Non basta il bagnoschiuma di un hotel per levarsi di dosso l’odore della gelosia.

Un giovane caprese insegue la vita perfetta sposando una ragazza del Nord e fondando un’impresa. La relazione con la segretaria, il figlio che non arriva e la crisi economica complicano i suoi progetti.

Camilla Baresani, con la sua scrittura luminosa e graffiante, costruisce un romanzo che parla di tutti noi, e ci fa palpitare e sorridere nel feroce racconto delle debolezze di chi ama, o crede di amare

 

La trama del romanzo.

Proprio quando il tormento della gelosia sembra essere cessato, Antonio riceve una chiamata dalla sua ex amante che vuole rivederlo, ma il loro incontro avrà un esito imprevisto. Cosa gli ha rivelato, per fargli perdere il controllo fino a condurlo a un gesto che potrebbe essere irreversibile? Gelosia racconta le complicazioni dell’amore, le migliori intenzioni e il loro naufragio, la passione per il lavoro, la crisi economica e quella dei matrimoni, e una vendetta sottile e implacabile. Antonio, affascinante caprese che ha scelto Milano per dar corpo ai propri sogni imprenditoriali; Sonia, sua ispida collaboratrice, che ogni giorno lo raggiunge da Como, dove abita con i genitori; Bettina, la moglie accuratamente scelta per creare una famiglia ideale, algida bellezza nordica e proprietaria di un campeggio sul lago di Garda: chi è il cattivo in questa storia? Chi è la vera vittima della gelosia?

 

Come inizia. 

 

Una constatazione

Non è facile uccidere. Ogni giorno leggiamo e ascoltiamo notizie in cui c’è qualcuno che ha ammazzato qualcun altro, e poi magari dice che non voleva, che è stato più forte della sua volontà, una concatenazione ineluttabile culminata in una morte.

Con tutti i morti ammazzati di cui sono pieni i nostri occhi e le nostre orecchie, uccidere sembrerebbe una cosa corrente, che in fin dei conti può capitare, come se bastasse un calo dell’autocontrollo, quasi fosse una specie di fatalità.

Ma provateci voi, a uccidere.

Per esempio, una persona X ci fa imbestialire. La colpiamo. Uno schiaffo, un pugno, oppure le scagliamo addosso un oggetto, che so… un piatto. È raro che quella persona muoia sul colpo, e allora per ucciderla dobbiamo proseguire, continuare con i pugni, gli schiaffi, la stretta delle mani sul collo, le gomitate, i calci, una bastonata, e poi forse un coltello che siamo corsi a staccare dal magnete che lo tiene attaccato alla parete della cucina. Tra l’altro, X, il morituro, non se ne resta lì passivo: reagisce, si difende, ci prende a calci, a morsi, ci strappa ciocche di capelli, ci graffia. E in tutto questo malessere, invece di smettere e fermarci, noi, cioè gli aspiranti assassini, continuiamo, andiamo avanti senza tregua a calci, morsi, coltellate. Mors tuavita mea: l’inevitabile reminiscenza scolastica che suggella e conclude le nostre azioni.

Tornando al tentativo di uccidere, ci si potrebbe servire di fucili e pistole, ma non è semplice procurarseli, e bisognerebbe comunque saperli usare; a quel punto, tra l’altro, non si tratterebbe più di omicidio d’impeto, sarebbe omicidio volontario, cioè programmato, e dunque si dovrebbe essere ciecamente convinti di voler proprio uccidere, e soprattutto non si dovrebbe cambiare idea quando si tratta di farlo sul serio.

No, uccidere non è per niente facile, non è spontaneo, non è naturale, al limite lo si sognamolto da adolescenti, e in quel caso le vittime predestinate sarebbero i genitori, come in Edipo passando per Freud; però anche qui, più che di ucciderli, tanti adolescenti sognano che i genitori muoiano per conto proprio, senza doverci mettere le mani, per poter essere liberi e privi di sensi di colpa, liberi di non studiare, liberi di fare mattina bevendo e fumando con gli amici, liberi di dilapidare eventuali conti correnti.

Sin qui, una pura e semplice constatazione. Nelle prossime pagine, invece, troverete i fatti veri e propri così come si sono svolti, cioè la storia di Antonio e Bettina e Sonia (senza tacere di Maya).

Antonio

Una mattina di fine ottobre, Antonio Gargiulo arrivò in ufficio verso le sei. Doveva scrivere una relazione, rispondere alla posta incessante che lui stesso contribuiva a creare, e poi organizzare, pianificare, regolare, disdire; doveva anche passare in banca, incontrare un rappresentante, informarsi da un consulente del lavoro, gigioneggiare con la stagista. Si preparava insomma l’ennesima giornata infinita, una delle tante che producono soprattutto ansia: il patema di restare indietro, di non riuscire a terminare mai niente, di dover ridistribuire gli impegni arretrati su nuove giornate di lavoro.

Aprì la finestra, per cambiare l’aria. Dal cestino veniva un odore di frutta marcescente. I resti della sua cena dietetica della sera prima – una mela, una pera, una banana –, sbocconcellati alla scrivaniausando a mo’ di piatto un fazzoletto di carta, aleggiavano nella stanza in forma di molecole disgustose e contrastavano col gradevole sapore del caffè ancora impigliato nelle papille gustative.

