l’esilio a domicilio, come risposta, ritirata e bisogno del pensatore

FUORI C’È IL DESERTO, ESILIAMOCI IN CASA…


Appartengo a una generazione che, nel suo arco di vita, ha visto quasi scomparire una religione, una cultura e un paese”. Questa confessione di Alain de Benoist che quest’anno compirà

Alain de Benoist

ottant’anni, è l’autobiografia collettiva non solo di una generazione, ma di un popolo d’anziani europei. De Benoist esce con un libro-diario di appunti e pensieri, L’exil intérieur, ma ci avverte che lui si sente in esilio a casa. Una testimonianza analoga giunge sempre dalla Francia da Regis Débray (82 anni), uscito un paio di mesi fa con un libro-memoria dal titolo analogo: L’Exile à domicile, per rappresentare lo stesso disagio di esiliati in casa propria. Forse li ha segnati il lockdown, ma non si riferiscono alla reclusione domiciliare per ragioni sanitarie: denunciano l’estraneità al proprio tempo. Un anno fa anch’io avevo parlato di “migrazione interiore” ne La Cappa, per rappresentare lo stesso disagio di vivere e l’esilio in casa.

De Benoist spiega in un’intervista a Michel Onfray «Dio non è morto perché non è mortale. (…) Una finzione non muore.» (M. Onfray, Trattato di ateologia) per Front populaire, ora disponibile in Italia nella traduzione di Barbadillo, di sentirsi estraneo allo spirito del tempo, e soprattutto a un’ideologia dominante, fondata su valori mercantili” a cui aggiunge “l’ascesa dell’ignoranza e l’espansione della bruttezza, il disprezzo della classe dirigente per il popolo (e i popoli), il trionfo del narcisismo immaturo”. La sua reazione, come quella di Debray, è una “nostalgia rivoluzionaria”. Temo che alla nostalgia, alla sua indole, non si addica la rivoluzione, e temo che la rivoluzione sia impraticabile oggi. Ma l’espressione è bella e sintetizza questo sentimento contrastante di ribellione e di amore per una civiltà perduta. De Benoist dice di avere idee di sinistra e valori di destra, pur diffidando dell’espressione valori che evoca la borsa. Temo che sia una generosa concessione a due categorie esauste, spompate; e anche una sopravvalutazione dello spessore concettuale della sinistra, almeno odierna. Preferirei che un pensatore, come de Benoist, dicesse di avere idee nuove e principi tradizionali, sintesi creativa tra originalità e originarietà. I principi, dice lo stesso de Benoist, sono i riflessi di una concezione del mondo, definiscono regole di condotta, non morale ma etica, fondano una visione della vita.

Ma resta il tema dell’esilio interiore, l’esilio a domicilio, come risposta, ritirata e bisogno del pensatore, e non solo lui, di fronte al disagio di vivere e vedere una civiltà perire così velocemente. Un tempo de Benoist auspicava il tramonto della religione cristiana e delle nazioni rispetto alla cultura e alla civiltà europea; oggi invece conviene che il tramonto della fede ha portato con sé anche il tramonto del pensiero, e dell’arte, aggiungerei. E il tramonto della nazione coincide col tramonto della civiltà europea. Perché quei riferimenti non erano antagonisti tra loro ma rappresentano una filiera, una concezione della vita; e come una collana spezzata, se ne perdi uno, via via perdi anche gli altri grani.

Mentre de Benoist e Debray si chiudono in casa per non uscire all’aperto così desolato, c’è chi affronta “il deserto dei barbari”, parafrasando il deserto dei tartari di Dino Buzzati. I nuovi barbari è il titolo di un ficcante pamphlet di Giulio Meotti, uscito da poco da Lindau sui nuovi divieti di pensare e parlare vigenti nel nostro deserto occidentale, sovrabbondante di mezzi e povero di scopi. L’incipit è sconsolante: “Più che morire l’Occidente dovrebbe temere di essere già morto”.

