Lo sport poteva semmai vederlo in televisione e non tutto…

GHIACCIO E FUOCO

 

Questa passione per lo sport proprio non la capiva. Troppo sudore, troppa fatica e poi orari disciplina, ordini, magari una squadra e quindi persone sconosciute da sopportare. Lui era un indolente individualista, il suo vocabolario non contemplava la parola impegno e quanto agli ordini era abituato a darli, non a riceverli, cosa che avrebbe ritenuto quanto mai disdicevole.

Lo sport poteva semmai vederlo in televisione e non tutto. Magari la Formula Uno, e neanche per una gara intera. Giusto la panoramica del paddock, per via di quelle gnocche bionde con i seni rotondi e i sorrisi abbaglianti che si aggirano tra le macchine con i pantaloncini corti e gli ombrellini colorati. Donne così non se ne vedono ad Aosta nello struscio della domenica pomeriggio. E poi la partenza, con il segreto piacere di vedere un incidente, una bella marmellata di carrozzerie che si impastano tra loro allo scattare del verde.

Poi basta, perché vedere delle macchine che girano in tondo era come vedere i modellini della Polistil, con il fastidio supplementare del rumore assordante. E stare davanti alla pista della Polistil l’aveva già fatto tanto tempo fa, quando non aveva ancora scoperto i seni rotondi; adesso non lo trovava più divertente.

Se capitava poteva assistere a qualche incontro di boxe ma anche lì si annoiava in fretta. Quasi sempre si trattava di uno spettacolo desolante.

Anche la boxe era affondata nella melassa dolciastra del tempo molle che gli era toccato di vivere.

Era diventata tutto fair play ed educazione, tattica ed estenuanti corsettine attorno all’avversario. Colpi, pochi, e quando quei pochi arrivavano a segno sembrava che i pugili si chiedessero scusa a vicenda.

La boxe invece doveva essere cruenta, nessun balletto da salotto ma colpi veri, meglio se proibiti, pomata infiammante sul dorso dei guantoni per accecare l’avversario e testate sulle sopracciglia inferte di nascosto.

Ma era diventato tutto molle: anche il linguaggio si era come disossato. I negri non erano più negri ma persone di colore, i ciechi erano diventati ipovedenti, gli handicappati diversamente abili e gli spazzini operatori ecologici.

Pensieri truculenti, ma Ivo Del Fuoco era fatto così; nessuna voglia di lavorare, nessun rispetto per le regole, indifferenza verso gli altri e la società, unico interesse la propria persona e i propri desideri, o per meglio dire, appetiti.

I negri erano negri, gli handicappati handicappati, e tanto peggio per loro; gli spazzini pensassero a pulire le strade e i pugili a darsele di santa ragione fino a sanguinare.

Il motivo di tale truculenza era molto semplice: Ivo Del Fuoco era una persona cattiva, tutto qui. E del resto quella cattiveria gli era necessaria: diversamente non avrebbe potuto dominare la sua banda né fronteggiare quella del Cinese.

Lo chiamavano così per i suoi occhi stretti. Il nome vero non lo conosceva nessuno e a nessuno interessava conoscerlo.

Della gang del Cinese si favoleggiava di riunioni segrete fatte nel cuore della notte, di giuramenti di fedeltà consacrati con il sangue e di tatuaggi di appartenenza incisi sul dorso della mano.

Ma quella notte al cimitero era troppo buio per verificare la storia dei tatuaggi.

Il Cinese si era presentato con un giubbotto di pelle nera, una catena attorno alla mano e gli occhi più stretti del solito. I suoi accoliti erano dietro di lui.

Ivo aveva ordinato a Costantino Saponara di camminare con metà della banda dietro il muro e poi liberare i cani.

La sera prima avevano forzato i cancelli del canile portandosi via quattro esemplari di stazza robusta. Li avevano poi legati nel garage di Omar e tenuti al buio e a digiuno per un giorno intero.

Vedere gli uomini del Cinese correre terrorizzati, inseguiti dai cani, fu per Ivo uno spettacolo indimenticabile.