Aprì dunque la finestra e si soffermò a fissare Milano nel momento prolungato in cui la città si rimetteva in movimento: era uno spettacolo che l’aveva sempre affascinato. Come mosche morte dopo una spruzzata d’insetticida, sul marciapiede di via Turati, tre piani più sotto, si notavano bottiglie, frammenti di bicchieri e cartacce ancora illuminati dai led dei lampioni. Pochi minuti, e avrebbe sentito arrotolarsi la serranda del bar: sarebbe spuntata la testa di un cameriere, le sue spalle e le braccia che si muovevano per spazzare minuziosamente il marciapiede con una scopa di saggina, poi le mani che impugnavano la pompa dell’acqua per lavarlo. Ascoltò lo stridio sferragliante del tram che curvava in piazza Cavour, un fragore che solo un’ora più tardi sarebbe stato arduo distinguere, coperto da tutti gli altri rumori della città ormai in azione con il sole già sorto.

Nel buio rosato che precede l’alba guardò oltre i palazzi e le chiese, spinse lo sguardo sui grattacieli della zona nuova della città, luminescenti come pesci di fondale nei documentari del National Geographic. Sì, a quell’ora Milano pareva un oceano, con lontananze abissali che non si riuscivano a percepire: dalla sua finestra sembrava tutto a portata di mano, non come a New York o a Tokyo; Milano era lì, raggrumata intorno a pochi quartieri, a poche fermate d’autobus o di metrò. E invece no, era solo un’illusione o una pigrizia dello sguardo che non arrivava a cogliere le case dei sobborghi, e di tutti quei paesi intorno al confine della città, con i nomi che finiscono in –ate, tipo filastrocca – Limbiate, Baranzate, Bollate, Usmate, Carugate, Lentate, Agrate –, paesi che raccoglievano le vite delle migliaia di persone che stavano per salire in macchina o sui mezzi pubblici per raggiungere il cuore della città, creando il grande afflusso di ogni mattina milanese, con le tangenziali intasate, i camion, i furgoni, le utilitarie, le auto blu, le corriere, gli autobus, i vagoni del metrò e del passante, i treni, le moto, persino le biciclette… infiniti ominidi non interessati a essenze né a fragranze né a profumi, e tutti in arrivo in città, pronti a lavorare a cose che invece non interessavano ad Antonio, pronti acombattere, a tradire, a rubare, a deridere, a ribellarsi, a fallire, ma anche a fare il disegno più bello dell’asilo, a superare un esame con il massimo dei voti, a firmare un contratto, a conquistare un nuovo cliente, a produrre idee concretamente innovative, a studiare il design di un oggetto…

Antonio si sentì esausto ed eccitato come se la vita di ognuna di quelle persone stesse insinuandosi nel suo corpo per prenderne possesso.

Benché non facesse ancora freddo, era un’alba autunnale, vaporosa, con i tipici effluvi di selciato e intonaco e serramenti inumiditi. La luce rosa aumentava rapidamente e si spalmava sulla superficie di un grattacielo a forma di rotolo di stagnola. Antonio chiuse la finestra, portò il cestino con i resti di frutta accanto alla postazione della stagista, socchiuse la porta del suo ufficio, si tolse il soprabito e lo appese a un attaccapanni da cui penzolavano due cravatte d’emergenza – Che cafonata,devo toglierle da lì,pensò –, e subito si mise a lavorare. Erano quasi le sei e mezza.

Poco prima delle nove, quando l’ufficio stava per popolarsi, ricevette una telefonata che lo lasciò scosso.

Era Sonia. “Ciao, sono io.”

   “Lo so,” disse lui con voce calma, premendo la punta della biro come per bucare il foglio dove stava prendendo appunti. Aveva riconosciuto il numero sullo schermo del telefonino. Non l’aveva dimenticato, benché il nome di Sonia non fosse più registrato in rubrica: l’aveva cancellato qualche mese prima, in un tentativo di purificazione personale.

   “Come stai?” fece lei.

   “Bene,” rispose Antonio, come se emettesse un suono automatico, da risponditore telefonico. Iniziò a disegnare i petali di una margherita, ripassandoli più volte con la punta della biro premuta forte.

   “Sei ancora arrabbiato?”

Non rispose; c’erano troppe cose da precisare, quindi nessuna.

   “Sei arrabbiato?” chiese lei di nuovo con un tono di voce più esitante.

   “Deluso. Deluso è la parola giusta.”

   “Senti, non pensi che sia ora di smettere questa guerra non dichiarata e non combattuta? Possiamo riprendere a salutarci quando c’incontriamo?”

Gli diede il tempo di ribattere, ma lui restò in silenzio. Osservava le due cravatte appese al braccio dell’attaccapanni come nell’ufficietto di un venditore d’auto, come di uno pronto a togliere la giacca dalla stampella, abbottonarsi i pantaloni e la camicia, infilare la cravatta con il nodo allentato, tipo cappio, e andare incontro al cliente; poi, appena il cliente se ne va, è di nuovo subito sbraco. Pensò a quella scena di Casinò, meravigliosa perché orribile, con Robert De Niro che, nel suo ufficio padronale del casinò, si fa beccare in mutande dalla polizia che viene ad arrestarlo. È seduto dietro la scrivania senza pantaloni non perché si stia facendo spompinare da una pin-up, ma per risparmiare la stiratura; tutta una carriera criminale vanificata dalla paura delle grinze sul cavallo dei pantaloni. Antonio si alzò di scatto e, col telefono premuto contro l’orecchio, andò verso l’attaccapanni.

   “Perché dobbiamo continuare a oltranza questa farsa di voltare la testa ogni volta che c’incontriamo? Perché questo astio? Dai, rompiamo l’incantesimo negativo, vediamoci,” lo pregò Sonia con la voce intensa e melanconica degli ultimi tempi, una voce che lui, fino a pochi minuti prima, era quasi riuscito a dimenticare.

