia casa editrice non ne sapeva nulla, ed io ero troppo dentro per evitare la collisione.

Quando ho smesso di leggere, ho tenuto gli occhi sui fogli, aspettando che l’impatto avvenisse. Non successe niente. Niente di particolare. La gente si levò dalle sedie, facendo strisciare i piedi sul pavimento. Qualcuno mi strinse anche la mano forse più per cortesia che per stima. Alla fine della processione verso l’uscita, c’eri tu che mi aspettavi. Da questo punto in poi, come è andata lo sai anche tu.

 

Siamo andati in un bar al di là della strada, camminando sospinti da un desiderio di vento. Nell’accomodarci al tavolo, guardavo insistentemente le lentiggini che ti riempivano il viso, rendendolo meno serio rispetto a ciò che tu avresti voluto.

Un Martini con ghiaccio, un amaro a stomaco vuoto, una manciata di anacardi frantumati subito dalla mia dispepsia. Fino a che non mi hai chiesto chi fossi, non sapevo dire esattamente chi ero. Da quella domanda in poi, ho sentito finalmente riaffiorare la complicità inattesa, da un universo parallelo che avevo sempre scorto con la coda dell’occhio. Un po’ era curiosità, un po’ era magia, ma le tue mani esili e lunghe come bacchette per cibo cinese da portar via, il collo bianco affogato nell’edera di una collana arrampicata tra le grinze, gli occhi accesi dallo scambio, e qualcosa di incomprensibile che continuava a crescermi dentro.

Se tutto fosse rimasto così, come quel momento, in cui pescavo a piene mani nella mia vita per cercare di trovarvi qualcosa di buono da offrirti, forse la ricerca non si sarebbe esaurita o fermata ai soliti avrei potuto. Dagli altoparlanti di quel bar, proveniva una musica leggermente in ritardo rispetto alle voci che si disperdevano intorno a noi. Il sole era quasi in pieno declino, ma per la nostra conversazione non era importante. Nemmeno le zanzare ci risparmiavano.

Nulla.

Tutta la vita si muoveva nella nostra direzione, ma niente riusciva a distoglierci dalle parole che comunque non dicevano niente di ciò che realmente provavamo. C’era qualcosa di latente che rimaneva attaccato al tuo smalto trasparente, al profumo della tua pelle, quando prendevi una ciocca di capelli e la riportavi dietro le orecchie. In quei piccoli movimenti, l’endorfina si librava nell’aria, percorreva e bagnava le strade di umido piacere.

A quel tavolo ho scoperto il senso della parola godere.

Godere è il piacere senza spiegazioni. In fondo eri una perfetta sconosciuta per me, seduta al mio stesso tavolo probabilmente per qualche coincidenza. Che ne potevo sapere io dei tuoi occhi appena sveglia, della faccia che fai quando hai fame, quando hai voglia di fare l’amore. Cosa potevo sapere di te?

Nulla.

Ma in fondo il nulla di quel primo incontro è stata l’aspettativa migliore che ho mai potuto avere. 

 

Quello che è venuto dopo è stato l’inizio di una storia destinata a cambiare completamente la mia vita. Ma era soltanto l’inizio e dall’inizio non si può pretendere nient’altro che qualcosa cominci. Il giorno in cui abbiamo fatto l’amore per la prima volta, quando ho messo le mani sul tuo corpo, ho capito che avevo paura. Perché è stato come guardarsi allo specchio.

Ti toccavo e mi sembrava di sentire su di me il calore delle mie stesse mani, scivolavo sulla schiena, accarezzavo gli omeri, sentivo come mia la tua pelle d’oca. Il tuo ventre piatto, con gli obliqui sporgenti, si incastravano alla perfezione nella mia carne, la colpivano mentre inseguivamo entrambi un piacere diverso. A volte arrivava come un eco da lontano, a cui dovevo arrendermi senza provare a lottare. Cercavo di assecondare i tuoi lineamenti fragili e spigolosi. Se mi mettevo su di te potevo guardarti, e godermi lo spettacolo dei tuoi occhi. Ma mi nascondevo anche tra i tuoi capelli, ti bagnavo il collo con i baci e la saliva.

E a te piaceva.

