”Nel 1957 i villaggi intorno a Čeljabinsk vengono contaminati, gli abitanti si ammalano, muoiono, non si possono permettere di amare. È quest’ultimo divieto a colpire il genio narrativo di Viola Di Grado dove esprime tutta la maturità di scrittrice.
Tamara è pazza. Lo ha tenuto tra le braccia, lo ha fatto succhiare dal suo seno, lo ha avvolto in un panno rosso, gli ha asciugato il sudore. Tamara non è pazza. Lui esiste. Gliel’ha portato Dio. Dio per Tamara ha una voce, non è l’infinito silenzio sentito da tutti gli altri abitanti del suo villaggio maledetto. Dio s’infrange contro i due fari di un’auto e si spappola ai margini di una strada.
Nella Trinità livida di Tamara, Vladimir e Alëšen’ka non c’è solo la possibilità del riscatto dell’agire umano, c’è anche l’offerta di una spiritualità necessaria affinché in ogni diverso, in ogni pazzo, in ogni straniero si accetti la sfida della compassione e della solidarietà.
La trama del romanzo.
Tamara e Vladimir vivono a Musljumovo, remoto villaggio al confine con la Siberia, tra caseggiati in rovina e fabbriche abbandonate. Vivono in un’area geografica per decenni assente dalle mappe: quella della “città segreta”, luogo sinistro da cui era vietato uscire e comunicare con l’esterno, responsabile negli anni ’50 e ’60 di ben tre catastrofi nucleari. Vladimir, infermiere di buona famiglia, è arrivato da Mosca, scegliendo di prendersi cura di chi non ha niente, delle persone dimenticate dal mondo. Tamara, insegnante, è invece nata e cresciuta nel villaggio, e abituata a pensare che ogni cosa sia destinata a contaminarsi e guastarsi velocemente. Incontrandosi, i due vengono sorpresi da una passione totalizzante che si appropria di ogni pensiero, e accende un bagliore salvifico persino lì, nel luogo più radioattivo del pianeta, in mezzo ai resti di una natura satura di veleno. Questo sentimento così tenace, che sembra schermarli dalle insidie del reale, li rafforza e li divora al tempo stesso, finché un evento prodigioso arriverà a sconvolgere le loro vite e le loro certezze. Ispirato a un fatto di cronaca che ha disorientato il mondo, “Fuoco al cielo” racconta del male ubiquo che appartiene alla Storia ma che si rintana anche all’interno di ogni amore assoluto: perché la “città segreta” non è solo un luogo reale di distruzione e segregazione, ma anche il nodo più intimo e pericoloso di ogni relazione, dove i confini tra il sé e l’altro si confondono e può bastare una parola, un gesto, un grumo di silenzio per far crollare ogni cosa o metterla per sempre in salvo.
Come inizia.
A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono.
Simone Weil
1 La cucina
Lei prende dal tavolo il coltello della carne.
Lui le afferra il polso.
Lei si divincola, digrigna i denti.
È l’11 febbraio 1996, è il pieno dell’inverno, il sole non è ancora sorto. La luce sul soffitto va e viene.
“Cosa vuoi fare con quello, eh?”
Il coltello cade a terra con un rumore gelido, poi ritorna il silenzio. Lui si muove a tentoni, sbanda contro il cassetto. Lo apre, cerca una candela, non la trova. Lei raccoglie il coltello e lo punta contro sé stessa, al collo, rovescia la testa come un animale sedato. Lui cerca di prenderglielo dalle mani, ma è un gesto meccanico, lento, senza terrore. Lei lo allontana con un calcio, ma è scalza, lui fa un sorriso di scherno, un ghigno che mette in mostra gli impianti sui molari e tutta la sua faccia diventa immobile e crudele.
Lui rimane lì fermo a guardarla – gli occhi grigi invasati, le dita con lo smalto scrostato, strette al manico di legno – come se volesse davvero vederla portare a termine l’operazione.
Sa che la lama è abbastanza affilata, bastano quattro centimetri e la carotide si spezza come il gambo di una violetta, si muore in pochi secondi: quello è il coltello che lui usa per le bestie, cervi e montoni, incide il collo e scivola giù nella carcassa, dall’addome all’ano, come un pennello sulla tela. Sa che dovrebbe sentire qualcosa di forte, la ama e non sente nulla, le tiene le spalle come se dovesse tenerla insieme e non sa perché,e non sente nulla. Lei esita e digrigna i denti, le trema la mano, fa una risata isterica che suona come vetro che si rompe. La luce della lampadina smette di sfarfallare e si fissa per un attimo. Un lampo lungo e freddo, maligno, accende i fornelli unti e le forniture in metallo, le piastrelle bianche, il forno buio aperto, Tamara e Vladimir uniti dal coltello, irradia tutta la cucina come se fosse una strana e triste navicella perduta nell’universo.
