Centinaia di galeoni spagnoli che solcavano il mare tra la Spagna e il Nuovo Mondo colarono a picco 

GALEONI: I TESORI DELLA ROTTA DELLE RICCHEZZE

di Pablo Emilio Pérez-Mallaína Bueno

Furono temporali e uragani, molto più degli assalti dei pirati o delle imbarcazioni nemiche, a far sì che centinaia di galeoni spagnoli che solcavano il mare tra la Spagna e il Nuovo Mondo colassero a picco con il loro prezioso carico di oro e argento


All’inizio dell’estate del 1502 una grande flotta salpava dalla capitale dell’isola di Hispaniola diretta in Castiglia. Al comando c’era Antonio de Torres, un veterano dei viaggi di Cristoforo Colombo, ed era formata da ventotto imbarcazioni cariche di ricchezze. Colombo, sebbene fosse stato destituito dalla carica di governatore delle Indie, si trovava sull’isola durante il suo quarto viaggio. Grazie alla sua lunga esperienza in quelle acque si rese conto che si stava avvicinando un temibile uragano e avvertì immediatamente il governatore Ovando, ma non fu ascoltato.

Naufragio di 10 navi della Flota de Indias lungo le coste della Florida a causa di un uragano (1715) Foto: Tom Lovell / NGS

Il temporale raggiunse le imbarcazioni nel canale della Mona, tra Hispaniola e Porto Rico. Fu il primo grande disastro della navigazione lungo la Carrera de Indias, come era detta la via commerciale tra Europa e America: soltanto tre o quattro navi si salvarono, le altre due dozzine di vascelli s’inabissarono, portandosi dietro tesori inestimabili, come una grande pepita d’oro che doveva pesare tra i 15 e i 20 chili, secondo la testimonianza del cronista Gonzalo Fernández de Oviedo.

Da allora la favolosa pepita giace sui fondali marini dei Caraibi, e questo e altri meravigliosi tesori sommersi sono un richiamo irresistibile per coloro che cercano l’Eldorado non nel fitto delle foreste, bensì sul fondo del mare. Il fatto è che un galeone affondato è come un miraggio o un mito, qualcosa che è fatto di fantasia e di realtà, e ha la capacità di attirare sia gli amanti dell’avventura sia gli storici e gli archeologi.

Anche se di solito si parla dei galeoni della Carrera de Indias, questi erano solo qualche centinaio delle diverse migliaia di imbarcazioni di ogni tipo – navi, caravelle, pinacce, zabre, baleniere, orche ecc. – che navigarono lungo quelle rotte. La loro importanza era dovuta al fatto che erano più forti, sicuri e meglio protetti, quindi il re inviava sempre l’argento di sua proprietà a bordo dei galeoni che servivano da scorta alle flotte e ai commercianti privati; anche i passeggeri preferivano affidare i loro affari e la loro vita a queste imbarcazioni e appena potevano salivano a bordo di navi militari, che spesso non erano altro che galeoni noleggiati a qualche facoltoso armatore.

I galeoni vennero utilizzati abitualmente nella navigazione atlantica dalla metà del XVI secolo, e nel XVIII furono sostituiti dalle fregate. Foto: Oronoz / Album

Proprio per questo motivo, quando un galeone affondava c’era da sospettare che a bordo portasse un ricco e prezioso carico, che includeva non soltanto quanto riportato dal registro ufficiale, ma anche ciò che si trasportava di contrabbando. Ecco perché le scoperte più spettacolari e ricche da parte dei cacciatori di tesori sommersi hanno a che fare con i galeoni, e perché alla maggior parte delle imbarcazioni recuperate lungo la Carrera de Indias si dà, per estensione, il nome “galeoni”, anche se non lo sono in senso stretto.

Nonostante queste imbarcazioni fossero di solida costruzione, i rischi che dovevano affrontare erano così grandi che un buon numero di esse finì per colare a picco. Il pericolo di quelle traversate si rifletté nel linguaggio popolare del XVI secolo, e così nacquero massime che sottolineavano quanto il mare fosse delizioso da ammirare, ma molto pericoloso da solcare, e che ritroviamo ancora oggi in proverbi come «Chi non sa pregare, vada in mare a navigare».