   “Non ho tempo,” rispose Antonio mentre arrotolava le cravatte e le riponeva in un cassetto. E aggiunse: “Sei tu che te ne sei andata nel modo che sappiamo. Sei tu che hai la coda di paglia.”

   “Sono passati due anni, la vita va avanti.”

   “Un anno e mezzo” precisò lui, afferrando due bollettini della TARI da pagare urgentemente e che invece erano rimasti nel cassetto.

   “Comunque ti prego, smettiamola. Superiamo questo rancore reciproco. Ti devo parlare, ho una cosa bella da dirti. Perché non vieni a trovarmi?”

   “Non mi va.”

   “Dai Antonio, proprio tu? Hai sempre detto che non sopporti quelli che si lagnano, alla napoletana, e ti comporti come un bambino che mette il muso?”

   “Che c’entrano i bambini? Sei stata scorretta, sei andata a lavorare con quell’essere spregevole.”

   “So che le cose ti vanno bene, non mi sembra che senza di me tu sia fallito.”

   “Io ti amavo, per me eri l’immagine della lealtà, ti idealizzavo, invece hai seguito quell’idiota. Quelviscido!” sospirò Antonio con il suo tipico tono sprezzante, sottolineando le parole con una smorfia che ovviamente Sonia non poteva vedere.

   “Sai benissimo che non l’ho seguito perché avessi una storia con lui. Ma dovevo pur lavorare e non potevo più restare con te. Anch’io ti amavo, anzi ti amo ancora, ma non torniamo su tutta la faccenda, sulle tue indecisioni e la tua doppia…”

   “Se mi avessi amato non te ne saresti andata.”

   “Oddio, la tua solita versione punitiva dell’amore. Un sacrificio umano, in pratica.”

   “Io lo idealizzo, tu lo rendi una faccenda di do ut des.”

   “Ancora! Sempre le solite cose! Senti, lasciamo perdere. Ho voglia di vederti, di stare un po’ con te. Vieni a trovarmi, voglio farti vedere la mia casa.”

   “Sei andata a vivere con un altro e vuoi farmi vedere il vostro nido d’amore?”

   “Ma no, dai, ho finalmente preso casa a Milano. Non faccio più la pendolare. E ti devo dire una cosa importante.”

   “Dilla.”

   “Non al telefono!”

   “Mi chiamano sul fisso, devo lasciarti, ciao,” borbottò Antonio, chiudendo precipitosamente la conversazione. Non lo stava chiamando nessuno. Rimase a lungo in silenzio, senza pensare, senza ragionare.

Poi convocò Caterina, la stagista, che nel frattempo era arrivata in ufficio, così come le altre due impiegate. “Verrebbe un attimo?” Le dava sempre del lei, le dava del lei anche nei pensieri, come aveva fatto per anni con Sonia, per non rischiare di sbagliarsi davanti agli altri.

   “Le ho lasciato il mio cestino vicino alla scrivania. Prima di svuotarlo le consiglio di non guardare cosa contiene e di esercitare la sua memoria olfattiva. Provi a indovinare cosa crea quelle molecole di odori. I profumi non sono fatti solo di petali di gelsomino: per creare un aroma servono anche le puzze.” Guardò la ragazza, che aveva l’espressione slavata ed esterrefatta tipica di chi ancora non sa e non capisce niente; un’espressione che di solito lo inteneriva. Si rese conto di averle già fatto le stesse raccomandazioni sia nei suoi primi giorni in ufficio sia poi, in contesti più intimi. “Le servirà, impari ariconoscere gli odori, eserciti l’olfatto, la vista, il tatto, se vuole imparare qualcosa.”

Lei annuì in silenzio; evidentemente non voleva pronunciare frasi sbagliate.

   “Stasera non posso prendere l’aperitivo con lei, mi dispiace,” le comunicò Antonio senza dare spiegazioni.

La giornata era rovinata, completamente. Restò in ufficio ma senza riuscire a fare niente di niente. Era sopraffatto da una specie di tedio che gli rendeva disgustosa qualsiasi azione. D’altro canto, tornare nel suo mesto bilocale del quartiere cinese, con vista sul cavedio, sarebbe stato ancora più rovinoso.

Verso l’una, lo stomaco attorcigliato e probabilmente un alito molto pesante, pensò di fare una sorpresa a sua figlia e andare a prenderla all’uscita da scuola. Annullò l’appuntamento con il rappresentante di flaconi, si mise in macchina e guidò sull’autostrada, incapsulato tra colonne di camion giganteschi fino a Desenzano, fino a casa. Di solito raggiungeva la moglie e la figlia il venerdì sera e tornava a Milano il lunedì all’alba.

Il suo arrivo a sorpresa, di giovedì, non riuscì a dare felicità e sollievo a nessuno di loro tre. Al di fuori delle giornate previste dal calendario famigliare, quelle due non avevano affatto bisogno di lui.

Il lunedì seguente, alle otto di sera, mentre si attardava in un’enoteca con Caterina, la stagista ventitreenne con cui aveva un affaireche fino a qualche giorno prima gli era parso di esaltante tensione erotica, decise di non rispondere a una nuova telefonata di Sonia.

Richiamerà lei, io no di certo, si disse. Ma la mattina dopo, alle otto, non riuscì a resistere e fu lui a comporre il numero di Sonia.

   “Ciao, cosa volevi ieri sera?” chiese in tono burocratico.

   “Sapere quando vieni a trovarmi.”

   “Di nuovo? È una forzatura. Capiterà più avanti, se deve capitare,” disse. Sperò che lei rilanciasse.