«Qualche anno fa si è a lungo parlato di «scontro di civiltà»? Ma oggi forse non esistono neppure più civiltà che potrebbero scontrarsi, tutte sono scomparse a favore di una «cultura» standardizzata, i cui vari elementi sono difficilmente distinguibili se non per lievi e innocue differenze di colorazione. Quello a cui stiamo assistendo è piuttosto lo shock della non-civiltà. In questo nuovo regime, libertà illimitata e dispotismo illimitato non sono più in opposizione. Si sono fusi.»(Giulio Meotti I nuovi barbari)

L’occidentalismo progressista, a suo dire, è la malattia senile dell’occidente. Una malattia che Meotti descrive con molta dovizia di informazioni: il suo è un utile reportage sul deserto occidentale più che un’analisi di pensiero sulle cause. Un puntuale catalogo di idiozie. Si sofferma sulle sostituzioni in corso, della natura e della realtà, ma anche delle parole elementari per indicarla, come padre, madre, maternità, normalità. E sulle distorsioni e falsificazioni della storia.

L’autoalienazione diventa la nostra ultima identità, mentre la società precipita in sottoculture abortite, fino a farsi caricatura della modernità. Cita Augusto del Noce, definendolo l’ultimo filosofo italiano, ma la citazione non rende la grandezza di Del Noce perché in realtà non è un pensiero originale di Del Noce bensì di Eric Voegelin, che Del Noce ha più volte citato: le società repressive del passato esercitavano il controllo delle risposte mentre la società permissiva del presente è più radicale, pone il divieto di fare certe domande, che esulino dall’orizzonte ateo, relativista, correttivo. È la differenza tra i vecchi regimi autoritari e i nuovi regimi totalitari, di tipo orwelliano. Meotti attribuisce il comunitarismo allo spirito distruttivo occidentale, esattamente come il progressismo woke, perché identifica comunità con setta. In realtà l’ideologia occidentale è individualista e le sue malattie, dall’egoismo all’egocentrismo, dal narcisismo all’isolamento, sono la diretta degenerazione dell’individualismo. La comunità è sull’altro versante. Forse la distinzione preliminare da fare, citando Oswald Spengler, è tra la civiltà occidentale, che in verità preferiamo definire europea, e la civilizzazione globale, che è la pura espansione dei mezzi e dei modi di vivere dell’occidente grazie alla tecnica e all’economia. La loro standardizzazione nichilista trasforma il canone occidentale, come lo definì Harold Bloom, in discarica.

Il deserto occidentale è abitato dall’Idiota globale ben riassunto dalla dichiarazione del presidente della FIFA, Gianni Infantino, agli infami Mondiali del Qatar: “Oggi mi sento qatarino, arabo, africano, gay e migrante. Gli europei dovrebbero scusarsi per quello che hanno fatto al mondo negli ultimi tremila anni”, Ah, infantino infantino, un cognome un destino: quel che “hanno fatto al mondo negli ultimi tremila anni” si chiama civiltà. Poi dice che uno si barrica in esilio interiore a casa sua…

 

 

 

“Ci sono idee che nascono all’improvviso, non sappiamo dove e come, che troviamo interessanti ma che rimangono nella nostra testa solo per pochi istanti. Come una farfalla che prende il volo. Per trattenerle, dobbiamo coglierle sul volare, e trascriverle subito. I miei quaderni, in fondo, sono anche quelli di un cacciatore di farfalle”. A volte luminose, a volte serie, il lettore troverà in queste pagine tante idee “senza stelo, che svolazzano” come le farfalle di Nerval. Riflessioni, pensieri, aforismi, citazioni selezionate, rivelatrici di una natura dedita alla bellezza e all’esilio. Alain de Benoist vi coltiva, come l’Argonauta, uno spirito d’avventura nell’intelligenza, con quella sagacia che è il lievito dei grandi libri. Alain de Benoist, saggista e filosofo, dirige le riviste Krisis e Nouvelle école. Autore di un centinaio di libri, ha recentemente pubblicato L’uomo che non aveva padre: il dossier di Gesù (edizioni Krisis, 2021) e Contro lo spirito dei tempi. Spiegazioni (La Nouvelle Librairie, 2022).

 

 

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