Ti piaceva sentirmi così, senza alcuna difesa, tra le tue braccia. Che non sono forti come le mie, ma al contrario sono piene di stenti. Il tuo fondoschiena, che sentivo sollevarsi e poi ricadere sul lenzuolo, a ritmo regolare, era una danza. Poi ti aggrappavi forte alle mie spalle, ti arrampicavi su di me, ti mettevi a cavalcioni perché potessi guardarmi dritto in faccia mentre godevo. I tuoi capelli lunghi appiccicati alla fronte, mentre restavi attaccata col cuore che sentivo battere forte dentro allo sterno.

Restammo immobili, in quella posizione, quel primo giorno in cui accadde l’amore. Lo abbiamo fatto non così presto e nemmeno così facilmente come per altre relazioni passate. Nemmeno per toglierci un pensiero o colmare una distanza. Era proprio necessario. Un’urgenza che andava al di là del semplice dare o avere. Io volevo esserti addosso, dentro, dappertutto. Ti mordevo, e sentivo ricucirsi tutti gli strappi di una vita spesa correndo sempre nella direzione sbagliata.

Ti sei addormentata con i fianchi coperti dal lenzuolo, le mani semi aperte. Sentivo il tuo odore tra le mie dita e mi sentivo instabile. Ho acceso una sigaretta alla finestra. Le luci gialle delle strade, qualche cane, un autobus fantasma, i rumori di un condominio nel cuore della sera. I pensieri mi hanno fatto il solco dentro, e forse per la prima volta ero dove volevo essere. Ho preso la penna e la busta della spesa poggiata sul tavolo e ho cominciato a scarabocchiare sulla plastica il mio nome.

 

Tutti i giorni dopo, li ho spesi sentendomi in una specie di buco spazio temporale. In sospensione, in leggerezza. All’università promuovevo tutti a priori, a casa mia madre sembrava lentamente guarire, e mio padre ringiovanire, scrivevo tantissimo, mi sembrava sempre più possibile vivere la mia vita. Come quella volta in cui eravamo al parco. Io leggevo sull’erba, tu lavoravi al pc. Ti ho guardato, e c’era un filo di luce che ti colpiva dritta in viso, disegnandoti una smorfia sulle labbra. La stessa che fai ogni volta che ti viene in mente una cosa che non puoi dire ad alta voce. Trattenerti ti rende diversa. Ti ho fatto l’occhiolino e ho ripreso a leggere. Tu invece hai spento il computer, sei venuta a sederti vicino a me, hai preso la mia mano e ti sei accarezzata da sola il viso, poi l’hai fatta scivolare lungo il cardigan, i fianchi, sulle cosce, sui jeans stinti. E lì ti sei fermata e mi hai detto con voce ferma: Ti desidero come se ti avessi già perso. Voglio fare l’amore qui davanti a tutti gli alberi. Voglio smettere di avere paura.

Ci siamo stesi sul plaid a contemplare le nuvole assumere ogni volta forme diverse. E mi hai parlato di te, prima di me. Mi hai detto di essere stata amata da uomini tutti molto diversi e spesso sbrigativi. In particolare, mi è rimasto impresso quello che si infilava nel tuo letto e ti penetrava con un colpo secco, sembrava prendere la mira, dicesti. Poi rimaneva a dimenarsi su di te con ritmo cadenzato, convinto che la virilità si esprima attraverso l’intensità della forza. Sfinito poi indugiava sul tuo corpo per un tempo lunghissimo in cui tu ti perdevi nei pensieri più diversi e che ti portavano in posti lontanissimi da lì. Pensavi alle mani di tuo padre, alla credenza da sistemare, ai pantaloni da ritirare in tintoria, al profumo di certi incontri, sentivi lo stesso vuoto che sentivo io, la stessa urgenza di essere in movimento.

Spesso mangiavamo patatine fritte per la strada con gli occhiali da sole, compravamo vino spagnolo, così per provare, tornavamo a casa e lo bevevamo sul terrazzo, mentre di sotto sentivamo smarmittare i motorini truccati. Poi guardavamo molti film, a piedi nudi, per godere di un po’ di fresco ed evitavamo accuratamente di dirci che stavamo bene. Per paura di crederci veramente. Ma in fondo spesso, le cose che ci rendono più felici, sono le stesse che riescono a infliggerci anche moltissima tristezza. Perché abbiamo paura di perderle, per paura che cambino le cose. Ma le cose cambiano comunque, anche senza il nostro consenso. 