   “Ti prego Antonio. Pensa a tutto quello che ho fatto per te, anzi, per noi…”

   “Cioè andare a lavorare per la concorrenza seguendo quell’idiota, e lasciarmi, e tradire il nostro amore…”

   “Parli tu di tradimento, con tutto quello che ho dovuto sopportare? Sei spietato.”

   “La vita è una sofferenza e una complicazione dopo l’altra, lo sai benissimo. Niente di quello che ho fatto è stato contro di te.”

   “Vediamoci, vienimi a trovare.”

   “Dammi l’indirizzo.”

   “Vieni stasera quando chiudi l’ufficio?”

   “Va bene.”

   “Vieni per cena?”

   “Non esageriamo. Passo da te verso le sette e mezza.”

   “Segnati l’indirizzo: via Lazzaro Palazzi 18, a Porta Venezia, citofono SM.”

   “Sì.”

   “È un appartamento carino.”

   “A dopo.”

   “Che bello! A dopo!”

 

Antonio

 

Sei minuti di anticipo.

Fermo sul marciapiede di via Lazzaro Palazzi, così vicino al numero 18 da riuscire a leggerlo senza sforzo, a pochi metri dal portone di legno illuminato a giorno da una lampada, con il segno stinto dei calci di chi si aiutava ad aprirlo con una pedata, gli sgraffi dei mazzi di chiavi intorno alla serratura, le tracce dei tentativi di forzarlo malamente stuccati e ridipinti. Una strada a senso unico, le auto parcheggiate da un lato e gli edifici che si facevano ombra l’un l’altro.

Allora Sonia abita qui, si disse Antonio. Era infastidito per aver accettato quell’invito pressante, e anche emozionato.

Guardò in alto: una casa di quattro piani, giallastra come tante case milanesi dei primi del Novecento; l’intonaco conservato abbastanza bene, segno di una ristrutturazione non remota; ovunque, scritte e tag senza senso, che imbrattavano non solo la facciata del palazzo ma anche la serranda abbassata di un ferramenta e persino i cartelli stradali in cima ai pali. Osservò le insegne dei negozi, per dare un’ambientazione alla vita quotidiana di Sonia. Notò, nell’ordine: le vetrine di uno studio di architettura, un Orlo rapido con la scritta in italiano e in cinese, un Nail studio – si farà qui la manicure? –, un emporio di stoffe etniche senza insegna, da cui proveniva un impressionante tanfo d’incenso – sarà una fragranza sintetica e cancerogena? –, un ristorante eritreo Aladdin, un bar eritreo Asmara – era evidentemente la zona degli eritrei, “eritreo” era segnalato dappertutto –, la bottega di una creatrice di bijoux e infine un’enoteca di genere modaiolo, affollata da giovani all’ora dell’aperitivo. Champagne Socialist diceva una scritta illuminata, composta con i caratteri a stampatello tipici degli slogan spruzzati con la bomboletta, magari durante un corteo. Che stronzata, pensò Antonio. Lei verrà qui a bere, e sarà corteggiata da questa genia di idioti col bicchiere in mano. Li detestò tutti, indistintamente.

Osservò le finestre del 18: quali saranno le sue? Magari ha l’affaccio solo all’interno, sul cortile: considerato il frastuono dei gagliardi minchioni che si avvinazzavano da Champagne Socialist, sarebbe stata indubbiamente la soluzione immobiliare migliore. Tra l’altro, non è che ci fosse un gran panorama in quel punto della strada. Il palazzo di fronte, malconcio, era meglio non vederlo.

Si rosicchiò una pellicina del pollice destro, una specie di tic che nell’ultimo anno gli aveva formato accanto all’unghia una collinetta callosa, rivelatoria dei tormenti e di una debolezza emotiva che avrebbe preferito non avere e, soprattutto, non mostrare. È ora: vado o aspetto qualche minuto? Si toccò la fronte. No, non era sudato. Si schiacciò i capelli, lisciandoli all’indietro. Guardò le scarpe, la piega dei pantaloni.

Si avvicinò al citofono. Una sfilza di numeri e iniziali. Ormai nessuno metteva più il cognome sulle targhette esterne: nella crescente insicurezza che lambiva la vita degli italiani, tra ladri d’appartamento georgiani, zingare minorenni incinte borseggiatrici e scassinatrici, gelosi italiani autori di efferati omicidi delle ex, profughi africani alla deriva ubriachi di birrette, pazzoidi lasciati in libertà dalla chiusura delle strutture manicomiali, cocainomani furibondi pronti ad attaccar briga con chiunque, autori di omicidi stradali, di rapine, di molestie e stupri, con ogni genere di delinquente fermato e trattenuto in cella giusto per poche ore e poi liberato in attesa di tre gradi di giudizio, mentre gli sbarchi e gli sgomberi e gli accertamenti e le occupazioni si moltiplicavano, la banalità di avere il proprio cognome scritto sul citofono, per strada, dava un’idea di esposizione al pericolo quasi quanto lasciare la porta di casa spalancata mentre si fa la doccia.

La doccia. Sonia che fa la doccia. La ricordò nuda sotto il getto d’acqua, nel bagno di una delle tante camere d’albergo dove il loro amore aveva vissuto e prosperato – prima che lei se ne andasse. Si rese conto che ricordava esattamente l’odore delle sue secrezioni vaginali, la consistenza delle grandi labbra, così morbide, soffici e sviluppate,quasi incongrue nel suo piccolo corpo magro, compatto, scattante; ricordava l’odore caglioso dell’intruglio di muesli e yogurt che divorava ogni mattina per poi praticamente smettere di mangiare fino all’indomani – non aveva mai fame, Sonia. Ricordava alla perfezione il disegno delle sue sopracciglia, così folte e lunghe da essere quasi unite sopra il naso, con solo un paio di peletti disposti fuori dai due archi castani, che le accentuavano l’espressione ardente degli occhi; ricordava la maglia a righe nere e bianche, da marinaia milanese (il nero al posto del blu), con cui si era presentata al primo colloquio di lavoro ormai sette anni e mezzo prima, e gli venne in mente la naturalezza con cui passava dall’italiano al francese all’inglese durante le conversazioni con i clienti; ricordò persino l’odore del suo dentifricio Botot, una marca che aveva visto usare solo da lei. Fu una sensazione così precisa che gli sembrò di essere lui a lavarsi i denti, in quel preciso momento, con il Botot.

