Due anime in bilico sul bordo del nulla, tra desiderio e disperazione

GIORGIO AURISPA E NIKOLAJ STAVROGIN – PRIMO INCONTRO –

Redazione Inchiostronero

In questo primo appuntamento di Ritratti del tramonto, si incontrano — a distanza — due protagonisti assoluti della crisi europea: Giorgio Aurispa, creatura decadente di D’Annunzio, e Nikolaj Stavrogin, figura abissale di Dostoevskij. Due uomini raffinati e vuoti, segnati dalla perdita di senso e dal desiderio senza fede. Il saggio esplora il loro comune fallimento come “oltreuomini mancati”, sospesi tra estetismo, nichilismo e autoannientamento.


La crisi dell’uomo superiore tra D’Annunzio e Dostoevskij

L’“uomo superiore” è forse il più grande sogno — e al tempo stesso il più terribile equivoco — dell’età moderna. Intorno a questa figura, Nietzsche aveva costruito un’architettura filosofica potente: l’oltreuomo non è un aristocratico dello spirito, ma colui che crea nuovi valori, che rompe le catene della morale tradizionale per forgiare un’esistenza autentica, fondata su forza, bellezza e volontà. Ma cosa accade quando questo modello viene travisato, quando il sogno nietzschiano si concretizza non nella potenza creatrice, ma nel vuoto interiore, nella stanchezza dell’anima, nella malattia dello stile?

È qui che s’incontrano — o forse si scontrano — Giorgio Aurispa e Nikolaj Stavrogin, due personaggi letterari che incarnano la crisi radicale dell’ideale superiore. Entrambi possiedono gli attributi dell’“uomo elevato”: intelligenza, cultura, fascino, distacco. Ma in entrambi, questi elementi non si traducono in forza, ma in paralisi. Sono uomini che vedono, che capiscono, ma che non riescono a volere.

«Il suo spirito era affilato come una lama, ma non vi era nulla da tagliare.» (eco dostoevskiana e dannunziana)

Stavrogin, principe lucido e disturbato, è il frutto avvelenato dell’ateismo russo, della dissoluzione morale che Dostoevskij denuncia in modo profetico. È l’uomo che ha perso Dio e non ha trovato nulla con cui rimpiazzarlo. Non crede più, ma nemmeno combatte: guarda il mondo disgregarsi, lasciandosi dietro scie di danno, umiliazione e morte.

Aurispa, invece, è il figlio stanco della civiltà occidentale: raffinato, estetizzante, incapace di credere, brucia nell’ombra dorata della decadenza. Non ha ideali, ma sensibilità. Non ha fede, ma visioni. È attratto dalla bellezza, ma intuisce che ogni splendore è vicino alla rovina. In lui, il pensiero ha consumato l’azione, e il corpo è diventato una prigione sensoriale.

«Non posso credere in nulla, eppure continuo a desiderare come se ci fosse ancora un dio da servire.»

In fondo, sia Stavrogin che Aurispa sono vittime di una spiritualità abortita. Non hanno la semplicità dell’uomo comune, né la grandezza dell’eroe tragico. Sono ciò che resta quando l’oltreuomo fallisce: ombre elevate, coscienze senza radice, esistenze che non si compiono.

In loro si manifesta l’Europa della fine, quella che Nietzsche aveva intravisto, ma che D’Annunzio e Dostoevskij hanno saputo raccontare con lacerante precisione. Un’Europa troppo colta per tornare alla fede, troppo logorata per abbracciare il caos, troppo lucida per illudersi ancora.

Dalla volontà alla stasi

Nietzsche aveva sognato un uomo nuovo, l’Oltreuomo: non un supereroe, ma una coscienza trasfigurata, capace di scrollarsi di dosso la morale servile e costruire, con sola forza interiore, un proprio sistema di valori. Un essere che afferma, che osa, che crea.

Ma Giorgio Aurispa e Nikolaj Stavrogin sono l’antitesi vivente di quell’ideale. Non costruiscono: consumano. Non affermano: osservano. Non creano: si spengono lentamente nella contemplazione del proprio smarrimento.

«Nulla più poteva salvarlo, perché nulla più desiderava con fede.» (D’Annunzio)

Aurispa è il prodotto terminale di una civiltà colta, decadente, estetizzante. Ha studiato, ha viaggiato, ha amato — ma ogni cosa, in lui, è filtrata dalla stanchezza, dalla consapevolezza che nulla è più assoluto, che tutto è relativo, sfocato, privo di peso. La sua cultura non lo salva, lo paralizza.

Stavrogin, invece, è il vuoto incarnato. Dostoevskij lo plasma come figura glaciale, ambigua, carismatica e terrificante, perché non ha più una volontà morale, né un bisogno di giustificarsi. In lui, il nichilismo ha già fatto il suo corso, e ciò che resta è una coscienza spenta, ancora in grado di guardare ma incapace di agire.

