«Di certi autori capita che non si legga subito la loro primissima produzione. Magari è uscita in sordina, magari il loro è un successo venuto in un secondo tempo. È successo più o meno lo stesso con Emmanuel Carrère. Ma le 150 pagine di I baffi s’impongono a una lettura avida e ininterrotta sin dalla prima pagina.» – Teresa Bellemo Rivista Studio

«Che ne diresti se mi tagliassi i baffi?».

Agnès, che sfogliava una rivista sul divano, diede in una risata leggera, poi rispose: «Sarebbe una buona idea »

Così ha inizio questo viaggio allucinante e allucinato del nostro protagonista, l’uomo senza baffi. Sì, perché nel momento in cui decide di radersi completamente qualcosa nel suo equilibrio familiare e sociale cambia per sempre. Al rientro dalla spesa Agnes trova il compagno seduto ad aspettarla, inquieto e senza baffi ma non c’è nessuna reazione in lei. Agnes è una donna eccentrica, abituata a scherzare… forse lo sta prendendo in giro. La prova dello scherzo l’ex uomo baffuto ce l’ha quando si trova a cena dagli amici: anche loro non fanno nessun accenno a quella zona insolitamente bianca sotto al naso. Ovviamente Agnes deve averli avvisati e ora stanno tutti reggendo il gioco. Con il passare delle ore però, l’irritazione si trasforma in angoscia perché Agnes, Jerome e chiunque incontri il protagonista non fa altro che confermare che quei baffi lui, non li ha mai avuti.

Nasce così un nuovo sé. I confini della realtà per il nostro protagonista si sgretolano mentre il confine tra ossessione e ricerca della verità si sbriciola.  Lo scherzo fatto alla moglie, e a se stesso, si trasforma in un incubo senza soluzione. Lettori e protagonista non riescono a trovare una via di uscita dal labirinto perché cessano di avere punti di riferimento.

Pur se scritto nel 1986 I baffi sembrava parlasse di oggi. Della condizione di smarrimento che abbiamo vissuto durante la quarantena. L’isolamento e l’angoscia di questo personaggio senza nome mi ha ricordato quanto ci si possa sentire soli quando gli altri non ti riconosco. Ed è qui, che si gioca tutto il romanzo che potrebbe essere riassunto con una parola: identità.

L’identità non è una dote naturale, noi non nasciamo con un’identità sociale: l’identità ce la danno gli altri, l’identità è frutto del riconoscimento. Se una mamma dice al suo bambino “sei bravo” e la maestra gli dice “sei intelligente”, il bambino costruirà un’identità positiva, se la mamma gli dice “sei un cretino” e poi glielo ribadisce la maestra, crescerà con un’identità negativa.

Quando gli antichi greci definirono l’uomo un animale sociale, sapevano benissimo  che l’identità singolare di ciascuno di noi e il prodotto del riconoscimento degli altri, gli altri ci danno un’identità e questo non solo da bambini, anche gli adulti che vanno a lavorare e anche se non lo sanno sono funzionari di apparati tecnici, dove collocano la loro identità? La collocano nel ruolo e quando il loro ruolo aumenta nel senso salgono in una posizione sociale più significativa, hanno un incremento della loro identità, quando sono messi da parte hanno un decremento con conseguente svalutazione della loro identità.

Un uomo mediocre, senza nome, con un impiego qualsiasi ad un certo punto si smarrisce perché non riesce più a specchiarsi negli altri. Gli altri non si accorgono della differenza e dunque comincia a dubitare anche lui su questa differenza, che forse non c’è mai stata. Quanto potere hanno le persone intorno a noi? Quanto spazio lasciamo loro… quanto ci definiscono?

Un racconto sull’identità, perduta, ritrovata, messa in discussione, definita dalla società circostante anche da chi amiamo. I baffi è un racconto di centocinquanta pagine che si divorano: talvolta ci si abbandona, ci si rilassa anche, godiamo di ogni parola snocciolata da Carrere ma non possiamo certo illuderci che questa sia una fiaba.

Un’avventura che non si dimentica, una storia adatta per chi ha voglia di smarrirsi e non ha paura di non ritrovare la via.