Fu quella la prima volta che Ivo Del Fuoco disegnò il suo simbolo.

Circondato dai suoi fedeli in festa, Ivo passò il fissativo con una pompa da imbianchino sul pezzo di muro vicino al cancello di ingresso del cimitero. Nell’attesa che asciugasse stapparono bottiglie di birra e di spumante. Poi passò una mano di bianco e infine scelse i colori, che non potevano essere che il giallo e il rosso: i colori del fuoco, quelli del suo cognome.

Alla fine del lavoro con le bombolette spray, il suo simbolo riluceva al buio come un neon: c’era scritto “Fuoco”. Da quel giorno e per sempre quella sarebbe stata la sua firma, la sua identità, il suo nome di battaglia.

I compagni salutarono il battesimo di quel nome urlandolo a gran voce nella notte in una ritmica tribale: Fuoco- Fuoco- Fuoco.

Dopo quella notte la parola Fuoco in giallo e in rosso cominciò a punteggiare la città intera. Appariva così, all’improvviso, su un muro o su una saracinesca.

Sembrava spuntare da sola, di notte, come uno strano fungo colorato; la mattina gli abitanti della zona se lo ritrovavano davanti agli occhi nel suo palpitante fulgore.

Il simbolo di Ivo aveva preso possesso di ogni quartiere e quel nome ripetuto dappertutto, sembrava il rimbalzare di una immensa eco, come un richiamo ed un ammonimento. Era un modo per segnare il territorio ed insieme un avvertimento per il Cinese, e per tutti coloro che insieme a lui o dopo di lui, avessero mai concepito la malaugurata idea di mettere in discussione la sua supremazia.

Ivo Del Fuoco era il lupo affamato che si aggira per i campi lasciando la sua urina sui tronchi degli alberi.

Aosta non era posto che potevano frequentare impunemente altri lupi. Quella era la sua zona, la sua città, quello il territorio dove aveva imposto la sua legge.

Lo imparò a sue spese il prete spretato, o mezzo prete, come veniva indifferentemente chiamato.

Che avesse lasciato il seminario e gli studi di teologia appena qualche giorno prima di essere consacrato prete a causa di una improvvisa crisi di coscienza non aumentava la considerazione che Ivo aveva di lui, anzi. “Avrà annusato un po’ di figa” era stata la sua conclusione.

Per vivere insegnava filosofia proprio nella scuola e nella classe dove Ivo assai svogliatamente si recava ogni mattina.

   “Signor Del Fuoco se ha voglia di dormire abbandoni il banco, che non è un cuscino. Si accomodi fuori, rientri quando sarà più sveglio”.

Il professor Rinaldi avrebbe dovuto essere più cauto. Stuzzicare un lupo può essere rischioso e scatenare reazioni imprevedibili.

Tornando a casa una sera, dopo una sessione di scrutini pomeridiani, non ebbe bisogno di infilare la chiave per entrare. Il varco era completamente aperto, si vedeva l’interno della casa. Qualcuno aveva dato fuoco alla porta e le fiamme l’avevano divorata in fretta. I vicini avevano sentito un frenetico scalpicciare sulle scale, come un dileguarsi di persone.

Per mancanza di tempo non aveva potuto lasciare sul muro la solita firma che usava per siglare le sue imprese ma nessuno aveva dubbi, tantomeno il professor Rinaldi, su chi potesse essere stato l’artefice della bravata. Il modo scelto per colpire, il fuoco, era del resto più di una confessione.

La mattina dopo il professor Rinaldi lo fermò prima dell’ingresso in aula:

   “Ivo andiamo nei gabinetti a fumare insieme una sigaretta”.

La sua voce era tranquilla ed anche i suoi gesti. Nessun risentimento trapelava dalla sua persona:

   “Ascolta Ivo, ieri mi è successo un incidente… diciamo così… domestico. La porta della mia casa ha preso fuoco. È stato un incidente, e gli incidenti, si sa, accadono, e non si sa perché. Ma io non sono preoccupato per la porta, la porta si ricompra. Io sono preoccupato per il tuo cuore. Perché anche lui sta bruciando, con la differenza che una volta consumato dalle fiamme, quello non si può più comprare. L’hai perso per sempre”.

