Frine era bella. Di una bellezza incomparabile

Angelica Kauffmann, Frine seduce Senocrate, 1794

FRINE


Frine era bella. Di una bellezza incomparabile. Tutte le fonti, soprattutto gli autori greci, soprattutto i contemporanei, attestano che era di una bellezza straordinaria. Che toglieva il respiro.
Eppure, Frine, in greco attico, significa “rospo”. Di qui una ridda di ipotesi fra i moderni. Chi dice che fosse di carnagione olivastra, chi perfetta di corpo, ma non nel volto… Tutte sciocchezze. Giochi intellettuali per Vecchi eruditi che non sanno come trascorrere le lunghe notti degli inverni germanici.
In realtà era uso, ad Atene, che le etere assumessero un soprannome, ovvero una sorta di nome di battaglia, che fosse l’opposto di ciò che erano in realtà. Gusto del paradosso, del mascheramento. E, non a caso, la bella Frine divenne personaggio ricorrente in molte commedie attiche.

Si chiamava, in realtà, Mnesarete, che significa “Colei che evoca la virtù”. Converrete che per un’etèra – la più celebre di tutta la Grecia, la definisce il commediografo Posidippo, rimpiangendola dopo la morte – non era, forse, il nome più appropriato. Anche se va detto che, nel mondo classico, il concetto di virtù era diverso. Totalmente estraneo ad ogni forma di moralismo. Indicava la capacità di fare, bene, qualcosa. L’arte e l’attitudine. E Frine non era solo bella. Era anche… brava. Come etèra.

Ma anche qui diventa d’obbligo una chiarificazione. Le etere non erano volgari prostitute che vendevano le loro… prestazioni. E il loro corpo.
Praticavano l’arte di amare, che implicava intelligenza, cultura. Sensibilità.

Dovevano sapere conversare in modo brillante. Degli argomenti più diversi. Dalla poesia alla filosofia. Compresa la politica. E Frine, che ebbe fra i suoi amanti il grande oratore Iperide, era un’accesa partigiana del partito antimacedone.
Dovevano saper danzare, cantare in modo armonioso. Suonare con grazia.
La loro era l’arte di dare piacere. E il piacere non è un mero sfogo degli istinti. È altro. Come la bellezza non può venire considerata solo fisica.
Per questo le etere erano le uniche donne ammesse ai conviti. Dai quali gli ateniesi escludevano mogli e figlie, rinchiuse nei ginecei. Mentre le prostitute venivano trattate con disprezzo. E operavano nei postriboli dei quartieri malfamati del Pireo.

Frine appariva, invece, addirittura in un “donario” delfico. Un gruppo scultoreo offerto in voto ad Apollo. Caso senza precedenti che un’etèra venisse raffigurata in un luogo sacro. Ma Lei non era un’etèra come le altre. Era l’incarnazione dell’ideale ellenico di bellezza.
Tant’è vero che Prassitele la amava. Appassionatamente. E Prassitele non è stato, solo, uno dei massimi scultori greci. Che, per altro, equivale a dire di ogni tempo. È stato il Maestro della Charis.

Afrodite Cnidia, l’opera (ormai perduta) di Prassitele

La Charis è la Grazia. Tant’è che le Tre Grazie, in greco, venivano chiamate Chariti. Ed erano associate ad Afrodite. Dea della fecondità e dell’eros. Prassitele creò la, celebre, Afrodite Cnidia, che conosciamo da copia marmorea di età romana. Una bellezza (e una sensualità) abbacinate. Si dice sia il ritratto di Frine, che gli fece da modella. Credo, però, che l’artista abbia colto, nella straordinaria bellezza della sua modella, la presenza, l’incarnazione della Dea stessa.
Capita di percepire il divino in una forma umana. Di rado però. Mi viene in mente Botticelli. La sua Venere che nasce dalle acque è Simonetta Cattaneo. La Donna più bella del ‘400. Amata e cantata e ritratta da tutti i poeti ed artisti del secolo. Compreso Lorenzo il Magnifico.
E anche alcune figure femminili di Waterhouse

John William Waterhouse, Ila e le ninfe, Manchester Art Gallery

Frine, spesso, è ricordata soprattutto per il, famoso, processo. Un tale Eutia la accusò, pubblicamente, di empietà. Ovvero di corrompere i giovani e i costumi con feste che degeneravano in vere e proprie orge. Nonché, cosa ancor più grave, di avere introdotto ad Atene un nuovo culto. Quello misterico di Isodaite, un daimon, o uno dei volti di Dioniso, i cui misteri venivano celebrati da donne, ed implicavano riti “promiscui”. Accusa che, se provata, implicava la pena di morte.
Dietro all’accusa bigotta, vi era però la volontà di colpire il partito antimacedone. Rappresentato da Iperide che assunse la difesa, e scrisse “Per Frine”, giuntaci solo in frammenti.
Non fu però la parola a risolvere il processo. Con gesto teatrale, Iperide denudò il corpo della giovane donna davanti ai giudici. Che, subito, la assolsero da ogni accusa.
La Bellezza, decretarono, non può mai essere colpevole.

Storie antiche, si dirà. Roba da vecchi eruditi stanchi e insonni… Però una storia che ci dice molte cose. E molte potrebbe insegnarci. In questa epoca priva di qualsiasi senso estetico. Nella quale una nuova forma di moralismo bigotto pretende di dettare le regole e censurare tutto. Un’epoca in cui non vi sono più raffinate etère, eleganti cortigiane… E anche in politica… beh, meglio lasciare perdere…

Andrea Marcigliano

 

 

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