Spesso viaggiavi per lavoro e dormivi in alberghi quattro stelle e ti divertivi a inviarmi fotografie di te, in asciugamano dopo la doccia, in pose assurde. Mi divertiva da morire il tuo modo di provocarmi. Un giorno me ne hai mandata una dove si vedevano solo le tue gambe, appoggiate in verticale alla spalliera del letto. Ti ho immaginata e ho preso il primo treno possibile. Sono arrivato in albergo che cenavi insieme ai tuoi colleghi. Ed eri splendida. Il vestito nero, i capelli raccolti, e le spalle scoperte. Sono rimasto nella hall ad aspettarti. Non dimenticherò mai la faccia che hai fatto quando mi hai visto. Hai sorriso e quel sorriso è diventato il mio viaggio migliore. In camera, abbiamo svuotato il mini bar, io mi sono ubriacato subito, ci siamo fatti un bagno caldo, abbiamo parlato di un sacco di cose inutili.

Il giorno dopo mentre lavoravi, ho fatto un giro in spiaggia, ti ho comprato un bracciale di perline, te l’ho lasciato sul cuscino e sono tornato a casa. Mentre rientravo in treno, mi hai mandato un messaggio in cui dicevi di amarmi davvero. Allora ti ho risposto chiedendoti se la precisazione avverbiale era dovuta al fatto che prima mi amassi per finta. Mi hai risposto subito dicendomi che sono demente. Ma per me le parole sono importanti. Le parole fanno accadere le cose, si scelgono con cura, sia che siano d’amore che usate per ferire. Le parole sono verbi, azioni, persone, stagioni, umori. Le parole sono promesse e spesso menzogne. Le parole determinano le nostre vite, camminiamo su di loro, loro sono la strada. 

 

È passato del tempo prima che tu ti trasferissi a stare da me. Nonostante i nostri quotidiani sforzi per rimanere distanti, c’era un elastico tra di noi che da lontani che fossimo, ad un certo punto inevitabilmente ci riportava vicini. In realtà tu ad un certo momento hai preso posto nell’altra metà del letto, e da trascorrere qualche fine settimana, sei rimasta anche il lunedì, poi il martedì, poi il mercoledì… Io non dicevo nulla, ti guardavo silenzioso muoverti nella mia vita e nel mio calendario. Cucinavi, assaggiavi il sugo con la punta della lingua sul cucchiaio di legno, come fossi sempre stata lì. Nella mia cucina.

Quando rientravi dal lavoro, mi cercavi in tutte le stanze, perché io per scrivere vago, a volte sul divano, sul letto, sul tavolo della cucina e quando finalmente mi trovavi prendevi la mia testa tra le mani e infilavi il naso nei capelli, io affondavo il viso tra i tuoi seni. Mi dicevi, sei il mio ossigeno.

La nostra storia è stata una questione di sopravvivenza. Non semplice resistere. Non solo saper dire no. La vita è ben altra resistenza, che si concentra sempre su ciò che non puoi avere, su ciò che non riuscirai a poterti dare. Si dovrebbe poter godere di certi sguardi all’infinito, di certe alchimie per sempre. Poi il dottorato è scaduto ed io mi sono ritrovato senza lavoro per un po’ di tempo. E mia madre è morta… Mentre sceglievo una crema solare, mentre cercavo di capire quale fosse il fattore di protezione più adatto alla mia pelle. Sono chiaro ma prendo il sole facilmente. Il commesso del supermercato mi ha elencato le meravigliose proprietà di tutte quelle che erano presenti sullo scaffale. Aveva un po’ di foruncoli sparsi sul viso, dei capelli oleosi, una gomma da masticare in bocca. Non so perché ma l’ho immaginato senza pollici. Alla fine ho optato per un burro protezione 30. Quando sono uscito dal negozio, una telefonata mi ha raggiunto alle spalle, accoltellandomi. Non ho mai pensato alla morte come ad un evento che potesse riguardarmi. La morte, prima che ci riguardi, tocca solo agli altri. La morte non entra nella vita eppure ne è il suo epilogo perfetto. L’unica circostanza in cui i piani non vengono stravolti, ma rispettati. Si vive fino a che non si muore. E si è morti fino a che non si è capito come vivere.