La prima sfida da vincere era la straordinaria vastità dell’oceano. La traversata dell’Atlantico implica un viaggio di cinquemila chilometri, e il Pacifico ha una larghezza massima che si avvicina ai 20mila. Oltretutto, le imbarcazioni a vela non navigavano mai direttamente da un porto all’altro, ma seguivano le rotte create dalle correnti e dai venti costanti, e questo si traduceva in viaggi lunghissimi che mettevano a dura prova l’equipaggio dei galeoni e le imbarcazioni stesse. I viaggi di ritorno in patria, quindi, potevano significare, attraverso l’Atlantico, un paio di mesi senza toccare terra, mentre nel Pacifico, il ritorno dalle Filippine ad Acapulco durava quattro mesi nel migliore dei casi, talvolta anche sei o sette. La durata del viaggio, i temporali o i possibili assalti di navi nemiche trasformavano queste rotte in avventure ad altissimo rischio.

Il Nuestra Señora de Atocha affondò al largo della Florida nel 1622 con un carico che comprendeva 125 lingotti e barre d’oro, argento, pietre preziose

Una rotta pericolosa

Nonostante quanto detto finora, i naufragi lungo la Carrera de Indias furono meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Lo storico Pierre Chaunu, che ha fatto un conteggio molto dettagliato – anche se sicuramente incompleto – sulla navigazione transatlantica tra Spagna e Indie Occidentali tra il 1504 e il 1650, ha scoperto che delle quasi 18mila imbarcazioni che attraversarono l’oceano nell’una e nell’altra direzione se ne persero poco più di cinquecento. Di queste, 412 naufragarono a causa delle tempeste e di altri eventi accidentali, mentre 107 furono affondate dall’azione violenta di corsari, pirati o flotte nemiche.

Da queste cifre si traggono due conclusioni. La prima è che, nonostante tutto, le rotte da e per le Indie erano relativamente sicure, perché in totale fu solo meno del tre per cento delle imbarcazioni a non giungere a destinazione; la seconda è che le forze della natura erano molto più temibili dei cannoni della flotta più potente. Per difendersi dai nemici, le navi della Carrera impararono a navigare in convogli protetti da galeoni da guerra. Nonostante il grande numero di libri e film sugli assalti dei pirati alle navi spagnole, bisogna riconoscere che lo 0,6 per cento di affondamenti per mani nemiche è una percentuale davvero bassa.

Contro una grande tempesta, invece, non c’era modo di proteggersi, pur con abbondanza di artiglieria a bordo, e navigare in convoglio aveva come unico risultato che talvolta era un’intera flotta a colare a picco. Il problema era che la posizione geografica delle zone che producevano argento e oro, la merce principale che si trasportava verso l’Europa, costringeva a solcare, nel viaggio di ritorno, il mar dei Caraibi, il golfo del Messico, il canale delle Bahamas e il temibile triangolo delle Bermude.

Il Nuestra Señora de Atocha affondò al largo della Florida nel 1622 con un carico che comprendeva 125 lingotti e barre d’oro, argento, pietre preziose Foto: Scala, Firenze

Tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, in queste zone si formano violenti uragani, che gli spagnoli impararono ben presto a temere. Le autorità americane conoscevano più o meno il ritmo con cui si verificavano tali catastrofi naturali, ma talvolta le flotte erano in ritardo e questo poteva costare molto caro. Un altro fattore di rischio per le navi era costituito dalle negligenze, dalla corruzione e dall’incompetenza dell’equipaggio: ammiragli che avevano comprato il carico, piloti poco istruiti o imbarcazioni mal zavorrate o con il carico stivato male potevano far scomparire un galeone e tutti coloro che erano a bordo.

Intere flotte perdute

Tra le centinaia di naufragi avvenuti lungo  la Carrera de Indias, divennero famosi quelli che videro coinvolte flotte intere o un gran numero dei vascelli che le componevano. Il primo di questi incidenti di massa fu quello già citato della flotta di ventotto navi persa quasi del tutto nel canale della Mona nel 1502, e forse l’ultimo fu quello della sventurata flotta Nueva España comandata dal generale Juan de Ubilla e che nel 1715 naufragò quasi del tutto fra gli isolotti della Florida. Su un totale di undici navi, se ne salvò soltanto una; tutte le altre s’incagliarono o affondarono. Morirono il generale e un migliaio di uomini, e decine di milioni di pesos finirono sul fondo del mare.

Successivamente, protagonisti dei naufragi non furono più i leggendari galeoni, ma navi o fregate come la famosa Nuestra Señora de las Mercedes, affondata in combattimento contro gli inglesi nel 1804 a sud del Portogallo, e il cui carico scatenò una disputa tra la società di “cacciatori di tesori” Odyssey e il governo spagnolo.

