”Habemus pontem: sarà felice anche Bergoglio sempre impegnato a gettare ponti? Bei tempi quelli in cui si poteva trascorrere il sabato a Camogli, la città dei mille velieri e la domenica a Genova (Zena) o a Prà patria del basilico
OLIDIN OLIDIN OLIDENA, COM’È DIFFICILE RAGGIUNGERE ZENA!
Tempo d’estate, arriva il solleone. È difficile parlare di cose serie sotto la canicola, o almeno bisogna farlo con leggerezza. Per una volta, disinteressiamoci del parroco romano che ha celebrato, con l’autorizzazione al sindaco, l’unione civile tra due donne, del contagio che non finisce, delle restrizioni sempre meno sopportabili, delle diatribe europoidi tra paesi frugali del Nord e cicale meridionali, dell’evidente vittoria dei Benetton sul governo nella questione delle autostrade.
Il gruppo trevigiano ha giocato sporco sul tema delle concessioni a seguito della tragedia del ponte Morandi. Dopo decenni di incuria, l’intera rete autostradale ligure è oggetto di lavori, verifiche, interruzioni ad ogni passo. Olidìn, olidìn, olidena, quant’è difficile raggiungere Zena, parafrasando un vecchio ritornello dialettale: olidin olidin olidena, sabbu a Camuggi, dumenega a Zena, olidin, olidin olidà, sabbu a Camuggi dumenega a Pra. Bei tempi, quelli in cui si poteva trascorrere il sabato a Camogli, la città dei mille velieri e la domenica a Genova (Zena) o a Prà, patria del basilico, ingrediente principe del pesto.
Ora, nel felice, progredito 2020, ci si deve mettere in coda sotto il sole e sperare di arrivare entro la notte, quando chiudono caselli e tratti autostradali. Per i liguri intenzionati a partire, si protrae il lockdown: meglio restare a casa. La rete stradale è un labirinto. Cambia anche la prospettiva cantata da Paolo Conte in Genova per noi: “con quella faccia un po’così, quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi prima d’andare a Genova. E ogni volta ci chiediamo se quel posto dove andiamo non c’inghiotte, e non torniamo più.” La scommessa è sui tempi di percorrenza: arriveranno in riva al mare gli eroi che affrontano la dura sfida del viaggio? E sì che il nuovo ponte autostradale, costruito tutto sommato a spron battuto dopo la tragedia del 14 agosto 2018, fa bella mostra di sé, con le sue campate agili, la silhouette filante, basta con i tristi, enormi stralli in cemento grigio a vista – una sorta di citazione del brutalismo architettonico – che non hanno impedito il crollo, la perdita di quarantatré vite umane e un blocco logistico ed economico della Liguria spezzata che sta per compiere due anni.
[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]Ponte Morandi? Dopo decenni di incuria, l’intera rete autostradale ligure è oggetto di lavori, verifiche, interruzioni ad ogni passo. Olidìn, olidìn, olidena, quant’è difficile raggiungere Zena, parafrasando un vecchio ritornello dialettale: olidin olidin olidena, sabbu a Camuggi, dumenega a Zena, olidin, olidin olidà, sabbu a Camuggi dumenega a Pra. Bei tempi, quelli in cui si poteva trascorrere il sabato a Camogli, la città dei mille velieri e la domenica a Genova (Zena) o a Prà, patria del basilico, ingrediente principe del pesto![/stextbox]
Sotto il solleone, il presidente Mattarella inaugurerà il ponte ad inizio agosto. Il grande spreco di retorica, gli inevitabili pistolotti patriottici, la melassa ottimistica, faranno sbadigliare sotto l’ombrellone i liguri e i pochi turisti che hanno superato il percorso di guerra di strade e autostrade con destino Zena e la Liguria. Sopravvivremo all’inaugurazione, ai nastri e alla fiera delle vanità e delle parole, tanto sgradite in una terra che ha sempre fatto del silenzio operoso una sua caratteristica. Benvenuto al nuovo ponte, che, guarda un po’, per essere consegnato con qualche mese di anticipo (sul ritardo: dissero, nell’estate di due anni fa, che si sarebbe potuto fare in pochi mesi) dovrà essere percorso a velocità ridotta rispetto al vecchio, poiché le curve di accesso sono quelle originali, non più a norma delle nuove regole d’ingegneria stradale.