«In me non c’è più niente. Eppure continuo a esistere, come un’eco che si rifiuta di spegnersi.» (Dostoevskij)

Sono figure immobili in un mondo che crolla. Non lottano, non reagiscono. Eppure, proprio questa stasi, questa assenza di moto, li rende icone di un tempo in agonia. Il loro non è il silenzio della pace, ma quello dell’anima esausta, che ha perso persino il gusto della ribellione.

Entrambi sanno che Dio è morto. Ma non riescono a sostituirlo con nulla. Né con l’arte, né con l’amore, né con la volontà. E questa consapevolezza non genera potenza, come in Nietzsche — genera abisso.

Un abisso fatto di giorni che si ripetono, di parole che non incidono, di sguardi rivolti all’interno come in una spirale senza fine. Se l’Oltreuomo era colui che guarda il baratro e osa oltrepassarlo, Aurispa e Stavrogin restano sulla soglia, incapaci di tornare indietro, impotenti nel varcare la soglia.

Il corpo come sintomo

Se l’anima vacilla, il corpo lo manifesta. In D’Annunzio, il corpo è tutto: teatro del desiderio, strumento di elevazione e di perdizione, tempio e trappola. In Il trionfo della morte, Giorgio Aurispa vive attraverso la carne, ma non la abita mai con pace. Il suo corpo è un campo di battaglia sensuale, sempre sul punto di cedere al piacere o alla nausea.

«Ogni carezza d’Ippolita era un passo verso il nulla.» (D’Annunzio)

La pelle diventa frontiera: ciò che eccita è anche ciò che respinge. Ippolita è desiderata, ma anche disprezzata, amata e accusata, portata all’estasi e subito dopo al disgusto. Il piacere in Aurispa non libera: avvelena. È la febbre del senso, che consuma ogni tentativo di quiete.

Al contrario, in Dostoevskij, e in particolare in Stavrogin, il corpo è un’assenza, un dettaglio secondario. Stavrogin non vive nei sensi, ma li attraversa come un attore distaccato, come se nulla potesse veramente toccarlo. I suoi gesti — anche i più estremi — non derivano da un impulso carnale, ma da una logica glaciale, da un vuoto che prende forma solo nel gesto, mai nell’emozione.

«Tutto ciò che provo è stanchezza. Nient’altro.» (Stavrogin)

È questa la differenza radicale: dove Giorgio è febbre, Stavrogin è ghiaccio. L’uno è l’uomo che desidera troppo, fino a non sopportare più il proprio corpo; l’altro è colui che ha già superato ogni desiderio, e per questo agisce come spettro, come figura metafisica. Giorgio sanguina, trema, ansima. Stavrogin non prova nulla, ma provoca tutto.

Eppure, entrambi sono incapaci di incarnarsi pienamente nella vita. Aurispa cerca nel corpo una verità che non trova; Stavrogin lo ignora, lo riduce a strumento secondario. In entrambi, il corpo non è salvezza: è sintomo. Sintomo di una civiltà che ha separato il pensiero dalla carne, che ha perso l’unità originaria tra volontà e forma, tra istinto e coscienza.

Il corpo, da luogo sacro, si è fatto sintomo terminale di una malattia spirituale. Un segnale, una spia, non più una casa.

Il gesto estremo

Quando tutto è stato detto, letto, vissuto, e il mondo non offre più appigli né illusioni, resta il gesto. Nudo, irrevocabile, definitivo.
Giorgio Aurispa e Nikolaj Stavrogin, ciascuno nel proprio universo narrativo, compiono un atto ultimo che non salva, ma suggella. Non è ribellione, non è rivolta — è sigillo.

Aurispa trascina Ippolita con sé nella morte. Non per vendetta, né per amore, ma perché il desiderio è finito, perché la bellezza non consola più, e la cultura ha smesso di parlare. È un suicidio rituale, quasi estetico, un’uscita di scena pensata come chiusura armonica di una vita dissonante.
Ma l’armonia non arriva: solo un silenzio irreparabile.

Stavrogin, invece, sceglie il silenzio come arma. Dopo aver assistito — senza intervenire — al caos morale che ha generato, si toglie la vita fuori scena, con un distacco quasi liturgico. Nessun grido, nessun pathos: un gesto secco, come firmare un testamento. È l’ultima azione di un uomo che ha scelto il vuoto.

«La morte era l’unica verità rimasta.»