Ivo lo guardava e sorrideva tra sé: “Senti senti, lo spretato si è montato la testa. Era solo un mezzo prete e adesso vuole addirittura farsi santo, san Francesco che ammansisce i lupi”.

   “Non voglio farti prediche ma solo parlarti, parlare come farebbe un uomo ad un altro uomo. Ho capito che sei cattivo ma sei ancora in tempo per cambiare, c’è sempre tempo. Al mondo la parola “cattivo” fa paura. Riferirla ad una persona è una condanna, significa confinarla nel mondo terribile delle bestie feroci. Si viene isolati, allontanati dalla comunità, perché si crede che la cattiveria non appartenga all’uomo ma agli animali. Lo pensa e l’ha fatto pensare la Chiesa, alla quale in gioventù io stesso ho voltato le spalle per tutte le incongruenze che si erano accumulate nel mio spirito e sono scoppiate all’improvviso dentro di me. La Chiesa la pensa così perché l’uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza, non può essere cattivo dalla nascita. Perché se così fosse, dovremmo pensare che anche Dio è cattivo, somma e indicibile bestemmia. L’uomo allora è buono, non può che essere buono; può diventare cattivo nel tempo, dopo la nascita, esercitando nella direzione sbagliata il libero arbitrio di cui è dotato. Mi segui Ivo? Io invece mi sono convinto del contrario, e cioè che le radici del male affondano dentro l’essere umano fin dalla sua nascita. Ma nello stesso tempo credo che la sua non sia una condanna definitiva; dalla cattiveria ci si può redimere. La volontà dell’uomo può avere la meglio, può vincere sul male. La nostra vita non è che una lotta quotidiana per strappare dall’anima quelle radici malvage. È il nostro istinto egoistico che ci porta naturalmente verso la cattiveria e occorre un continuo sforzo morale per non farsi trascinare nel fango. Dobbiamo essere sempre vigili, basta una debolezza della volontà, un mancamento passeggero della mente per farsi risucchiare nel gorgo nero del male. Non cedere Ivo, non darla vinta alla cattiveria, reagisci e comincia a fare scelte virtuose. Tu adesso non le opponi abbastanza forza, risveglia la tua forza morale”.

Uscito dal bagno gli si fece accanto Costantino Saponara: “Fuoco, che voleva il mezzo prete, che ti ha detto? Problemi per la porta?”.

   “No, nessun problema Sapone. Mi ha raccontato qualche stronzata delle sue. Insegna filosofia e deve sempre fare il filosofo, anche in bagno. È un mezzo prete e deve sempre propinare qualche morale delle sue”.

Però Rinaldi aveva avuto coraggio, non c’è che dire, pensava Ivo, gli andava riconosciuto almeno l’onore delle armi: aveva affrontato il lupo senza paura. E il coraggio era una virtù che anche nella sua distorta scala di valori aveva il suo peso, un peso importante, anche se veniva pur sempre dopo la lealtà.

Per Ivo infatti il primo comandamento era non tradire: mai, neanche un nemico. Un nemico lo si affronta e lo si sconfigge a viso aperto, senza ricorrere a meschini complotti concepiti nell’ombra di squallidi sottoscala.

Per questo giurò vendetta al Cinese quando commise quell’infamia.

Fermo sul ciglio della strada, era sera inoltrata, con un tubo lungo e sottile, da una macchina parcheggiata stava succhiando la benzina da travasare nel serbatoio della sua moto.

Il Cinese come un’ombra silenziosa, alla guida della sua Golf nera, gli passò davanti. Ivo lo intravide di scorcio.

Vide bene invece, ma era troppo tardi, la gazzella dei carabinieri che di lì a poco gli si accostò con il lampeggiante acceso e senza sirena.

Difficile poter dare una spiegazione lecita a quel tubo ancora infilato nella pancia della macchina e penzolante come un lungo serpente.