Moneta recuperata da parte dei cacciatori di tesori in una delle navi della Flota de la Plata affondata in Florida nel 1715 Foto: Cordon Press

Anche altri galeoni naufragati hanno raggiunto la celebrità grazie alle imprese di recupero dei cacciatori di tesori sommersi. Oggi, per esempio, sono universalmente noti i galeoni Nuestra Señora de Atocha e Santa Margarita, entrambi appartenenti alla flotta del marchese di Cadereyta, affondati al largo delle isole Keys (Florida) nel 1622 e che furono recuperati dall’équipe di Mel Fisher tra il 1969 e il 1985. Il tesoro rinvenuto è considerato il più spettacolare di tutti quelli della Carrera de Indias recuperati finora. Un altro naufragio famoso per i tesori scoperti fu quello della Nuestra Señora de las Maravillas, appartenente alla flotta di don Matías de Orellana, che nel 1656 affondò a Los Mimbres, nelle Bahamas, e diede la fama a Robert Marx, il cacciatore di tesori che la recuperò.

Tuttavia, altri galeoni continuano a custodire gelosamente le loro ricchezze sul fondo degli oceani, e proprio per questo sono al centro dei sogni e dei pensieri dei cacciatori di tesori finora frustrati. Tra questi vi sono due imbarcazioni che naufragarono portando con sé carichi particolarmente ricchi accumulati per via dei ritardi nella partenza. È il caso della Nuestra Señora del Juncal y Santa Teresa, nave ammiraglia della flotta del generale Miguel de Echazarreta, che colò a picco nel 1631 poco dopo essere salpata dal porto di Veracruz diretta verso la Spagna.

Ed è il caso anche del galeone San José, la nave capitana della flotta del conte di Casa Alegre, che trasportava un carico favoloso e saltò in aria davanti alle isole di Barú, presso Cartagena, durante il combattimento contro una flotta inglese. È l’unico dei galeoni citati in questo articolo la cui perdita fu dovuta all’azione dei nemici e non a eventi naturali come tempeste e uragani; il 5 dicembre del 2015 il governo colombiano annunciò la localizzazione del relitto nelle acque davanti a Cartagena de Indias.

Il recupero di un galeone del 1724 Foto: Jonathan Blair / NGS

Che cosa ci dicono i tesori

È molto probabile che queste imbarcazioni e molte altre saranno recuperate in futuro da archeologi professionisti, che oltre alla loro competenza scientifica e all’etica professionale posseggono strumenti tecnici molto sofisticati, come sonar e magnetron, in grado di rilevare relitti a molti metri di profondità, e moderni mini-sottomarini, che possono scendere negli abissi. Ai giorni nostri i veri archeologi subacquei danno lo stesso valore al recupero di un lingotto d’argento e a quello di armi, vasellame e oggetti religiosi che facevano parte della vita quotidiana di quella civiltà e che permettono di comprenderla meglio.

Tuttavia, un naufragio può insegnarci qualcosa non soltanto attraverso gli oggetti recuperati dal relitto. Gli archivi spagnoli, e in particolar modo l’Archivo general de Indias di Siviglia, possiedono migliaia di pagine che riportano i dettagli dei principali disastri marittimi che hanno avuto luogo lungo la Carrera de Indias. Grazie a questi scritti, per esempio, sappiamo che a bordo della Nuestra Señora del Juncal, affondata, come abbiamo detto, nel 1631, viaggiava un importante gruppo di aristocratici, alte cariche militari e cavalieri. Quando giunse il momento di lottare per salvarsi la vita, costoro si rifiutarono di perseverare nelle manovre con cime e pulegge per liberare la scialuppa che poteva salvarli. Di fronte alla resistenza opposta dalla situazione, preferirono non rovinare i loro ultimi istanti di vita sudando come mozzi di coperta e decisero di ritirarsi nelle loro cabine per morire in modo onorevole pregando come gentiluomini. I semplici marinai, invece, che avevano cara la vita più di qualsiasi convenzione sociale, continuarono a provare e alla fine riuscirono a gettare in mare la scialuppa e a raggiungere sani e salvi la costa.

Se mai si localizzerà il relitto della Nuestra Señora del Juncal, di sicuro si scoprirà un favoloso tesoro, ma le ricerche condotte sulle circostanze del suo naufragio hanno messo in luce i diversi modi in cui gli uomini del tempo affrontavano la morte, e questo per uno studioso vale più di tutto l’oro del mondo.

Pablo Emilio Pérez-Mallaína Bueno

 

Per saperne di più

 

 

I più importanti disastri navali. K.C. Barnaby. Mursia, Milano, 1974

 

 

 

 

 

 

Galeoni e tesori sommersi. C. Bonifacio. Mursia, Milano, 2011

 

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