Sono arrivato a casa non correndo come ci si aspetterebbe. Ho camminato lentamente rigirandomi il tubetto di crema tra le mani. Quanto mi sono sentito stupido e inadeguato. Mentre mia madre spirava io compravo una crema. Certi momenti richiedono solennità. Che so, perlomeno comprare qualcosa di cui non si può fare a meno, della schiuma da barba. Allora per la prima volta mi sono accorto che non era immortale come avevo sempre sospettato. Anche quando le diagnosticarono la malattia che prima l’ha resa rabbiosa e poi l’ha svuotata di ogni difesa, invece che sprofondare nell’oblio, ho creduto che lei ce l’avrebbe fatta. Lei che era talmente forte da prendere le teglie dal forno senza bisogno dei guanti, non poteva morire. Non così. Cazzo, non quando io sto scegliendo un’inutile crema solare. Un fattore protettivo del cazzo che non mi ripara, che non mi difende da ciò che realmente mi farà del male.

Sono arrivato a casa e c’era silenzio. Gli alberi di pino dello stradone sventolavano per il vento, spargendo aghi profumati di mare sui parabrezza. Tutto era uguale alla vita di prima, come se davvero niente fosse successo. Ho fatto le scale, ho cercato la chiave, ho aperto la porta. Azioni ripetute mille volte, gesti quotidiani. Ora dove finiranno? Ho visto mio padre appoggiato all’anta dell’armadio in camera. Mia madre diafana sul letto. Di cosa parleremo adesso? Il ronzio del condizionatore. Cosa vi ha unito per tutto questo tempo? Ha la bocca spalancata. Sarai capace di sopravvivere papà? È ancora calda. Perché non piangi? È solo un corpo che se ne è andato. Tra un po’ solo un corpo dentro una bara. E poi un corpo sotto la terra. E poi un corpo divorato dai vermi. E poi non sarà che polvere. Questo mi terrorizza. Il pensiero di qualcosa che rimane nonostante non ci sia più niente di noi. Ho pensato che sarebbe meglio se, al momento della morte, i corpi si disintegrassero. Si volatilizzassero. Di colpo. Se non ci sono più le parole, le intenzioni, i bisogni, che senso ha la nostra carne che rimane? Tutto quello che è avvenuto nei giorni a seguire è stata solo un’alterazione alle solitudini che, sia io che mio padre, ci portavamo dentro anche prima. La morte di mia madre non ha cambiato le nostre dinamiche familiari. Le ha soltanto rese più fragili e più giustificabili. Adesso potrò dare la colpa alla morte di mia madre, se lui non mi parla o non capisce la mia vita o se sembriamo due estranei con gli stessi identici occhi.

Tu hai continuato a rimanermi accanto anche quando mi nascondevo di pomeriggio dentro a cinema puzzolenti. O anche quando fingevo di leggere gli annunci di lavoro e invece giocavo al sudoku. O anche quando restavo per ore sul terrazzo con un cannocchiale, cercando disperatamente nelle vite degli altri qualcosa di simile alla mia. Chessò una nostalgia, una felpa, uno sguardo. Rimanersi accanto non è stato facile perché spesso sono capace di affondare in distanze che assomigliano ad assenze vistosamente presenti. Nel senso che puoi vedere dove sono ma è difficile che tu riesca a sentirmi. Tutto questo dolore si è trascinato per molti, moltissimi mesi. Fino a che non hai deciso di mollare la presa. Mi hai messo davanti a una scelta che non ho saputo prendere. Per questo sei andata via, portandoti anche ciò che restava di alcune mie bugie. 

 

Da quando non ci sei ho ricominciato a sperare. Perché le mancanze sperano sempre in qualcosa. La mattina preparo il caffè con estrema lentezza, poi mi doccio e mi rado con cura maniacale. Il ricordo di mia madre è sempre così forte che devo chiudere gli occhi e respirare piano. Scrivo molto meno, so perfettamente che non ho alcun talento per la scrittura. Non so per quale strana ragione continui a farlo. Continuare a farlo è l’unico modo che ho per continuare a credere che sono capace. In realtà dovrei soltanto smettere di buttarmi a capofitto nelle cose in cui non ho alcun tipo di talento, o forse ancora di più provarci con tutte le forze per riuscire ad ottenerne qualcosa di buono.