Dopo qualche giorno di carcere venne portato davanti al Tribunale per rispondere con giudizio direttissimo di furto aggravato dalla destrezza.

I giorni di internamento gli avevano permesso di rivedere tutti i fotogrammi del film. Aveva ripassato mille volte nella sua mente le azioni di quella sera e la conclusione fu che non poteva che essere stato il Cinese a fare la soffiata ai carabinieri. Troppo in fretta erano arrivati, e troppo in silenzio, come a colpo sicuro, in un posto dove non passava mai nessuno, nemmeno loro.

Il Cinese avrebbe pagato quel tradimento, non si viola impunemente il codice d’onore. Lo giurò con l’ultima spruzzata di spray che diede al suo simbolo sul muro posteriore del carcere quando finalmente venne liberato.

La sua firma adesso risplendeva a memoria imperitura. Il lupo era passato anche da lì e aveva lasciato la sua urina infuocata.

Così anche quei mattoni bruciavano del suo nome. Fu come un punto e a capo. Adesso a noi due.

La caccia all’uomo, iniziata quella sera stessa, rimase senza esito per lunghi giorni. Il Cinese sembrava essersi volatilizzato.

Poi finalmente una traccia. Gliela diede il barista del Caffè Italia:

   “Oscar come mai il Cinese non si vede più in giro?”

   “Mi hanno detto che si è trasferito a Milano”

   “E cosa fa a Milano?”

   “Gioca ad hockey”

   “Gioca ad hockey? il Cinese!”

   “Già, nei Milano Vipers”

   “Mi sorprende ma almeno il nome è appropriato, quello giusto per una vipera velenosa come lui”.

Nacque così, da un innocuo scambio di battute in un bar, l’idea di Ivo Del fuoco per vendicarsi del Cinese.

E se era diventato vipera tanto meglio, gli avrebbe schiacciato la testa.

All’Aosta Hockey mancava il centro. L’allenatore, Giuliano Castiglia, lo conosceva da una vita, era addirittura il suo vicino di casa; l’inserimento in squadra poteva dirsi cosa fatta.

 

Ci vollero appena tre mesi a Ivo per capire i meccanismi del gioco.

Lo stesso allenatore si stupì della facilità con la quale ne aveva acquisito il senso tattico.

   “Non ti sorprendere Giuliano. È facile. C’è un disco da buttare nella rete e attorno una rissa. E io nelle risse ci sguazzo”.

Ivo fece il suo esordio in casa contro i Mastini Varese. Il palaghiaccio era semivuoto. Risultato finale 6-4 per l’Aosta con Ivo Del Fuoco a segno tre volte.

Ne era rimasto sbalordito. Non tanto per il risultato finale e nemmeno per i gol che aveva segnato ma per la sensazione che aveva provato con i pattini ai piedi e il bastone in mano. Si era sentito completamente a suo agio, i suoi movimenti erano stati meravigliosamente fluidi.

Avrebbe detto che si era sentito felice, o qualcosa del genere. Ma era una cosa nuova e lui non sapeva definirla.

Stesso punteggio la domenica successiva a Torino, contro i Draghi; due gol per lui.

Ma questo è un gioco straordinario, gli venne da pensare. Gli piaceva in particolare vedere l’avversario da lontano, puntarlo al centro della visiera e caricarlo a tutta forza sbattendolo contro il recinto. Sentiva il corpo rimbalzare contro il plexiglass ed era una goduria. Poi non c’era che da impossessarsi di quel boccone nero che scivolava sul ghiaccio e infilarlo dentro il nido di corda collocato dall’altra parte. Un’azione da rapace, veloce e violenta, nella quale si riconosceva e che lo inebriava.