Pazienza, chi transita vedrà meglio il paesaggio di archeologia industriale dismessa della valle Polcevera e i colorati parallelepipedi dei centri commerciali che hanno sostituito i grandi capannoni dell’industria pesante sull’altra riva. Ma insomma, è fatta: habemus pontem. Sarà felice anche Bergoglio, sempre impegnato a gettare ponti e abbattere muri. Nel frattempo, Autostrade “per l’Italia” (o contro di essa?) ha praticamente chiuso la Liguria, ostaggio di un percorso di guerra che dà un ulteriore colpo all’economia regionale. Prima il crollo, poi il Covid, adesso il labirinto di deviazioni, corsie uniche, interruzioni e chiusure. Per chi vive di turismo ed economia dei trasporti, chiusi i cancelli di gran parte delle industrie d’antan (qualcuno ricorda il mitico triangolo industriale Genova-Milano-Torino, la cui sigla automobilistica, un presagio negativo, era Ge–Mi–To) è un colpo da K.O., l’ennesimo. Ma, dicono le gazzette e i camerieri di servizio, #andràtuttobene.
Meglio prenderla in ridere, regalare agli amici del resto d’ Italia la nostra autoironia. Gira la foto di un alano con la didascalia: cane abbandonato in autostrada torna a casa prima del padrone! Un finto manifesto dell’azienda turistica invita a raggiungere la Liguria attraverso l’Alta Via dei Monti Liguri o con il traghetto da Barcellona. Un filmato diventato “virale” mostra una donna incinta che telefona al marito invitandolo a correre a casa, perché il parto è vicino. L’uomo, stremato, nella sequenza successiva, si vede aprire la porta da un frugoletto e chiede emozionato alla moglie: come l’hai chiamato, poi, nostro figlio? Si sorride a denti stretti per non piangere.
[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]Benvenuto al nuovo ponte, che, guarda un po’, per essere consegnato con qualche mese di anticipo dovrà essere percorso a velocità ridotta rispetto al vecchio, poiché le curve di accesso sono quelle originali, non più a norma delle nuove regole d’ingegneria stradale: pazienza, chi transita vedrà meglio il paesaggio di archeologia industriale dismessa della valle Polcevera! [/stextbox]
Aggiungiamo, noi liguri Doc, un carico di sarcasmo: il fatto è che, nel profondo dell’anima, la condizione presente è ideale. L’aspirazione più viva del vero ligure è non essere disturbato dai “foresti”: maledette autostrade, ferrovie e navigli che scaricano tra il mare e l’appennino orde indesiderate di esseri umani provenienti da ogni dove! Se non fosse per l’“insignificante” fatto del PIL e delle “palanche” (i soldi), l’isolamento attuale corrisponderebbe perfettamente all’indole della nostra gente. Splendido isolamento venne chiamata nella seconda metà del secolo XIX la politica britannica, ma gli inglesi, beati loro, abitano su un’isola. La Liguria è solo una stretta, accidentata striscia di territorio tra gli scogli, il mare e gli impervi appennini, a cui i liguri sono attaccati come patelle.
Le due parole d’ordine della Liguria di sempre sono mugugno e “manimàn”. Il mugugno è il borbottio negativo a mezza bocca, la visione che impedisce l’ottimismo e fa vedere tutto in chiaroscuro. “Manimàn”, con l’accento sulla seconda a, è intraducibile: significa qualcosa come “non si sa mai”, “chissà se ne vale la pena”, se i vantaggi di fare qualcosa sono superiori ai benefici. Dalle nostre parti, impazza un comico altrove sconosciuto, Andrea Di Marco, popolarissimo nelle emittenti locali e su Internet, promotore di un fantomatico Movimento Estremista Ligure, il cui slogan è Basta Milanesi, fautore di una stretta chiusura dei confini regionali e di durissime rappresaglie contro gli odiati foresti. Di Marco tiene indignati comizi online con la pesante cadenza genovese che una volta chiamavamo còccina. Spesso i comici rappresentano l’anima popolare meglio della cultura “alta”. Qualcuno ricorderà le prestazioni televisive di Andrea Ceccon e Enrique Balbontin, e la gag della torta di riso. I due – che sono anche stimati avvocati del foro genovese – interpretano la parte di operatori turistici maleducati, eternamente infastiditi dall’arrivo dei turisti, a cui propongono un menu formato dalla torta di riso o, in alternativa, “vaffa”. La torta di riso, nel loro locale, è sempre finita.