Poi li lascia nel buio.
Vivono insieme a Musljumovo, un villaggio incassato nei monti Urali, in un angolo gelido e angusto al confine sudoccidentale della Siberia. Strade deserte, cielo lattiginoso, conifere scure incurvate dalle bufere. Una chiesetta in pietra bianca con piccole finestre – le crepe chiuse dallo stucco, una cascata di martiri dallo sguardo fisso affrescati sui muri, su fino a Cristo, nel buio del soffitto, le mani magre inchiodate.
Mucchi di case.
Case basse, grigie, muri sottili. Addossate al fiume Teča, su entrambe le sponde, o più avanti, in periferia, sulla strada sterrata dietro la fabbrica di colla o nei campi gialli dove prima si portavano le capre a brucare, e adesso è proibito.
Mucchi di case.
Case vuote sconquassate che rovinano contro il cielo, rivestimento fradicio, tetto sfondato. Un segnale scolorito sulla statale, venendo da Sverdlovsk, avverte di procedere a massima velocità e non fermarsi mai, per nessun motivo, per i successivi trenta chilometri. Musljumovo è un villaggio chiuso.
Tutti i villaggi intorno alla cittàsegretalo sono. Significa che un filo spinato invisibile separa la fine delle case e il resto del mondo. Significa che devi stare buona, buona e zitta, non creare problemi, sorridere sempre al funzionario statale che ti consegna la bustina bianca con dentro il sussidio, Tamara Vasil’evna Prosvirina, numero 718, milleduecento miseri rubli stretti in un elastico giallo, il prezzo del silenzio, di un sorriso costante sulla faccia come una ferita aperta. Significa che sei solo un numero, Tamara Vasil’evna Prosvirina, e lo Stato ti paga per non andartene via.
No.
Ci vive da sola, Tamara, a Musljumovo, settanta chilometri dalla città segreta. La sua famiglia non c’è più, non c’è quasi più nessuno.
Percorre da sola le strade deserte, alle sei del mattino, fino alla scuola elementare dove un tempo insegnava, ormai abbandonata da un anno.
Cammina veloce, stivali imbottiti, sciarpa stretta sulla bocca fredda. Una luce sottile, sgranata, illumina la strada sterrata ricoperta di chiodi e calcinacci. Cammina in mezzo alle drogherie sfasciate. Le botteghe di cuoio conciato, chiuse, le serrande incrostate di ruggine. Oltrepassa la fabbrica di colla, un edificio cavo in mattoni scoperti, finestre ad arco, trasferita lì nel ’41 da Leningrado e dismessa nel ’52 dopo l’alluvione, adesso diroccata. Poi il frantoio abbandonato del mercante Zlokazov. Uguale alla fabbrica, facciate rosse, nessun tetto a tenere fuori la pioggia.
Poi altre case.
Tavoli lerci. Assi. Vetri. Chiodi. Sedie capovolte. Mattoni sbriciolati. Resti di cose che un tempo avevano una funzione per la vita umana.
Adesso, a poco a poco, quelle cose vengono assorbite dallo sfondo, dalla natura esile e congestionata dal freddo. Le sedie di legno della scuola sono ghiacciate, corrose agli angoli, masticate dai topi e dall’umidità. Qualcosa di piccolo e ispido ha fatto la tana in un cassetto mezzo aperto, tra i registri di classe ingialliti, le graffette, le mentine andate a male, le confezioni di farmaci ormonali per gli studenti asmatici. I gessetti bianchi e verdi sono frantumati in un angolo dell’aula, in mezzo alla polvere. Una pianta strana, di un verde livido, è cresciuta in mezzo alle assi umide, sotto la sedia dove una volta Tamara sedeva per due ore al giorno, tre il mercoledì, sorrideva, gengive scoperte, capelli intrecciati sulla testa e maglione a fiori, fiori grandi gialli, il suo preferito.
Adesso i licheni si allungano sulla lavagna, macchie nere su nero, parole senza senso, frastagliate. I licheni possono crescere dappertutto, sul metallo freddo o sul vetro nudo di una finestra, sui pezzi delle cose rotte, non hanno bisogno di luce né di cure.