 

La trama del romanzo

È quasi un capriccio, uno scherzo, quello di tagliarsi i baffi, da parte del protagonista di questo inquietante romanzo. Ma ci sono scherzi (Milan Kundera insegna) che possono avere conseguenze anche molto gravi. Il nostro non più baffuto eroe si troverà infatti proiettato di colpo – lui che voleva solo fare una sorpresa alla moglie – in un universo da incubo: perché tutti quelli che lo conoscono da anni, e la moglie per prima, affermano di non averli mai visti, quei baffi, e che dunque nella sua faccia niente è cambiato. Il mondo comincia allora ad apparirgli «fuor di squadra», e il confine tra la realtà e la sua immaginazione sempre più sfumato. Delle due l’una: o è pazzo, o è vittima di un mostruoso complotto, ordito dalla moglie con la complicità di amici e colleghi, per convincerlo che è pazzo. Non gli resta che fuggire, il più lontano possibile. Ma servirà? O non è altro, la fuga stessa, che il punto di non ritorno? Per nessun lettore sarà facile ripensare a questo libro – in cui ritroviamo le atmosfere visionarie e paranoiche di quel Philip K. Dick sul quale Emmanuel Carrère ha scritto – senza un brivido di turbamento.

 

Come inizia

 

  

   «Che ne diresti se mi tagliassi i baffi?».

   Agnès, che sfogliava una rivista sul divano, diede in una risata leggera, poi rispose: «Sarebbe una buona idea».

   Lui sorrise. Sulla superficie dell’acqua, nella vasca dove indugiava, galleggiavano isolotti di schiuma disseminati di peletti neri. La barba gli cresceva ispida, costringendolo, se non voleva, la sera, ritrovarsi con il mento blu, a radersi due volte al giorno. Al risveglio sbrigava l’incombenza davanti allo specchio del lavandino, prima di farsi la doccia, ed era una semplice sequenza di gesti meccanici, priva di qualunque solennità. La sera, invece, quella corvée diventava un momento di relax che organizzava con cura, premurandosi di riempire la vasca incassata con il telefono della doccia perché il vapore non appannasse gli specchi che la circondavano, posando un bicchiere a portata di mano, quindi spalmandosi lungamente la schiuma sul mento, passando e ripassando il rasoio, attento a non toccare i baffi che dopo pareggiava con le forbici. Che dovesse o meno uscire e fare bella impressione, quel rito vespertino aveva il suo posto nell’equilibro della giornata, così come l’unica sigaretta che, da quando aveva smesso di fumare, si concedeva dopo pranzo. Il tranquillo piacere che ne ricavava era rimasto invariato dalla fine della sua adolescenza, la vita professionale l’aveva persino accresciuto e quando Agnès canzonava affettuosamente la sacralità di quelle sedute di rasatura lui ribatteva che in effetti era il suo esercizio zen, l’unico spazio di meditazione destinato alla conoscenza di sé e del mondo spirituale che gli lasciavano le sue futili ma impegnative attività di giovane quadro dinamico. Performante, lo correggeva Agnès, con ironica tenerezza.

   Adesso aveva finito. Con gli occhi semichiusi, tutti i muscoli a riposo, si studiava la faccia allo specchio, divertendosi a esagerarne l’espressione di umida beatitudine e poi, cambiando a vista, di efficiente e determinata virilità. Un resto di schiuma gli era rimasto appiccicato all’angolo dei baffi. Aveva accennato all’ipotesi di raderli solo per scherzare, come a volte accennava a quella di tagliarsi i capelli cortissimi – li portava di media lunghezza, buttati all’indietro. «Cortissimi? Che orrore» protestava immancabilmente Agnès. «Con i baffi e il giubbotto di cuoio avresti l’aria di un finocchio».

   «Potrei tagliarmi anche i baffi».

   «A me con i baffi mi piaci» concludeva lei. A dire il vero, non l’aveva mai visto senza. Erano sposati da cinque anni.

   «Scendo a fare un po’ di spesa al supermercato» disse lei, facendo capolino dalla porta socchiusa del bagno. «Tra mezz’ora dobbiamo uscire, vedi di sbrigarti».