Pensare che noi liguri abbiamo fatto l’Italia: genovese Mazzini, nizzardo Garibaldi, di Cairo Montenotte il cantore dei Mille Giuseppe Cesare Abba, onegliese l’autore di Cuore, Edmondo De Amicis, epopea letteraria dell’Italietta unita e umbertina. Genovesi erano gli armatori Rubattino che fornirono le navi a Garibaldi, Nino Bixio e Goffredo Mameli, autore di Fratelli d’Italia, su note di Michele Novaro, maestro di una banda musicale della città. Abbiamo anche scoperto l’America, sia pure in conto terzi, con Cristoforo Colombo. Fu la repubblica aristocratica di San Giorgio, delle grandi famiglie Doria, Fieschi, Spinola, a finanziare l’impresa degli spagnoli. Ricavarono cospicui interessi, con cui edificarono magnifici palazzi pieni di opere d’arte – i Rolli – ma non ebbero alcun progetto politico, non costruirono civiltà come i veneziani: “maniman”. Taccagni un po’ lo siamo davvero, tranne, appunto, per la casa e per la tomba: il cimitero di Staglieno è pieno di arte e monumenti, una meta turistica lugubre, ma bellissima.
[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]Con Cristoforo Colombo, abbiamo anche scoperto l’America, sia pure in conto terzi. Fu la repubblica aristocratica delle grandi famiglie Doria, Fieschi, Spinola, a finanziare l’impresa degli spagnoli. Ricavarono cospicui interessi, con cui edificarono magnifici palazzi pieni di opere d’arte – i Rolli – [/stextbox]
Abbiamo inventato anche il calcio italiano, con l’aiuto degli inglesi, che qui si sono sempre trovati a loro agio. Per non farsi troppo notare, hanno chiamato Genoa, in inglese, la prima squadra italiana, “cricket and football club”, per quanto non risulta che i rossoblù abbiano mai praticato il cricket. Dovettero persino convincere, per non disturbare i “foresti”, un sodalizio sportivo dedito alla ginnastica e al nuoto, l’Andrea Doria, a fondare una sezione calcistica, poiché, ovviamente non si giocano partite senza un avversario. Dopo il periodo iniziale ricco di successi, mal gliene incolse, poiché i vicini di Sampierdarena – l’orgogliosa Manchester italiana, all’epoca città autonoma oltre la pietrosa collina di San Benigno tagliata ai tempi del fascismo – fondarono anch’essi una squadra, la Sampierdarenese, madre dell’attuale Sampdoria, odiata rivale.
Per dirvi chi siamo nel fondo del cuore, fino a pochi anni fa il vero genovese negava che la Samp, squadra periferica, fosse concittadina, affermando che, eventualmente, il vero derby sarebbe stato con lo Spezia. Superba di nome, prima di un penoso declino iniziato negli anni ’60 del XX secolo, ma schiva di fatto, Genova chiama modestamente Lanterna il suo simbolo secolare, un faro altissimo e imponente, tra i più importanti della storia. Ma serve a far luce ai naviganti, dunque è solo una lanterna. Il nostro understatement, ovvero, secondo le enciclopedie “dichiarazione diretta ad attenuare o a minimizzare l’importanza di qualcosa, atteggiamento volutamente alieno da enfasi e retorica” si evidenzia anche nella parola più famosa, “budellino” in italiano, la denominazione eufemistica e persino poetica dell’organo maschile, belìn in dialetto, con rispetto parlando e chiedendo scusa alle signore.
In pasticceria la nostra ricca golosità si chiama semplicemente pandolce, giusto per non fare rumore e non essere costretti a produrne troppo. Che volete che sia, dunque, l’isolamento attuale, se non un tuffo nel passato che i genovesi e i liguri, in fondo al cuore, rimpiangeranno, dopo l’apertura del ponte e la chiusura dei mille cantieri stradali. Del resto, hanno votato in gran numero per Grillo – genovese “arioso” in quanto nativo di Savignone, paese della valle Scrivia un tempo meta di villeggiatura – il cui partito è contrario alle opere pubbliche destinate a dare ossigeno alla regione: il mitico Terzo valico, di cui chi scrive sente parlare dall’adolescenza e la Gronda, in grado di bypassare l’area urbana genovese e il centro geografico della Liguria.