In entrambi i casi, non c’è redenzione. Non c’è resurrezione simbolica, né palingenesi. Nessuno dei due muore per qualcosa: muoiono perché nulla è rimasto. La loro è la tragedia dell’incompiuto, dell’insufficiente, dello spirito che ha visto troppo, ma non ha saputo trasformare la visione in volontà.

Il gesto estremo non è il compimento dell’oltreuomo, ma il crollo del suo simulacro. Non è liberazione, è implosione. È la fine non dell’individuo, ma della possibilità stessa di fondare un senso.

«Nel vuoto, anche il coraggio si sbriciola in gesto inutile.»

Così si chiude il loro percorso. Non con l’urlo tragico degli eroi antichi, ma con il sussurro rotto di chi ha tentato tutto, e non ha trovato niente.

Conclusione

Aurispa e Stavrogin sono i santi maledetti dell’inutilità, i custodi tragici di un tempo in cui l’altezza dello spirito non basta più a tenere in piedi l’esistenza. Non sono eroi, né martiri, né profeti. Sono ombre elevate, creature spezzate che hanno visto troppo per potersi illudere, e troppo poco per poter ricostruire.

Hanno perso gli dei, ma non hanno saputo inventarne di nuovi. Hanno rifiutato la morale, ma non sono riusciti a edificare un’etica alternativa. Hanno provato a vivere senza senso, ma il loro stesso intelletto li ha condotti al limite del collasso.
Sono “oltreuomini mancati”, inchiodati non alla croce della fede, ma a quella della coscienza. Una coscienza che vede il vuoto e lo riconosce, ma non riesce ad attraversarlo.

«Non credono più, non sperano più, ma continuano a desiderare.»

Ed è proprio questo desiderio senza oggetto, questa tensione cieca e persistente, che li rende vivi ancora oggi. Sono figure che ci assomigliano più di quanto vorremmo ammettere: portatori di una crisi che non è solo letteraria, ma spirituale, politica, culturale.

Forse è proprio per questo che ci parlano ancora. Non come modelli, ma come specchi deformanti del nostro stesso smarrimento.
In un mondo che non ha più dèi, ma ha ancora desideri infiniti, Aurispa e Stavrogin restano lì, fermi sulla soglia del nulla, a ricordarci che l’abisso non è mai alle spalle — è dentro.

Riccardo Alberto Quattrini

 

 

 

“Anatomia di due tramonti” Due figure, due crisi, un’unica ombra culturale.

Giorgio Aurispa

  • Origini e contesto:
    Nobile intellettuale romano di origine abruzzese, protagonista del romanzo Il trionfo della morte (1894). Riflesso autobiografico di D’Annunzio, incarna l’esteta moderno, colto, inquieto, frammentato.

  • Carattere e psicologia:
    Uomo raffinato e fragile, tormentato dal desiderio e dalla stanchezza. È l’archetipo dell’inetto decadente: incapace di agire, logorato dalla sensibilità, travolto da un eros che non libera ma consuma.

  • Ruolo nel romanzo:
    Figura centrale del dramma dannunziano, vive un amore ossessivo e distruttivo con Ippolita Sanzio. Il suo viaggio interiore culmina in un suicidio rituale, specchio di un’epoca che ha smarrito il senso della vita.


Nikolaj Vsevolodovič Stavrogin

  • Origini e contesto:
    Aristocratico russo, ultimo rampollo di una famiglia nobile decadente. Protagonista del romanzo I demoni (1872), è una figura enigmatica attorno alla quale ruotano tensioni politiche, spirituali e morali dell’epoca zarista.

  • Carattere e psicologia:
    Taciturno, affascinante, glaciale. Dotato di forza fisica e di un’intelligenza lucida, ma privo di volontà morale. È stato definito “il male assoluto incarnato” per la sua indifferenza colpevole e la sua inattività distruttiva.

  • Ruolo nel romanzo:
    Figura assiale e disturbante, genera caos senza toccarlo. Incarna il nichilismo russo in forma pura: l’uomo che ha perduto Dio e non sa che farsene della libertà. Il suo suicidio chiude il romanzo come una sentenza.

Per approfondire

  • Gabriele D’AnnunzioIl trionfo della morte, Milano, Mondadori, 1990

  • Fëdor DostoevskijI demoni, trad. it. di E. Lo Gatto, Milano, Garzanti, 2003

  • Friedrich NietzscheCosì parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1971

  • Mario Andrea RigoniIl tiranno misericordioso, Marsilio, 1993

  • Cesare CasesLa polemica col nichilismo in Dostoevskij, in Il testimone secondario, Einaudi, 1979

  • Pietro GibelliniD’Annunzio: il poeta e la morte, Venezia, Marsilio, 1994

  • E. CioranIl funesto demiurgo, Adelphi, 1986 (per risonanze contemporanee sul vuoto e la fine dei valori)

 

 

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