Vive da sola, Tamara, a casa sua, una cucina, due stanze, un piccolo bagno. Vive a centocinquanta metri dal fiume Teča, in una casa grigia costruita con poche migliaia di rubli, i muri spessi diciotto centimetri e i pavimenti quindici, troppo poco per il clima rigido.
Vladimir è ormai solo un ospite.
Uno sconosciuto con i capelli biondi e le labbra sottili. Uno sconosciuto che lascia il suo odore sui cuscini sintetici e sulle lenzuola, che lascia bicchieri unti di vodka, lunghe impronte infangate sul tappeto, calze di lana spaiate sul pavimento, riviste di automobili rivoltate sulle sedie, maglioni che odorano di freddo sul letto. Quando lui va via, quegli oggetti sparsi in casa diventano minacciosi come gli indizi di uno scasso: Attenta, stai attenta, qualcuno ha violato la tua intimità. Stanno insieme da quattro anni, Tamara Vasil’evna Prosvirina e Vladimir Faritovič Nurtdinov, ma lui ogni tanto scompare per giorni, la lascia sola, dorme a casa sua, un’abitazione un po’ più in là, oltre l’alimentari, con le persiane nuove e un garage tutto per lui. Sul retro c’è un praticello morente, un giardino pubblico pieno di cani magri e bottiglie di vetro, siringhe, un barbecue arrugginito. Il sedile giallo di un’altalena, slegato e corroso, abbandonato sull’erba. Spazzatura di altri che si sono trasferiti in posti migliori mettendo insieme i sussidi statali.
Lui non è povero.
Non è povero affatto. È nato a Mosca e cresciuto al terzo piano di un palazzo con portiere di Kavkazskij bul’var, a un passo dalla metro Caricyno.
Era un ragazzino smilzo e riservato, occhi grandi azzurri su cui tutti gli adulti della sua vita avevano proiettato sogni e ambizioni. Sarai il medico più bello della Russia, gli aveva detto sua madre, una donna in carne con i denti piccoli e separati, che adesso scolorisce in foto nel suo portafoglio, stipata insieme alle monete. Invece Vladimir aveva scelto di fare l’infermiere, non voleva il potere divino di aggiustare i corpi, aprirli, sostituire i pezzi, era una responsabilità troppo grande. Preferiva obbedire, fare piccoli gesti, aggiustare cuscini dietro teste stanche e doloranti. Dopo la scuola di specializzazione gli avevano proposto un praticantato a Musljumovo, al confine con la Siberia, nel villaggio maledetto, il villaggio chiuso, uno dei ventiquattro rimasti. All’URCRM, centro di ricerca fondato nel ’55, e al sanatorio di Čeljabinsk, meno fatiscente di certi ospedali che ha visto nell’entroterra, ma con pochi letti e spesso senza acqua corrente, camici, strumentazione. Soprattutto senza medici, perché a Musljumovo nessuno ci vuole andare.
Sua madre aveva detto: “Non andare. Non andare, bambino mio, ti prego.”
Inginocchiata sulle mattonelle nere, nella grande cucina, gli aveva stretto le ginocchia.
Aveva detto: “Sei pazzo? Non lo sai cos’è successo lì?”
Lui le aveva preso la faccia con le mani, aveva risposto:
“Mamma hanno bisogno di cure.”
E lei, contrita, gli occhi rossi: “No, non puoi andare, quel posto è maledetto.”
E lui: “Sono soli, non capisci, abbandonati da tutti.”
Suo padre aveva abbassato il giornale senza dire nulla, l’aveva guardato con freddezza dietro i suoi occhiali spessi, voleva un figlio macchinoso come Stalin e invece gliene era capitato uno premuroso come una crocerossina.
Comunque sarebbe stato solo per due mesi.
Due mesi non è niente.
E lui era andato via.
Nelle pianure bianche e secche del Nord. Nel gelo assoluto.
Nel villaggio chiuso.
Da allora qualcosa in lui è cambiato.
Tamara lo sa, anche se prima non lo conosceva. Lo intuisce da una strana ombra nei suoi occhi, una specie di cattiveria. Ce l’hanno tutti, quell’ombra, a Musljumovo.
Un solco buio in mezzo all’iride, uno sciame nero che freme all’improvviso e poi si spegne. I luoghi, come le persone, o ti riempiono o ti svuotano. Quel posto toglie tutto, proprio tutto, ti lascia solo pezzi d’anima, avanzi di te stesso.
Vladimir ha il compito di stendere i corpi fragili e impauriti sul lettino sgualcito, o dentro il rivelatore di radiazioni, un tunnel bianco. Misurare, sorridere, dire va tutto bene, è tutto nella norma. Porgere penne e fogli e siringhe al dottore.