[stextbox id=’warning’ mode=’undefined’ color=’10e614′ ccolor=’0a0909′]Superba di nome, prima di un penoso declino iniziato negli anni ’60 del XX secolo, ma schiva di fatto, Genova chiama modestamente Lanterna il suo simbolo secolare, un faro altissimo e imponente, tra i più importanti della storia [/stextbox]
Evidentemente, l’istinto della patella, del “muscolo” (mitilo, cozza) attaccato allo scoglio è più forte di tutto. Perché costruire strade, ferrovie, autostrade per raggiungere in fretta quelle strane terre al di là dell’appennino, dove fa più caldo d’estate e più freddo d’inverno, spesso con il fondale grigiastro della nebbia, dove non sanno fare la focaccia e tanto meno la farinata? Perché sprecare mille metri (un solo, breve chilometro) di binari per collegare l’aeroporto di Genova con la linea ferroviaria, la cui vicina stazione si chiama pomposamente, ma falsamente Sestri Ponente-Aeroporto? Che importa se i liguri di ponente per viaggiare in aereo fanno capo a Nizza, ex città ligure venduta dai Savoia ai francesi.
La provincia di Imperia è vicinissima al Piemonte, ma la ferrovia Ventimiglia–Cuneo, che attraversa il pezzo di val Roja che la Francia pretese nel 1945 (Briga e Tenda) è sempre chiusa o in riparazione. Le strade sono vecchie, impervie, i tragitti bellissimi ma interminabili. Non resta che la costa, l’Aurelia o l’autostrada più cara d’Italia, l’infernale nodo di Savona (dove c’è un porto, un capolinea di crociere e un secondo scalo, il grande terminal contenitori di Vado è in avanzata costruzione) e poi il pericoloso tratto fino a Mondovì, fardello degli ardimentosi piemontesi. Chi preferisce il treno, sappia che la linea internazionale che raggiunge la Francia ha decine di chilometri a binario unico. Laddove vi è stato il raddoppio, le nuove stazioni sono lontane dalle città e i collegamenti sono risibili, come sanno gli imperiesi.
A proposito di Savona: la città è caratterizzata da un triste, immenso edificio, la fortezza del Priamar (pietra sul mare). La sua costruzione è un’altra prodezza del carattere ligure. I genovesi semi distrussero la città vicina ribelle, abbatterono persino la cattedrale e tirarono su l’enorme mostro grigio, dalle cui fenditure i cannoni non erano puntati sui nemici provenienti dal mare, ma sulla città sconfitta. Non va meglio a Levante, dove si attende da decenni il raddoppio della ferrovia per Parma, la Pontremolese, vitale per l’area spezzina. La Spezia, una volta gran porto militare e sede di industrie belliche, vive del porto commerciale e del turismo dei suoi splendidi dintorni, le Cinqueterre e il Golfo dei Poeti. Senza collegamenti adeguati, è asfissiata.
Pazienza, gli spezzini- che una volta a Genova chiamavano gentilmente “ladri o assassini”, non sono neanche così liguri. Che vogliono da noi? Anni fa, i tifosi dello Spezia, giunti a migliaia nel capoluogo regionale per un derby con il Genoa, furono accolti da un immenso striscione “Benvenuti in Liguria” che li fece infuriare e che mise d’accordo anche i sampdoriani. Strana gente, noi genovesi: chissà che avesse ragione il padre Dante con la sua maledizione: “Ahi Genovesi, uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi?” Ci piacciono assai le palanche, ma detestiamo i turisti che le spendono e remiamo contro le infrastrutture necessarie a garantire il benessere nostro e dei figli. Ah, dimenticavamo, dei figli non ci importa nulla, infatti in Liguria deteniamo il record universale di denatalità.
Sarà per questo che non crediamo nel futuro, che nemmeno immaginiamo un futuro. Tanto, pensa il genovese con la penna di Giorgio Caproni, “quando mi sarò deciso d’andarci, in paradiso ci andrò con l’ascensore di Castelletto, nelle ore notturne, rubando un poco di tempo al mio riposo.” Non ci resta che l’autopsia, il dubbio privilegio di conoscere la causa della nostra morte. Ma in fondo, a che scopo? Manimàn…