Certo che il mondo è veramente strano, pensava Ivo Del Fuoco. Per anni ho sentito su di me la riprovazione collettiva a causa della mia violenza, la società mi ha messo ai margini perché la mia cattiveria era da lupi e non da uomini ed ecco che all’improvviso ho trovato un luogo dove la cattiveria non solo non è bandita ma anzi incoraggiata e magnificata. In questo esiguo spazio di ghiaccio chi è più feroce vince e il lupo più famelico, diventato angelo, viene portato in trionfo e santificato. Che luogo meraviglioso! peccato non poter dipingere la mia firma sul ghiaccio.

La terza partita Ivo la giocò ad Arezzo contro i Lions.

Anche lì vittoria dell’Aosta e Del Fuoco tre volte a segno, ormai abbonato al tabellino dei marcatori.

   “Per essere dei leoni mi sono sembrati piuttosto spelacchiati” fu il suo commento sotto la doccia.

Oltre che per le marcature, Ivo in quella occasione salì all’onore della cronaca per la sua prima espulsione: venti minuti, praticamente tutto il terzo tempo.

Nella solita mischia dietro la porta, aveva dato una gomitata al difensore e gli aveva spaccato il naso. Il sangue aveva imbrattato la pista e i pattini passandoci sopra vi avevano lasciato macabre striature rosse.

Tutto quello che stava accadendo era già abbastanza sorprendente per lui ma quello che si verificò la domenica successiva andò ben oltre ogni immaginazione.

Contro Edera Trieste le tribune del palaghiaccio erano stracolme.

L’impresa di Ivo Del Fuoco aveva fatto il giro della valle: non la vittoria, non i suoi tre gol ma il naso rotto dell’avversario e il sangue sulla pista.

L’odore del sangue aveva fatto accorrere altri animali, animali come lui, e tutti adesso erano attaccati al vetro del recinto a urlare, sbavare e digrignare i denti.

Dal centro del campo per il saluto al pubblico, prima dell’inizio della partita, Ivo girando uno sguardo sbalordito vide dappertutto il suo simbolo.

Su decine di cartelloni era stata riprodotta la sua firma colorata. Il suo nome ora fiammeggiava su tutte le tribune: esibito, sollevato, brandeggiato.

Non era riuscito a scriverlo sul ghiaccio ma in realtà è come se l’avesse fatto. Si era impadronito anche di quel territorio: era evidente che fosse lui il nuovo padrone.

La parola “Fuoco” veniva urlata ritmicamente in un coro sempre più assordante. Una misteriosa macchina del tempo doveva averli riportati all’alba della storia e adesso si trovavano in una grotta di uomini primitivi che ululavano insieme, brandendo clave di legno, per darsi coraggio prima di una battuta di caccia. Tutto il palaghiaccio era pieno del suo nome.

   “Bruciali Fuoco”

   “Non avere pietà Fuoco. Falli sanguinare”

Era veramente incredibile. Qualche gol e il sangue sulla pista avevano provocato quell’isteria collettiva.

Una cosa era certa: se avesse saputo che bastava così poco per conquistare un territorio, essere riconosciuto come capobranco e poi invocato, esaltato, perfino amato con l’hockey avrebbe sicuramente cominciato molto tempo prima.

Altro che scorrerie notturne, al freddo, altro che guerriglia al cimitero con cani e catene e l’urina colorata da far colare sul cemento dei muri e sul ferro delle saracinesche.

Se ne sarebbe stato dentro il caldo di quel buco, rintanato in quel recinto ad aspettare, senza correre alcun rischio, che fossero gli strepiti di quegli animali a portare il suo nome in ogni angolo della valle.

Sospinto da quelle urla belluine, Ivo Del Fuoco giocò la sua migliore partita, offrendo al suo branco i pezzi più pregiati e richiesti del suo repertorio vale a dire ostruzioni, trattenute, colpi di bastone e agganci.

In mezzo a tutto questo ci furono anche una sosta di cinque minuti sulla panca e un paio di gol, decisivi per l’ennesima vittoria dell’Aosta.