All’inizio gli tremavano le mani davanti a certi bambini doloranti, gracili mucchi d’ossa, piegati con le mani sullo stomaco, tutti soli con quel male segreto. È vietata la parola “cancro”. Vietato usare termini specifici, nomi di malattie. Vietato mandarli altrove a ricevere cure. Deve dire dolore passeggero. Deve dire non si preoccupi. Deve dire malattia speciale, ferita speciale; stadio uno, stadio due. Deve dire tutto a postoe rimandarli a casa con un sorriso. Anche se loro piangono e gridano, invasati, che è la malattia del fiume,e lo supplicano mi aiuti la prego, il fiume è maledetto e sta ammazzando i miei bambini.
Vladimir ha imparato a fare compromessi. A fare quello che gli viene detto, ad annuire, a usare le parole giuste, a tenere le altre sigillate in gola. Ad andare a caccia, per procurarsi quello che manca all’alimentari semivuoto e polveroso di Evgenija. Ad aggiustare tetti malmessi e cardini rovinati dal freddo. A macellare renne e oche selvatiche.
Doveva essere un lavoretto di due mesi.
Due mesi non è niente.
Due mesi è un sacco di tempo.
In due mesi una gatta concepisce e partorisce, il cielo di Musljumovo scarica fino a duecento millimetri di pioggia, un umano può diventare dipendente da una droga o da un altro umano.
Passarono due mesi e Vladimir rimase. Non voleva lasciare Tamara. La sua anima gemella. Anche se lei aveva detto fai come vuoie si era voltata, era tutta nuda con un libro in mano, pensava ad altro, la schiena pallida controluce.
Rimasero insieme nel villaggio al confine di tutto.
Dove i funghi sono i più belli della Terra, larghi e lucenti come pepite, ma carichi di veleno.
Dove il latte è pericoloso, duemila becquerel per litro, perché le mucche bevono ancora l’acqua contaminata del fiume. È così, le vedono ogni giorno, al tramonto, dalla finestra: grossi animali fiacchi che si dissetano in penombra, tra le sterpaglie, perché non c’è altra risorsa idrica nel villaggio.
Dove il consumo di stupefacenti è il più alto al mondo, perché la realtà è orrenda, insostenibile e non si può tenerla sempre nella testa, bisogna scioglierla nell’acido, diluirla.
Dove il sole è quasi assente e il vento è così forte che toglie il sonno e graffia i vetri e sembra sempre voler dire qualcosa, comunicare presagi misteriosi e distruttivi, così la notte Tamara deve mettere i tappi alle orecchie e il cuscino sulla testa, ma si sente lo stesso, si sente sempre tutto.
Rimasero insieme, sempre più insieme, nel villaggio chiuso.
Uno dei quattro addossati al fiume Teča, duecentoquaranta chilometri di abisso nero e putrescente che ti soffoca la gola e ti fa venire sogni tutti neri, ti fa svegliare di notte con la lingua gonfia e assetata.
Vladimir glielo diceva sempre, all’inizio: Andiamo, andiamo via, ti porto via da questo posto.Ma quella è la sua terra, la terra dove sono sepolti i suoi genitori e i suoi nonni, ammucchiati come bestie in uno dei sette cimiteri del villaggio, il villaggio dei morti, sette cimiteri per quattromila anime soltanto. E poi c’era la scuola, la sua scuola, i suoi alunni. Come fai a non capire, Cristo santo?
A volte, se non faceva troppo freddo e le gambe non le facevano male, quando lui viveva nella sua casa lontana lei andava a trovarlo a piedi.
Era il 1992 e quel tratto desolato di mondo non c’era sulle mappe, non aveva punti di riferimento, non aveva nemmeno un nome vero.
Era solo la città segreta, e i villaggi chiusi. I villaggi chiusi intorno alla città segreta.
Eppure nella città segretafacevano il plutonio per le bombe. Nella città segreta: dove nessun treno ti poteva portare, dove non arrivavano le cartoline, dove le persone sparivano, ma nessuno ne parlava, meglio cacciarsi le parole in gola, mordersi la lingua a sangue. Nessuno diceva nulla, perché parlare porta guai.
L’avevano già fatto gli americani: Richland, nel ’44, costruita intorno alla centrale nucleare di Hanford. Silenzio, se non puoi dirlo a Stalin non dirlo a nessuno. L’avevano già fatto gli americani, e i russi avevano copiato, diligenti e velocissimi. Il reattore era stato costruito in soli diciotto mesi e così la città segreta, sorta dal nulla. Silenzio, mangiati la lingua, non pensarci nemmeno.