Non ho mai pensato di cercarti. Sempre per la stessa teoria del tutto o niente. Non ho mai pensato sarebbe bastato. Ci vuole qualcosa di più che una semplice intenzione. Ci vuole una dose di coraggio, di incoscienza. Bisogna saper cercare. Ma ho talmente tanti dubbi che preferisco galleggiare nel mio acquario di intenti e cercare un modo per evadere. Un giorno ho fatto un elenco di tutte le cose che avrei dovuto provare a sistemare. L’elenco non era molto lungo, esclusi i lavori di casa, restavano il rapporto con mio padre, accettare la morte di mia madre, e il mio rapporto con te. Ho preso la lista e l’ho appallottolata nel cestino. Dopo una serie di dischi di Chet Baker e una decina di sigarette, ho recuperato la carta. Rileggendo m’è venuto una specie di rigurgito emotivo verso tutto ciò che continuava a rimanere senza forma, un agglomerato di gesti, istinti, disprezzo, di cose non dette al momento giusto, ma anche di cose bellissime perse in mezzo a tutto il resto.

Ho preso la mia giacca e sono andato a cercare mio padre. Di solito si trattiene al Dopolavoro comunale. Non lo vedevo da settimane, così magro e spaventato nel suo maglione blu. Ho aspettato che finisse, e ho lasciato che mi osservasse da dietro le carte napoletane. Non sapevo esattamente cosa gli avrei detto, era solo il bisogno di vederlo ancora vivo a muovermi. Quando ha finito di giocare, mi ha raggiunto mettendosi sottobraccio a me. Sembrava anche più basso di come lo ricordavo. Abbiamo camminato per qualche minuto senza parlare, poi lui ha rotto il ghiaccio chiedendomi del lavoro. Gli ho detto che ne stavo cercando uno, anche se non è del tutto vero. Ma non voglio si preoccupi per me. Sentivo il suo respiro pesante e faticoso, cercare degli argomenti. Gli ho chiesto come stesse. Mi ha risposto con un sto bene talmente sicuro che non ho avuto dubbi nel non credergli. 

   «Tua madre mi ha detto di lasciarti fare.»

   «Che vuol dire?»

   «Che devo guardarti da lontano senza intervenire. Che saresti venuto tu da me anche senza niente da dire. Che non ha senso insistere sul concorso per i vigili urbani, perché tu vuoi qualcos’altro. Che il fatto che tu sia così diverso da me non significa che non possiamo vederci ogni tanto, magari mangiarci una pizza, sperare che tu possa essere felice. 

   «Tu mi ci vedi con la paletta in mano?»

Sorrise lievemente. 

   «No, hai ragione. Saresti ridicolo.»

   «Mi viene in mente sempre la mamma.»

   «Già.»

   «Vorrei tornare indietro.»

   «Non si può.»

   «Vorrei essere stato migliore.»

   «Questa idea dell’essere migliori. Migliori rispetto a cosa, rispetto a chi? Tu sei sempre stato tu, è questa è una delle cose migliori che potessi fare. Ho cercato disperatamente di cambiarti, ma sei rimasto intatto. Anche nella tua idiozia. Tu sei sempre stato tu. E per quanto non capissimo le tue scelte, tua madre ha sempre visto in te qualcosa che io non ho mai visto.»

   «E cosa sarebbe?»

   «La possibilità che hai dentro. Le strade restano aperte, come i tuoi occhi. Non stai sbagliando strada, stai solo cercando quella giusta. La tua voce. La voce che è dentro di te, che sta solo bisbigliando, quella che dovrebbe urlare. Urlare per farsi vedere.»

   «Perché mi dici tutto questo?»

   «Perché adesso non ho più motivi per cercare di cambiarti. Adesso non ha più senso recitare una parte. Cercare di essere una direzione. La morte rende ridicole molte cose. Soprattutto quelle inutili.»

 

Vano dirti che quando ci siamo salutati, sentivo nella mia testa un ronzio tipo alta quota e le orecchie tappate. Ci siamo abbracciati e timidamente gli ho detto che sarei passato a trovarlo ancora. Da quel momento ho trascorso gran parte del tempo a cercare di trovarti da qualche parte. Cercare di trovarti è stato molto più difficile che perderti. Ti sei nascosta bene, allontanandoti del tutto dalla vita di prima. A me le cose invece restano incastrate dappertutto e sono prevedibile come un pessimo giocatore di scacchi.