SM, erano le iniziali sulla targhetta. Antonio suonò. Non che gli tremasse la mano, però non era nemmeno salda. Avrò premuto fino in fondo? si chiese.

Sonia non rispondeva. Che fare? Doveva premere di nuovo il pulsante del citofono o invece lei stava per aprirgli e avrebbe fatto la figura del fesso ansioso?

Dalla griglia sopra la tastiera risuonò la voce di Sonia. “Sei tu?”

   “Sono io,” rispose lui.

   “Terzo piano, scala a destra in fondo al cortile.” Di sicuro avrà l’affaccio interno, pensò Antonio mentre spingeva il portone. Sulle dita gli rimase odore di legno umido.

Per tutto il tempo necessario a entrare nell’atrio di quella casa sconosciuta, attraversare in diagonale il cortile e aprire una seconda porta a vetri, varcarla, trovarsi di fronte all’ascensore e chiamarlo, provò un acuto dolore al petto, una mancanza assoluta d’aria, come la descrivono i malati d’asma. Eppure era sano.

Ci manca solo che muoia d’infarto nell’ascensore di casa sua, pensò, e, prima di entrare nella cabina, cercò nella rubrica del telefonino il numero del suo medico di Napoli, che non lo visitava da anni ma era l’unico di cui si fidasse e che avrebbe potuto fargli una diagnosi salvavita. Non starò diventando ipocondriaco? si chiese mentre rimetteva il telefono in tasca. La amo ancora o no, faremo l’amore o no, mi piacerà ancora o no, cosa vorrà dirmi di bello – o di brutto? Queste domande, che si era posto cento volte da quando aveva acconsentito ad andare a trovarla, continuarono a rimpallare sempre più velocemente dentro di lui, tipo flipper, anche mentre l’ascensore saliva cautamente verso il terzo piano. Ebbe una vaga sensazione di nausea.

Sonia lo aspettava sul pianerottolo. La sfiorò con un’occhiata veloce e laterale, come se stesse guidando e dovesse tornare a guardare la strada per non andare a sbattere. Così, quando poi, più tardi, cercò di ripensare a che impressione gli avesse fatto trovarsela di fronte mentre si aprivano le porte scorrevoli della cabina… be’, non riuscì a ricordare niente. Si dissero qualcosa tipo un “ciao” furtivo, poi Sonia rientrò nell’appartamento. Antonio la seguì, rigido.

   “Allora, eccomi qua,” le disse con un sorriso che voleva essere ironico, o forse autoironico, fermo nell’ingresso dell’appartamento – che era poi anche salotto e cucina. Tutto era bianco o sabbia,con tocchi di grigio balena; colori neutri che lui stesso le aveva insegnato a usare per non correre rischi: i colori da consigliare a chi è esteticamente insicuro – almeno non sbaglia – ma anche ideali per far spiccare qualche oggetto molto ricercato, un quadro o una scultura o una collezione di vetri… C’era odore di formaldeide. Tipico di Sonia, avere mobili nuovi e non aprire le finestre: aveva sempre freddo, era la persona più freddolosa che avesse mai conosciuto. Cercò con lo sguardo tracce di qualche presenza maschile: una giacca a vento troppo grande per essere di Sonia appesa a un gancio, un sigaro a metà sul bordo del posacenere accanto al divano, una rivista di auto o di orologi… Niente. Ma era di nuovo devastato dalla gelosia, si sentiva come un tossico che, dopo aver creduto di essersi finalmente ripulito, per un errore – un errore ovviamente annunciato – ricade nella solita disperante dipendenza.

   “Ti piace?” gli chiese lei, a bassa voce.

Antonio si guardò intorno senza muovere un passo.

   “Mancano fiori, un mazzo di fiori o di erbe aromatiche… Ci vuole qualcosa che abbia dei colori vivi,” rispose, tanto per mantenere il suo vecchio ruolo di arbitro dei gusti di coppia. E aggiunse:      

   “Almeno quando hai ospiti.”

In realtà, quella stanza aveva un aspetto gradevole, ma il fatto che l’avesse arredata senza il suo contributo lo faceva sentire ingiustamente escluso. Però, adesso che ci pensava, come gli veniva in mente di darle consigli per un appartamento dove sicuramente avrebbe portato altri uomini?

A quel punto guardò meglio Sonia. Era sempre lei, spigolosa e adolescenziale, nonostante ormai avesse trentatré anni compiuti. Come se la crescita dell’ossatura si fosse arrestata nella fase in cui certe ragazzine sono ancora simili a maschietti effeminati: il seno è più che altro un capezzolo rigonfio, il ventre è piatto, il sedere un semplice prolungamento del muscolo della gamba, solo vagamente più voluminoso. Aveva pantaloni grigi, scarpe stringate da maschio, un dolcevita nero di un paio di taglie più grande, come se l’avesse preso dal cassetto di un fratello maggiore. Niente trucco. Era né più né meno la stessa di sempre.