Ma della vittoria a Ivo importava poco. Non erano sue quelle partite, non era suo quel campionato. Con l’hockey aveva trovato il mezzo con cui affermare la propria individualità e soddisfare la sua smania di dominio. Era molto di più di quello che si aspettava. Che si vincesse o perdesse, che la sua squadra fosse prima oppure ultima erano problemi che non lo riguardavano: li lasciava a Castiglia, ai compagni di squadra e ai tifosi. Che intanto continuavano a crescere, ad affollare partite ed allenamenti, sospinti dalle sue imprese.

Anche il professor Rinaldi era stato travolto da quella euforia. Del resto se i suoi ragazzi continuavano a parlare di questo Fuoco, il nuovo fenomeno dell’hockey di Aosta, se ritagliavano la sua fotografia per incollarla sul diario, un professore, se faceva il suo mestiere con coscienza, non lo poteva ignorare.

In più pensava che con Ivo il discorso si fosse interrotto a metà e che prima o poi andasse ripreso. E poi c’era Matteo.

Matteo era uno dei bambini del Sacro Cuore di Gesù.

Anche se era rimasto un mezzo prete quel mezzo era sufficiente per riempire tutte le giornate della sua vita. Un prete, mezzo o intero, lo è per sempre.

Il professor Rinaldi continuava a portare la parola a chi cercava conforto.

Così si recava quasi ogni giorno all’istituto Sacro Cuore di Gesù, che non era una scuola ma un orfanotrofio.

Lì non insegnava filosofia, gli ospiti della struttura erano solo bambini, ancora troppo piccoli per quella materia: semplicemente passava il tempo con loro, giocava a carte, a Risiko o a Monopoli, raccontava qualche favola e a volte, quando il tempo lo permetteva, li portava a fare una passeggiata in mezzo ai prati per correre insieme e insegnare i nomi dei fiori.

Anche dentro il Sacro Cuore di Gesù si era infilata una lingua del fuoco che stava incendiando il palaghiaccio di Aosta e tutta la valle. Anzi lì più che altrove aveva trovato il materiale adatto ad una facile combustione: l’anima dei bambini è così pronta ad accendersi di innamoramenti totali e senza riserve. Basta poco per infiammare la loro fantasia.

Figurarsi l’alone leggendario che tutti i bambini avevano creato attorno alla figura di Ivo. Già quel nome di battaglia, Fuoco, metteva loro i brividi.

I suoi gol e le vittorie avevano fatto il resto: il richiamo era diventato irresistibile. I bambini del Sacro Cuore di Gesù erano capaci di passare intere mattine a sfogliare le pagine dello sport del giornale locale e a commentare ad occhi spalancati i titoli più epici: “L’Edera Trieste non resiste alla potenza di Fuoco” – “Fuoco devastante” – Senza fuoco i Draghi di Torino”.

Matteo tra tutti era quello che aveva dimostrato più entusiasmo per le avventure del nuovo eroe.

Ritagliava articoli, aggiornava il tabellino delle marcature, seguiva la classifica, trepidava nell’attesa di conoscere il risultato degli incontri. Nel chiudere i suoi quaderni, la sera, pensava a come sarebbe stato bello assistere ad una partita. Che onore sarebbe stato stringere la mano al grande Fuoco.

Il professor Rinaldi lo accompagnò un giorno all’uscita del palaghiaccio. Lì attesero la fine dell’allenamento e l’uscita dell’eroe.

   “Ciao Ivo”

   “Oh, professor Rinaldi, quale cattivo vento, altri incidenti domestici?”

   “No no, quello che sta bruciando adesso è il cuore di questo nostro piccolo amico. Si chiama Matteo, è un grande tifoso dell’Aosta e di Fuoco in particolare. Voleva conoscerti”.

Ivo lo degnò appena di uno sguardo, gli allungò una mano molle come una medusa e fu tutto.

I complimenti per la giusta strada sulla quale si era incamminato, lo sport come percorso di redenzione, l’atleta che diventa un eroe e si carica sulle spalle una grande responsabilità nel momento in cui diventa per tanti ragazzi l’oggetto di una fede, tutti questi bei discorsi gli rimasero in gola di fronte alla sua indifferenza, e forse fu meglio così. Probabilmente Ivo avrebbe liquidato il suo sforzo come l’ennesima inutile predica del mezzo prete o l’ennesima noiosa lezione dell’insegnante, ugualmente inutile.