   Sentì il fruscio della giacca che Agnès si infilava, il tintinnio del mazzo di chiavi che prendeva dal tavolino, la porta d’ingresso aprirsi e poi richiudersi. Poteva anche inserire la segreteria, pensò, per evitarmi di dover uscire dal bagno grondante nel caso squilli il telefono. Bevve un sorso di whisky, agitò il grosso bicchiere quadrato, incantato dal rumore dei cubetti di ghiaccio – insomma, di ciò che ne restava. Tra non molto si sarebbe tirato su, asciugato, vestito…

   Ancora cinque minuti, si concesse, godendosi quell’attimo di tregua. Immaginava Agnès camminare verso il supermercato, con i tacchi che battevano sul marciapiede, poi fare la coda alla cassa, senza che quell’attesa intaccasse il suo buonumore o la vivacità del suo sguardo: registrava sempre qualche dettaglio strano, non necessariamente buffo in sé ma che sapeva valorizzare raccontandolo. Sorrise di nuovo. E se, quando fosse rientrata, le avesse fatto la sorpresa di essersi davvero rasato i baffi? Cinque minuti prima Agnès aveva affermato che sarebbe stata una buona idea. Ma non aveva preso sul serio la domanda, o comunque non più del solito. A lei i suoi baffi piacevano, e a lui pure, del resto, anche se dopo tanto tempo tempo si era disabituato alla propria faccia glabra: non poteva esserne certo. In ogni caso, se il suo nuovo look non fosse piaciuto a nessuno dei due, avrebbe sempre potuto farseli ricrescere, ci sarebbero voluti dieci, quindici giorni, durante i quali avrebbe sperimentato una diversa immagine di sé. In fondo Agnès cambiava regolarmente pettinatura, e senza preavviso; ogni volta lui protestava, le faceva delle parodie di scenate, dopodiché, non appena cominciava ad abituarsi, lei si stufava e tornava a casa con un nuovo taglio. Perché non lui, allora? Sarebbe stato divertente.

   Rise sommessamente, come un bambino che ne stia architettando una delle sue, poi allungò il braccio, posò il bicchiere vuoto sulla toeletta e prese un paio di forbici, per togliere il grosso. Ma subito gli venne in mente che quel mucchio di peli rischiava di intasare il sifone della vasca: bastava una manciata di capelli ed era già tutto un traffico, bisognava versarci uno di quei disgorganti a base di soda che appestavano l’aria per ore. Prese un bicchiere per i risciacqui, lo mise sul bordo della vasca, in equilibrio precario davanti allo specchio e, chinandocisi sopra, iniziò a intaccare il folto. I peli cadevano sul fondo a piccoli ciuffi compatti, nerissimi sul deposito di calcare biancastro. Lavorava lentamente, per non graffiarsi. Dopo un minuto alzò la testa e ispezionò il cantiere.

   Se era per fare il buffone poteva anche fermarsi, lasciare il labbro superiore adorno di una vegetazione irregolare, esuberante qui, rarefatta là. Da bambino, non capiva perché i maschi adulti non approfittassero mai del loro sistema pilifero per divertirsi un po’, perché per esempio in genere uno che decideva di sacrificare la propria barba lo facesse in una sola volta anziché offrire all’ilarità di amici e conoscenti, fosse anche solo per un giorno o due, lo spettacolo di una guancia glabra e un’altra barbuta, di un mezzo baffo o di un paio di basette a forma di Topolino, pagliacciate che, dopo averci riso sopra, sarebbe bastato un colpo di rasoio a cancellare. Strano come il gusto per questo genere di capricci sfumi con l’età, precisamente quando diventano realizzabili, pensò, constatando che lui stesso, in un’occasione analoga, si conformava alle usanze ed escludeva a priori di presentarsi in quello stato incolto a cena da Serge e Véronique, che pure erano vecchi amici e non si sarebbero formalizzati. Pregiudizio piccoloborghese, sospirò, e continuò a sforbiciare finché il fondo del bicchiere fu coperto di peli, e il terreno propizio all’intervento del rasoio.

   Meglio sbrigarsi, Agnès sarebbe tornata da un secondo all’altro, e se non finiva in tempo avrebbe rovinato l’effetto sorpresa. Con la foga gioiosa di chi incarta un regalo all’ultimo momento, stese la crema da barba sulla zona da tosare. Il rasoio stridette, strappandogli una smorfia; eppure non si era tagliato. Caddero nella vasca altri fiocchi di schiuma, anche questi picchiettati di peli neri, ma molto più numerosi di prima. Ci ripassò sopra due volte. In breve tempo il labbro superiore fu ancora più liscio delle guance, un ottimo lavoro.