   “Cosa devi dirmi?” le chiese, sempre fermo nell’ingresso, il soprabito ancora addosso, immaginando già il disagio che quella visita gli avrebbe procurato nei giorni a seguire. Gelosia, di nuovo gelosia, proprio ora che credeva di essersi finalmente placato.

   “Siediti, togliti il cappotto,” disse lei.

   “Non è un cappotto,” puntualizzò Antonio.

   “Quel che è. Dai, dammelo.”

   “Dimmi perché sono venuto qui.”

   “Ho una bella notizia per te.”

   “E allora dammela, questa notizia,” insistette lui. Aveva una brutta sensazione, anzi, un presentimento negativo – come un cane prima del terremoto. E voleva uscire da quella stanza al più presto.  

   “Dammi la notizia,” ripeté, “e andiamo a bere qualcosa qui sotto. O non vuoi farti vedere con me perché sono abituati a vederti con un altro?” insinuò, arretrando di un passo.

Si sentì ridicolo: le sue spalle erano già quasi contro la porta d’ingresso. In quella stanza non c’era spazio nemmeno per indietreggiare.

   “Ma perché sei così diffidente? Voglio dirti una bella cosa, devi solo prenderla bene, è proprio quello che volevi.”

   “Cosa? Dimmi cosa…” farfugliò Antonio, ormai convinto che una catastrofe stesse per abbattersi su di lui.

Sonia restava zitta.

   “Sono incinta,” disse infine, con un tono esultante che a lui parve forzato, da attrice improvvisata.

La guardò sbalordito.

   “Che cosa disgustosa!” esclamò, con un’espressione di ribrezzo incontenibile, come se qualcuno gli avesse vomitato in faccia.

   “Ma dai, non sei felice?”

   “E di cosa dovrei essere felice?,” bofonchiò lui, schifato, vedendo davanti a sé non Sonia, oppure un grazioso feto col dito in bocca, come nelle ecografie, bensì la figura alla Marty Feldman dell’ex collaboratore, quel menagramo che gli aveva fatto causa quando non gli aveva rinnovato il contratto, lo sgorbio che si era fatto assumere dalla concorrenza portandosi via Sonia. Allora era vero, allora i suoi sospetti erano giusti, e tutti quelli che gli avevano detto “ma no, cosa vai a immaginare, lei e quello sono solo amici” erano ingenui o ancor peggio in malafede, volevano nascondergli la realtà, Sonia a letto con il fetido… “Che orrore!” esclamò, spaventato dall’immagine dei due che si rotolavano tra le lenzuola. Per un momento si figurò quel mellifluo mentre le accarezzava la pancia con un sorriso trionfante, di sfida. “Io ci sono riuscito ad avere un figlio vero con la tua donna,” sembrava dire, come se sputasse.

   “È la cosa peggiore che potessi fare, hai sporcato tutta la nostra storia!” sbottò Antonio, con la voce incrinata dalla disperazione. “È atroce anche solo immaginarti col pancione!” Ma Sonia non sembrava per niente ingrassata: il dolcevita così grande serviva a nascondere la pancia? O forse, più probabilmente, era una gravidanza finta, inventata per farlo soffrire, per provocarlo, per colpire i suoi sentimenti di padre mancato, anzi di padre genetico mancato. “Mi fai schifo!” esclamò infine, cercando di nuovo di indietreggiare e allontanarsi da quell’orrore – ma dietro c’era la porta.

Lei gli diede uno schiaffo, riuscendo solo a sfiorargli il mento.

Lui non reagì.

Lei gli diede un altro schiaffo, stavolta ben assestato ma privo di vigore.

   “Che orrore, non sei più una femmina, sei finita!” le disse sprezzante Antonio, vedendola come ancora non era: sudata, grassa, con il doppio mento e il corpo deformato.

Lei cominciò a prenderlo a pugni: deboli pugnetti sul petto – uno, due, tre, una scarica.

   “Sei un uomo di merda!”

Lui fermo, tipo statua. Fermo con le spalle contro la porta, con un’espressione fissa di disgusto, ira e disprezzo.

Lei continuava con i pugnetti, gridando: “Maledetto! Vigliacco!” La sua voce era stridula, una vera e propria angheria: “Carogna! Verme schifoso!” Non ci si poteva salvare, di sicuro la sentivano fino nell’altra scala. Antonio la spinse: voleva solo che si spostasse di qualche centimetro, giusto per lasciare lo spazio necessario ad aprire la porta alle sue spalle, per potersene andare, finalmente, per allontanarsi da quella voce, da quella pancia vera o finta che fosse, per cancellarla dal suo spazio visivo.

Lei indietreggiò, e Antonio la vide in un movimento al rallentatore, plastico come quelli di chi fa yoga, un movimento in cui rinculando si sbilanciava, o forse inciampava in qualcosa, magari il tappeto (c’era un tappeto?), e le si piegavano le gambe e toccava terra con un braccio, per sostenersi, una scena da niente, mica una caduta, e lui comunque nel frattempo si era voltato, aveva aperto la porta e se l’era richiusa alle spalle. Slam!

   “Non voglio più vederti!” gridò, rivolto alla tromba delle scale. “Mai più!” E ancora: “Non cercarmi, non esisto più,” bofonchiò ansimando di rabbia mentre scendeva le scale precipitosamente, furiosamente, per tre piani, due gradini o forse tre alla volta, più veloce che se fosse sceso con l’ascensore, scappando da quella strega malefica col pancione invisibile, forse una bugiarda, forse solo una stronza che si era fatta mettere incinta da un farabutto, una fessa come tante, e arrivò al pianterreno, e ripeté in senso inverso il percorso dell’andata – stavolta con passo per nulla esitante: aprì la porta a vetri, attraversò in diagonale il cortile con le biciclette incatenate alla rastrelliera, tutte con il sedile da bambino fissato sul retro (questo, pur nella fretta e nell’agitazione, lo notò), e sfiorò i bidoni della differenziata illuminati da una fotocellula che si era accesa al suo passaggio, come quando un criminale viene colto sul fatto, e attraversò l’androne con le cassette della posta fissate alla parete, cercò con rabbia l’apriportone e lo trovò subito, clic, uscì in strada, clic, il portone che si richiudeva alle sue spalle e…

E finalmente si fermò a pensare.