   “Allora auguri per la prossima partita” riuscì solo a dire e riprese la strada verso l’istituto.

Lungo il cammino aveva paura di rivolgersi a Matteo, pensava che tutto quel ghiaccio, altro che fuoco, potesse averlo deluso al punto da annullare ogni sentimento.

Matteo invece aveva gli occhi lucidi, era ancora in preda all’eccitazione; sembrava felice.

A lui era bastato essere vicino al suo eroe, poterlo guardare negli occhi e stringergli la mano. Non voleva di più; che incontro! aveva un sacco di cose da raccontare ai compagni dell’istituto quando sarebbe rientrato.

Quanto a Ivo, degli auguri del professor Rinaldi non sapeva che farsene. La prossima partita non era una partita qualsiasi, una per la quale potessero bastare gli auguri: ad Aosta arrivavano finalmente i Milano Vipers.

Erano successe tante cose nel frattempo ma lui non aveva dimenticato. Il Cinese era sempre ben presente nella sua mente e finalmente la rincorsa era finita. Era arrivato il momento del redderationem.

Il palaghiaccio quella domenica era un’autentica bolgia, ribolliva di gente e umori animaleschi.

Dappertutto era un battere di tamburi e un gridare ritmato del suo nome: Fuoco – Fuoco – Fuoco.

Stava per iniziare la caccia ma la preda che cercava Ivo era diversa dalla preda che cercava il branco sugli spalti: lui cercava il Cinese, loro la vittoria.

Si ritrovarono di fronte all’ingaggio, faccia a faccia, bastone contro bastone.

   “Ti raddrizzerò quegli occhi storti di merda che hai Cinese “

Ivo aveva cominciato la sua partita solitaria: non vedeva nulla, compagni e spettatori erano già scomparsi alla sua vista, non sentiva nulla, non gli incitamenti, non il subbuglio degli spalti.

Era dentro una bolla d’aria dove gli arrivava solo il battito del suo cuore accelerato dallo sforzo e lo sfrigolio dei pattini sul ghiaccio.

Non seguiva il gioco, non gli interessava il puck; tutto il suo corpo, tutti i suoi sensi erano solo un radar sintonizzato sui movimenti del Cinese. Lo seguiva senza perderlo mai di vista, attendeva il momento giusto per colpire e non gli importa se ciò avrebbe significato la sua espulsione definitiva, la squadra in inferiorità numerica, quasi sicuramente la sconfitta e con ciò la fine di un sogno per Castiglia, i compagni di squadra, i tifosi, la città intera.

Peggio per loro, non era il suo sogno quello.

Il suo era quello di vendicare quel tradimento lontano, di risolvere per sempre le antiche pendenze con il Cinese, azzannarlo al collo e vederne colare il sangue. Sì, alla fin fine quello che voleva vedere era il ghiaccio sporcato dal sangue del Cinese. Solo questo e nient’altro.

Nessuno conosceva i pensieri di Ivo ma che ci fosse qualcosa che non andava fu subito chiaro a tutti perché lui appariva come un ingranaggio fuori tempo. Era avulso dal gioco, non seguiva i movimenti dei compagni, non era attento allo sviluppo delle azioni.

Più di una volta, con il puck tra i piedi, invece di involarsi affamato di gol verso la porta avversaria, come avrebbe fatto se quella fosse stata una domenica qualsiasi, si era fermato per passarlo ad un compagno. Come se avesse allontanato da sé un ingombro, come se quella cosa gli fosse capitata tra i piedi a disturbare i suoi passi.

Il Cinese intanto scappava, rifiutava la mischia e passava in fretta il puck.

In verità sperava che il tempo trascorso, il suo allontanamento dalla valle, la vita diversa che aveva cominciato dando un calcio al passato avessero fatto dimenticare anche al suo vecchio nemico gli antichi rancori.

Lui era cambiato; sperava in cuor suo che fosse cambiato anche Ivo.