   Per fare il bagno si era tolto l’orologio, nonostante fosse waterproof, ma a occhio e croce l’operazione non era durata più di sei o sette minuti. Procedendo a un ultimo ritocco, aveva evitato di guardarsi allo specchio per riservarsi la sorpresa, per vedersi come di lì a poco l’avrebbe visto Agnès.

   Alzò gli occhi. Non un granché. L’abbronzatura della settimana bianca, a Pasqua, non era ancora del tutto scomparsa, sicché al posto dei baffi spiccava un rettangolo di un pallore sgradevole, che sembrava addirittura finto, posticcio: una finta assenza di baffi, pensò, e pur senza abdicare del tutto al buonumore malizioso che l’aveva spinto ad agire un po’ già si pentiva del proprio gesto, ripetendosi mentalmente che in dieci giorni il guaio si sarebbe risolto. Ciò detto, avrebbe potuto indulgere a quella pagliacciata alla vigilia delle vacanze e non al rientro, contando su una successiva abbronzatura integrale e su una ricrescita più discreta. Così se ne sarebbero accorti in pochi.

   Scosse la testa. Pazienza, non era grave, non ne avrebbe certo fatto una malattia. E l’esperimento, se non altro, avrebbe avuto il merito di dimostrare che i baffi gli stavano bene.

   Puntellandosi sul bordo si alzò, tolse il tappo dello scarico e la vasca cominciò a svuotarsi rumorosamente mentre lui si avvolgeva nell’asciugamano di spugna. Tremava un po’. Davanti al lavandino si frizionò le guance con il dopobarba, esitando a toccare la traccia lattea dei baffi. Quando finalmente si decise, un pizzicore gli fece increspare le labbra: l’irritazione di una pelle che da quasi dieci anni non entrava in contatto con l’aria aperta.

   Distolse gli occhi dallo specchio. Agnès sarebbe arrivata a momenti. A un tratto scoprì che la reazione che avrebbe potuto avere lo preoccupava, neanche rincasasse dopo una notte trascorsa a tradirla. Andò in soggiorno, dove su una poltrona aveva disposto i vestiti scelti per la serata, e se li infilò con una precipitazione furtiva. Nel suo nervosismo tirò troppo forte la stringa di una scarpa, che si spezzò. Mentre imprecava, un profondo gorgoglio lo avvertì che la vasca si era svuotata. Tornò con i soli calzini nel bagno, dove le piastrelle umide gli fecero contrarre le dita dei piedi, e passò il getto della doccia sulle pareti della vasca finché i resti di schiuma e soprattutto i peli non furono del tutto scomparsi. Si accingeva a pulirla con il detersivo che tenevano nell’armadietto sotto il lavandino, per evitare il disturbo ad Agnès, ma il pensiero che più che un marito premuroso sarebbe sembrato un criminale preoccupato di eliminare le tracce del proprio misfatto gli fece cambiare idea. In compenso vuotò il bicchiere contenente i peli tagliati nel cestino a pedale e lo sciacquò con cura, senza però raschiare il deposito di calcare. Sciacquò anche le forbici, che asciugò per non farle arrugginire. La puerilità di quell’occultamento gli strappò un sorriso: a che serve pulire l’arma del delitto quando il cadavere balza agli occhi?

   Prima di tornare in soggiorno lanciò un’occhiata circolare al bagno, evitando di guardarsi allo specchio. Poi mise su un disco di bossa nova degli anni Cinquanta e si sedette sul divano, con la sgradevole sensazione di aspettare nell’anticamera di un dentista. Non sapeva se avrebbe preferito che Agnès rincasasse subito oppure che tardasse, concedendogli un momento per riflettere, per ricondurre quel gesto alla sua dimensione: uno scherzo, tutt’al più un’iniziativa infelice di cui Agnès avrebbe riso con lui. O si sarebbe detta inorridita, e sarebbe stato divertente comunque.

   Sentì suonare il campanello ma non si mosse, poi, dopo pochi secondi, la chiave che girava nella serratura e, dal divano dov’era, vide Agnès entrare nell’ingresso spingendo la porta con il piede, le braccia ingombre di sacchetti di carta. Fu sul punto di gridare, per guadagnare tempo: «Chiudi la porta! Non guardare!». Scorse le proprie scarpe sulla moquette e ci si chinò sopra a precipizio, come se indossarle avesse potuto impegnarlo a lungo, evitandogli di mostrarsi in viso.