Che cazzo ho fatto? Sono un uomo, perché sono scappato davanti a quei pugnetti inconsistenti? Sono disgustato, è vero, però non devo scappare come un cane atterrito dai botti di Capodanno. Peggio per lei, se si è rovinata. Allora premette di nuovo il pulsante SM, per farsi aprire, per tornare da lei e scusarsi per la spintarella, sì, era stata solo una spintarella, e soprattutto per dirle, signorilmente, quanto era contento che lei si riproducesse con quel Frankenstein junior o con chiunque altro, tanto lui – ma questo l’avrebbe omesso – era presissimo dalla giovane Caterina. Che mettesse pure al mondo tutti i bambini geneticamente disgustosi che voleva, disgustosi dato l’incrocio con le cellule di quel tizio raccapricciante, poveri bambinideformi per parte paterna, che si rovinasse pure come donna, non più desiderabile, non più prezioso esemplare di femmina androgina, non più creatura esile e segreta ma ennesima madre con il mal di schiena, le recriminazioni e le visite dal pediatra, ennesima madre che parla solo di scuole e tate e ingiustizie delle maestre.

Ma Sonia non rispondeva.

Premette nuovamente il tasto del citofono, mentre l’agitazione gli montava dentro, un’agitazione che virava al cavalleresco, con meno sdegno e più compassione.

SM come Sonia Marelli, ragionò. Vuol dire che è proprio casa sua, che non abita con quello scarafaggio, altrimenti sulla targhetta ci sarebbe anche lui, o un altro.

Lei, intanto, non rispondeva.

Antonio si frugò in tasca, afferrò il cellulare e fece per comporre il numero di Sonia: l’aveva cancellato dalla rubrica ma lo sapeva ancora a memoria. Lo schermo del telefono era ingombro di notifiche del “Corriere della Sera”: le ennesime minacce nucleari di Kim Jong-un. “Fai la stronza, su, fai la stronza, che intanto il pupazzo coreano ci carbonizza tutti,” disse come se stringesse in mano non il telefono ma una Sonia in formato mignon. Compose il numero. Suonava a vuoto mentre il “Corriere della Sera” notificava che il PIL del terzo trimestre 2017 era cresciuto dello 0,4 per cento sul secondo. “Macchissenefrega,” bofonchiò. Perché non risponde al citofono? si chiese di nuovo, mentre lei non rispondeva nemmeno al telefono.

   “Cos’è successo? È svenuta? Ha sbattuto la testa? Ha un’emorragia e sta perdendo il bambino? Oppure è solo sadica? Fa la scena tipo calciatore?” disse parlando al portone come se fosse lei, come per offenderla e provocare una reazione. Schiacciò di nuovo il tasto del citofono e ricompose il numero sul cellulare.

Intanto era sul marciapiede, a pochi passi dai ragazzi vocianti di Champagne Socialist, accanto a quegli esseri inutili anziché accanto a Sonia. Si sentiva angosciato, impotente, inetto, probabilmente dannoso.

Aveva quarantacinque anni e forse era addirittura un assassino. L’assassino di una donna incinta, della sua ex amante che aveva scientificamente evitato per un anno e mezzo sino al cedimento diquella sera. Un tradimento e un omicidio: era questo che avrebbe ricordato di lui sua figlia?

La telefonata che ti cambia la vita. Sembra una frase fatta. Ad Antonio stava capitando.

 

Bettina

 

Nell’ottobre del 2007, durante lo stesso fine settimana in cui nasceva il PD – partito cui Bettina Colosio avrebbe guardato con simpatia per via del suo consistente senso di colpa verso le minoranze e le maggioranze oppresse –, al Capri Palace di Anacapri si teneva una convention.

Era l’assemblea annuale dell’Associazione italiana di proprietari e gestori di campeggi e villaggi turistici. I partecipanti, tra cui Bettina, erano un gruppo eterogeneo e disunito: imprenditori del turismo poco avvezzi a incontrarsi e discutere dei problemi comuni, forse addirittura poco convinti di avere problemi in comune con altri, dato che poi ogni regione e provincia e località ha regolamenti propri, a loro volta interpretabili a seconda del colore delle giunte. Inoltre, a parte il coacervo di leggi e norme particolari cui campeggi e villaggi erano soggetti, che li rendeva poco assimilabili l’uno all’altro, i rispettivi proprietari esprimevano istanze diverse e incompatibili: tra loro si trovavano cementificatori bramosi di condoni edilizi, anime belle rispettose delle regole, vittime di giunte ambientaliste o di sinistra minacciate di esproprio in favore del verde pubblico, corruttori di impiegati e di geometri comunali.

Nonostante simili radicali differenze di visione e di obiettivi, stavolta l’invito alla partecipazione era stato massicciamente accolto dagli associati per via del luogo dov’era programmata l’assemblea. Al termine di una stagione estiva massacrante,chiunque avrebbe trascorso ben volentieri un fine settimana a Capri, isola in cui non esisteva né era mai esistito un campeggio, dove nessuno aveva mai avuto a che fare con l’arroganza dei camperisti, con la ciabattonaggine dei tendisti, con la problematicità di famiglie piene di bambini che cercavano alloggio in bungalow e case mobili a prezzi di saldo, impilati in letti a castello e con bagni microscopici, dove sembrava quasi impossibile che potessero entrare e fare la doccia intere famiglie di vichinghi, con bambini alti come adulti e con adulti dalle pance parossistiche.