   “Ivo, vieni a riposarti”

Era la prima volta che Giuliano Castiglia lo richiamava in panchina ma il suo estraniamento dal gioco era evidente e stava danneggiando la squadra.

   “Ma vaffanculo, che cazzo fa questo idiota” pensò Ivo nel momento in cui lasciava la pista. La decisione dell’allenatore lo distoglieva dalla sua caccia, lo allontanava dalla preda di cui aveva cominciato a fiutare l’odore.

Masticando amaro Ivo Del Fuoco si sedette in panchina, insieme agli altri, in mezzo agli altri.

E già questo era un affronto. Fuoco era stato unico fino a quel momento, il solo: all’improvviso diventava uno dei tanti, uno qualsiasi.

La partita intanto non si sbloccava, rimaneva inchiodata sullo zero a zero.

Il pareggio non sarebbe servito, con il pareggio l’Aosta sarebbe rimasta esclusa dai play-off.

In panchina, tra i compagni, si insinuò la paura di non farcela e nei loro occhi cominciò ad apparire la delusione.

Sugli spalti intanto era calato un silenzio di piombo, i tamburi erano muti e abbandonati accanto ai tifosi.

Da quando Ivo si era seduto in panchina non si urlava più il nome di “Fuoco”. Il fuoco che avrebbe dovuto devastare le vipere di Milano si era trasformato, nell’incredulità generale, in una flebile fiammella, quasi invisibile in mezzo ai corpi degli altri compagni. Era diventata una di quelle fiammelle che brillano tremolanti davanti ai loculi ed anche l’atmosfera generale era quella di una costernazione da cimitero

Sogni, entusiasmi, orgoglio sembravano essere finiti dentro bare di legno, morti per sempre e interrati tristemente nel lutto generale. E a causa della loro decomposizione cominciavano a prodursi i fuochi fatui. Ecco cos’era diventato Ivo Del Fuoco, seduto in panchina, ecco come cominciavano a vederlo la delusione e la tristezza dei tifosi: lumino o fuoco fatuo. Era stata una illusione, solo un fuoco fatuo quello che aveva incendiato la valle.

Ivo girò la testa per guardare la tribuna dietro di sé.

Vide in mezzo alla folla il professor Rinaldi e accanto a lui un bambino a capo chino.

Si ricordò di lui, di quel bambino che lo aveva osservato trepidante di gioia. Nella mano teneva una bandierina gialla e rossa, sopra c’era scritto “Fuoco”. La bandierina non sventolava festosa nell’aria ma era appoggiata sulle sue ginocchia, spenta e senza vita.

Con gli occhi perduti nel vuoto, il bambino non seguiva più lo sviluppo delle azioni: ormai più nulla gli interessava adesso che il suo campione non era più l’eroe che aveva riempito i suoi sogni.

Il bambino, i compagni, i tifosi, tutto all’improvviso gli abbagliò la mente. Cosa stava facendo? chi era diventato? Se il primo comandamento del suo stesso codice d’onore era quello di non tradire, lui per primo lo stava calpestando. Stava tradendo tutti, tutti quelli che avevano avuto fiducia in lui, quelli che lo avevano scelto come capobranco, i compagni che avevano alzato labari e bandiere e quel bambino che come decine di altri gli aveva affidato la sua gioia.

Non era solo la lealtà verso se stessi quella che si deve onorare ma anche quella verso gli altri. E sono solo le azioni che si compiono per loro quelle che valgono a misurare il proprio essere.

Ci sono degli attimi che valgono una vita e la cambiano per sempre. Per Ivo Del Fuoco fu così:

   “Giuliano, fammi entrare!”

 

Teodoro Lorenzo

 

Continua con altri racconti tratti dal libro “Le formiche rosse“. Amazon. Copertina flessibile: 400 pagine (15 gennaio 2021)

 

Breve biografia

Teodoro Lorenzo, nato a Torino 4 marzo 1962, calciatore dell’Alessandria negli anni ’80, poi avvocato per lavoro e scrittore per passione.

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