È la paura di non saper essere felici a farci accontentare. Qualcosa che abbiamo perso non è necessariamente qualcosa a cui stiamo rinunciando. Forse c’è da qualche parte una strada per risalire questa china, trovarti nuovamente ad aspettarmi in cima alle scale, con lo sguardo devastato dalla malinconia. Nessuna prudenza. È un viaggio profondo dentro di sé. Percorrendo ogni latitudine. Ogni intimo emisfero, ogni angolo della propria caverna. Questo l’amore. Diventare estranei a sé stessi. Chi sono io, chi sono stato? E più che la paura, a spaventare è proprio l’assenza di questa. Una radice che si spezza e torna a fiorire da un’altra parte. Non è una questione di coraggio o di abitudine alla cura, è solo e solamente qualcosa che reclama senza pretendere niente.

Quella volta in cui siamo stati a Cipro, ricordi? Io scrivevo e ti vedevo passeggiare da lontano, poi ti giravi, mi guardavi e riprendevi la strada. Eravamo in una casa a ridosso della spiaggia, non molto lontana dal villaggio. La sera, quando stanchi per il giorno passato a vagabondare, crollavamo distrutti, finiva che io continuavo ad esplorare te. Ed eri il posto, la terra, l’approdo in cui non mi sentivo respinto dalla gravità, in cui ogni angolo di pelle ovunque mi accoglieva. Il tuo sapore era buono, sempre. Piccole perle di sudore gocciolavano sul tuo corpo, e io cercavo di trattenerle con le dita, come fossi una diga, il tuo argine. Fermavo il corso delle cose, le ore, il tempo, tutto su quel corpo. Ti prendevo e ti lasciavi a me, con docile rassegnazione. Non era solo per stanchezza, era perché mi volevi.

Dei piedi baciavo tutti i posti calpestati senza di me, delle caviglie il tatuaggio, delle gambe il sole che le aveva rese nere, dei fianchi baciavo tutti i movimenti, del ventre il mistero, dei seni la grandezza, delle spalle il peso della volontà, delle labbra le parole, degli occhi la capacità di avere più orizzonti. Sentivamo il mare risuonare nella stanza e facevamo l’amore con la finestra aperta. Era così umido che potevo sentire l’aria posarsi sulle ossa. Fuori era caldo, dentro eri calda. Sentirti venire, esplodere di piacere, piccole grida mentre il resto dell’isola continuava a navigare.

Senza di noi.

A volte mi sembrava d’essere un naufrago aggrappato al tuo corpo. Mi intorpidivo con la faccia sulla tua pancia. Potevo sentire il gorgoglio del digiuno. Ascoltavamo la radio, le tende svolazzavano incostanti. Ed ero felice. Ronzavano i mosconi, tutt’intorno al lampadario. Ad un tratto ti sei riavuta dal desiderio, hai indossato un vestito bianco e siamo usciti correndo. Ma non avevamo fretta. Io avevo indosso una canottiera ingiallita dal sudore. Siamo finiti in una festa di paese.

Le bestie vendute come quarant’anni fa, signore e signori dalle facce squadrate, il Porto venduto ghiacciato, la banda, la fisarmonica, i seggiolini della giostra, il mio rincorrerti. Abbiamo ballato, uomini anziani desideravano la tua giovane carne. Ti davi e ti negavi. Abbiamo bevuto, giocato a tirare delle palle fatte di calze e stagnola addosso a un povero cristo.

Questo ricordo sembra lontano adesso, eppure ci sono le foto di quel viaggio sul mobile in cucina. Il condominio è ancora sveglio, fuori è già sera. Sento rumori di stoviglie strusciarsi tra loro, passi sugli usci, rientri, lavatrici stese, sento qualcuno gridare, il rumore di chi cambia canale, sento il giorno lentamente declinare. Sento tutti i rumori del mondo. Domani continuerò a cercarti. Anche se non ti troverò. È soltanto una cosa mia, adesso so cosa volevi darmi.

Un motivo per rialzarmi.

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