   «Potevi aprirmi» disse Agnès senza acrimonia, vedendolo di sfuggita immobile in quella posizione. Invece di entrare in soggiorno andò dritta in cucina, e lui tese l’orecchio al leggero ronzio del frigorifero che veniva aperto in fondo al corridoio, ai sacchetti accartocciati a mano a mano che lei li svuotava della spesa, poi ai suoi passi che si avvicinavano.

   «Cosa stai trafficando?».

   «Si è rotta una stringa» borbottò lui senza alzare la testa.

   «Cambia scarpe, allora».

   Rise e si lasciò cadere sul divano, al suo fianco. Seduto sul bordo, il busto rigidamente piegato sulle scarpe di cui studiava le impunture senza vederle, lui era paralizzato dall’assurdità della situazione: se aveva fatto quello scherzo era per accogliere Agnès pavoneggiandosi e ridendo della sua sorpresa, eventualmente della sua disapprovazione, non per farsi piccolo piccolo sperando di rimandare il più possibile il momento in cui lei l’avrebbe visto. Doveva scuotersi, presto, riprendere il controllo della situazione. Forse incoraggiato dall’untuosa esortazione del sassofono nel disco, si alzò con un movimento brusco e, dandole le spalle, si avviò alla scarpiera in corridoio.

   «Se ci tieni a mettere queste,» gli gridò lei «possiamo sempre fare un nodo alla stringa, in attesa di comprarne di nuove».

   «No, non fa niente» rispose, e tirò fuori un paio di mocassini che si infilò in piedi nel corridoio, forzando le tomaie. Almeno non avrebbe avuto problemi di stringhe. Inspirò profondamente e si passò la mano sulla faccia indugiando sulla zona dei baffi. Era meno impressionante al tatto che alla vista, ad Agnès sarebbe bastato abbondare in carezze. Si sforzò di sorridere, sorpreso di constatare che più o meno ci riusciva, riaccostò la porta della scarpiera bloccandola con lo scatolone che le impediva di aprirsi e tornò in soggiorno, con la nuca un po’ rigida ma sorridendo, a volto scoperto. Agnès aveva tolto il disco e lo stava infilando nella custodia.

   «Forse adesso è meglio andare» disse voltandosi verso di lui, prima di abbassare delicatamente il coperchio del giradischi la cui spia rossa si spense, benché non l’avesse vista premere il tasto.  

   Scendendo al piano interrato dove si trovava il parcheggio, Agnès si controllò il trucco nello specchio dell’ascensore, poi gli rivolse uno sguardo d’approvazione, ma con ogni evidenza quello che approvava era l’abito e non la metamorfosi, che non aveva ancora commentato. Lui sostenne lo sguardo, aprì la bocca e subito la richiuse, senza sapere cosa dire. In macchina rimase in silenzio, abbozzando mentalmente qualche frase, ma nessuna gli sembrò adeguata: toccava a lei parlare per prima, e del resto parlava, raccontava un aneddoto su un autore della casa editrice per la quale lavorava, ma lui l’ascoltava appena e, non riuscendo a interpretare il suo comportamento, interloquiva il meno possibile. Poco dopo arrivarono nel quartiere dell’Odéon, dove abitavano Serge e Véronique e dove, come sempre, era quasi impossibile trovare un posto per la macchina. Gli ingorghi, il giro dell’isolato rifatto tre volte gli fornirono un pretesto per sfogare il malumore, sferrare un pugno sul volante, mandare affanculo un automobilista attaccato al clacson che non poteva sentirlo. Agnès lo prese in giro. Conscio di essere sgradevole, le propose di scendere mentre lui avrebbe continuato a cercare un posto. Lei accettò, scese davanti al palazzo degli amici e attraversò la strada, poi, come se avesse bruscamente cambiato idea, tornò a passo spedito verso la macchina ferma al semaforo. Lui abbassò il finestrino, sollevato al pensiero che con una frase affettuosa Agnès avrebbe messo termine a quella farsa, ma lei voleva solo ricordargli il codice d’ingresso. Si protese verso il finestrino deciso a trattenerla, ma Agnès già si allontanava strizzandogli l’occhio da sopra la spalla come a dire «a tra poco», «ti amo» o chissà cos’altro. Ripartì, perplesso e irritato, con una gran voglia di fumare. Perché faceva finta di non aver notato niente? Per rispondere con un’altra sorpresa a quella che le aveva preparato? Ma era proprio questo a stupirlo: non era affatto sembrata sorpresa, neanche per un secondo, il tempo di ricomporsi, di assumere un’aria naturale. L’aveva guardata bene nell’istante in cui l’aveva visto, mentre rimetteva il disco nella custodia: non aveva battuto ciglio, non aveva cambiato espressione, niente, come se avesse avuto tutto il tempo di prepararsi allo spettacolo che l’aspettava. Certo, si sarebbe potuto obiettare che l’aveva avvisata, Agnès aveva perfino detto, ridendo, che sarebbe stata una buona idea. Ma erano soltanto parole, una finta risposta a ciò che, nella sua testa, ancora non era che una finta domanda. Impossibile immaginare che l’avesse preso sul serio, che avesse fatto la spesa dicendosi: si sta radendo i baffi, quando lo vedo dovrò fare come se niente fosse. D’altra parte, se non se l’aspettava, il sangue freddo di cui aveva dato prova era ancora meno credibile. Comunque sia, concluse, tanto di cappello. Brava.