Ogni tanto lei li aveva incontrati.
Quelli che vivevano nella città segreta. Quelli che avevano ottenuto un pass per uscire, uscire per un po’, prendere aria e poi rientrare. Un compagno di classe del liceo, reso storpio dalla guerra; un vecchio amico di famiglia, malaticcio e silenzioso; una vicina di casa con i capelli paglierini e un occhio cieco. Fantasmi vivi, barcollanti, con la carne pallida e secca e le unghie rovinate. Avevano tutti uno sguardo sfuggente, atterrito, che non si fermava su nulla. Parlavano con lentezza, misurando le parole, nascondendo dita screpolate e tremanti dentro le tasche dei cappotti. Ma d’altronde erano sempre stati così. Malati, traumatizzati, difettosi. Umani di risulta.
Adesso invece avevano vestiti di buona foggia e mocassini in pelle d’agnello. Se chiedevi delle loro vite, ti dicevano che la città segreta era un paradiso: teatri lussuosi, scuole di prim’ordine, supermercati pieni di prelibatezze. Dicevano: Viviamo come gli animali ben nutriti dello zoo.
Era vero.
Era tutto vero, e tutto falso.
Camminava a lungo, Tamara, tacchi consunti coperti dalle galosce e cappotto di lepre, le piaceva camminare, sentire le articolazioni stancarsi. Dopo il cimitero e la casetta rossa sbarrata del custode, la strada fino al quartiere nuovo era solo terra bianca senza figure, una secca di vegetazione minima e sbiadita.
“Toc toc, sorpresa, spero tu sia solo.”
Vladimir la prendeva in braccio come una ragazzina. Si accoppiavano a terra, sulle assi irregolari, sulle briciole di torta kievskij, nell’angolo della casa dove arrivava il sole, vicino al catino. Credevano che i corpi fossero un dono di Dio, tane perfette per mettersi al riparo dagli agguati della mente. Era un modo sicuro di amare, stare sulla pelle per non stare nell’abisso, e lei aveva l’abisso nella testa, dappertutto, un fondale nero.
“Mi manchi sempre, anche quando sei qui con me.” E anche: “Ti ho aspettato tutto il giorno. Non ho fatto nient’altro.”
Giocavano a scacchi sul tavolino di legno, seduti sul divano a righe verdi, lui la lasciava vincere e non lo dava a vedere. C’erano quadri alle pareti. Città sconosciute, in festa, cieli tersi di un azzurro carico. Il ritratto di una donna seria con il corpo piatto e stretto di una bambina, braccia conserte, seduta su una sedia in vimini, in un posto luminoso che forse era la Spagna, forse un posto inventato. Lui era stato nel mondo. In Europa, da giovane, con i suoi genitori. Di quel viaggio le aveva raccontato solo la sensazione dell’estate nelle grandi città: un senso di sicurezza e di possibilità, l’odore di gasolio e di asfalto riscaldato dal sole.
Le passava le dita tra i capelli crespi, una palla di polvere. I cani randagi volevano entrare, grattavano con le zampe sullaporta in legno scuro ingrossato dal freddo. I cani guaivano, infreddoliti e soli, ma loro non aprivano mai. Lui voleva aprire, conservava per loro ossa di pollo e renna accatastate, sul retro, e coperte vecchie. Lei no, non voleva vederli, odiava lo sguardo dei cani, tutto quell’amore allo scoperto, quel bisogno. Si gelava, meno trenta, meno quaranta. Pelle d’oca, dita fredde come chiodi. Un piccolo fuoco arancione crepitava nella stufa a muratura.
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L’autrice.
Viola di Grado (1987) è l’autrice di Settanta Acrilico Trenta Lana (2011, vincitore del premio Campiello Opera Prima e del premio Rapallo Carige Opera Prima e finalista all’IMPAC Dublin Literary Award), Cuore Cavo (2013, finalista al PEN Literary Award) e Bambini di ferro (2016), pubblicato da La nave di Teseo. Ha vissuto a Kyoto, Leeds e Londra – dove si è laureata in Filosofie dell’Asia orientale. I suoi libri sono tradotti in undici Paesi.
- Fuoco al cielo
- Viola Di Grado
- Editore: La nave di Teseo
- Collana: Oceani
- Anno edizione: 2019
- Pagine: 233 p., Brossura
Martino
23 Aprile 2019 a 15:17
L’ispirazione l’ha abbandonata e ormai copia se stessa.