Quelle settimane del 2007 avevano anche visto i primi V-day, manifestazioni del movimento vaffanculista inventato dal comico Beppe Grillo, movimento che in seguito avrebbe sbancato in Italia, raccogliendo sostenitori sia tra chi credeva con fede religiosa a quel dettato populista sia tra chi sperava in un’accelerazione del disastro, con conseguente palingenesi dell’intero sistema politico-amministrativo italiano.

Tra gli imprenditori di quello specifico settore turistico, campeggi e villaggi vacanze, esasperati da vincoli spesso risalenti a normative arcaiche o semplicemente vessatorie che li menomavano nei confronti della concorrenza internazionale, i V-day iniziavano a raccogliere vigorosi consensi.

Bettina, tuttavia, come gran parte dei partecipanti alla convention di Anacapri, era scettica sulla possibilità di incidere nelle politiche turistiche nazionali e locali, obiettivo di quel raduno imprenditoriale. Pur avendo discusso con alcuni colleghi del potenziale rivoluzionario dei V-day, mirava piuttosto a godere pienamente delle ultime giornate di sole tiepido, degli ultimi piedi nudi, degli ultimi bagni, e al contempo si guardava intorno con curiosità priva di ansia, osservando gli esemplari di specie maschile – chissà mai ce ne fosse uno interessante. Acasa, a Desenzano, cittadina turistica del lago di Garda a metà strada tra Milano e Venezia, aveva lasciato Angelo, il fidanzato che non vedeva l’ora di dismettere. Uno che, pur avendo sulla carta caratteristiche che lo rendevano assai desiderabile, si era rivelato il solito flop. Pretenzioso, inutile e per giunta afflitto da noiosissime fantasie sessuali: la tormentava perché indossasse scarpe con lacci alla schiava e tacchi a spillo, reggicalze, guêpière, reggiseni a mezza coppa che lasciavano scoperti i capezzoli, tutto un armamentario scomodissimo se non addirittura nocivo, che per giunta a lei pareva ridicolo mentre a lui provocava erezioni e scatenamento erotico. Si era disamorata, ecco la verità. E la fine era cominciata quando Angelo aveva manifestato queste ossessioni, che Bettina trovava umilianti come se ogni volta le dichiarasse che lei in sé e per sé non bastava a metter voglia di fare l’amore, bisognava rivestirla di ammennicoli, decorarla, altrimenti niente. Il suo corpo slanciato, sodo, compatto, le gambe perfette, il culo alto, le tette della terza ma molto ben aggrappate al costato, la pelle morbida, quasi tenera, tutto inutile. “Mi chiede continuamente di vestirmi da spogliarellista ed esibirmi davanti a lui che si tiene il pisello in mano,” aveva confessato a un’amica conosciuta in campeggio tanti anni prima, un’olandese che, abitando a Rotterdam, non avrebbe fatto pettegolezzi a Desenzano. L’amica, mostrando concretezza e senso pratico, le aveva consigliato di fregarsene, di fingere e tener botta ancora per qualche mese utilizzando Angelo come donatore di materiale genetico, dato l’aspetto fisico prestante e il discreto patrimonio alberghiero destinato a riverberarsi sulla prole comune. Ma l’idea di condividere con quello scontatissimo esemplare di maschio gardesano sesso, vacanze, passioni civili, e magari addirittura un figlio – cioè qualcuno che li avrebbe bene o male legati per sempre, pur nelle separazioni o nei divorzi – la eccitava quanto la prospettiva di un pasto a base di minestrina e mela grattugiata. Si era accorta che il meglio di Angelo doveva inventarlo lei, e a quel punto la sua disponibilità si era trasformata in insofferenza. Bisognava trovare l’energia per notificargli la fine della relazione e dei progetti comuni. Ma, dopo una stagione turistica lunga sei mesi, fatta di sedici ore di lavoro al giorno sette giorni su sette, la svettante trentaduenne in gita a Capri, più che di accollarsi spiegazioni e recriminazioni, sognava una redenzione fatta di principi azzurri, massaggi ayurvedici e tramonti mozzafiato (a Desenzano c’era solo l’alba, il tramonto si vedeva dall’altro versante del lago).

 

Continua a leggere… 

 

L’autrice.

Camilla Baresani.

Camilla Baresani, nata a Brescia, vive tra Roma e Milano. Ha scritto i romanzi Il plagio (2000), Sbadatamente ho fatto l’amore (2002), L’imperfezione dell’amore (2005), Un’estate fa (2010, Premio Hemingway e Premio Selezione Rapallo), Il sale rosa dell’Himalaya (2014, Premio Città di Vigevano e Premio Cortina d’Ampezzo), Gli sbafatori (2015). È anche autrice del saggio Il piacere tra le righe (2003), dei racconti di TIC. Tipi Italiani Contemporanei (2006), di La cena delle meraviglie con il critico-gourmet Allan Bay (2007) e di Vini, amori con Gelasio Gaetani d’Aragona (2014). Collabora con il “Corriere della Sera” e con “Grazia”. Insegna scrittura creativa alla scuola Molly Bloom.

 

 

 

 

  • Gelosia
  • Camilla Baresani
  • Editore: La nave di Teseo
  • Collana: Oceani
  • Anno edizione: 2019
  • Pagine: 376 p., Brossura

 

 

 

 

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