   Nonostante il traffico il suo nervosismo stava diminuendo, e di conseguenza il disagio. L’assenza di reazioni da parte di Agnès, o piuttosto la sua rapidità di reazione, tradiva la stretta complicità che li legava, la capacità di rispondere allo scherzo improvvisandone un altro, cosa per la quale, anziché metterle il broncio, c’era da farle i complimenti. Ride bene chi ride ultimo, era proprio da lei, era proprio da loro, e adesso friggeva dall’impazienza, non tanto di chiarire un malinteso, ma di godere insieme a lei di un’intesa quasi telepatica e di coinvolgere i loro amici. Serge e Véronique avrebbero riso, prima del suo nuovo look, poi della farsa di Agnès, della sua irritazione, che avrebbe ovviamente confessato, circostanziandola senza riguardi per se stesso, mostrandosi disorientato e spiritosamente brontolone, rispondendo per le rime alla signora. A meno che… a meno che la signora, mai a corto d’idee, non l’avesse preceduto con l’intenzione di mettersi in combutta con Serge e Véronique, dai quali avrebbe preteso lo stesso comportamento. Certo, era stato lui a proporle di salire per prima, ma se non l’avesse fatto forse lei gliel’avrebbe chiesto. Oppure, esattamente come lui, vedeva solo adesso come approfittare di quel vantaggio. Lui anzi lo sperava, felice di proseguire un gioco di cui ora la comicità e il côté ping-pong gli parevano evidenti. Se lei non ci avesse pensato sarebbe rimasto deluso; ma lei ci avrebbe pensato, senza alcun dubbio, l’occasione era troppo ghiotta. Se la immaginava impegnata a istruire Serge e Véronique, con Véronique che ridacchiava e, a furia di sforzi per sembrare normale, minacciava un attacco di ridarella. Non possedeva neanche lontanamente il talento attoriale di Agnès, non aveva né il suo aplomb né il suo gusto della messinscena, si sarebbe tradita in fretta.

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L’autore

Emmanuel Carrère nasce a Parigi, il 9 dicembre 1957. È uno scrittore, regista e sceneggiatore francese.

Emmanuel Carrère

Laureato all’Istituto di Studi Politici di Parigi, è figlio di Louis Carrère e della sovietologa e accademica Hélène Carrère d’Encausse, prima donna ad essere eletta nell’Académie française, figlia di immigrati georgiani che fuggirono la Rivoluzione russa.

I suoi esordi sono stati nella critica cinematografica, per «Positif» e «Télérama». Il suo primo libro, Werner Herzog, un saggio, è stato pubblicato nel 1982.

Il suo esordio come romanziere risale invece al 1983: è L’amico del giaguaro, pubblicato da Flammarion. Il successivo Bravura (1984, in Italia pubblicato nel 1991 da Marcos y Marcos), invece, è stato pubblicato da POL, editore con il quale da allora non ha più interrotto i rapporti. Nel 1986 è uscito Baffi (da cui nove anni dopo lo stesso Carrère ha tratto l’omonimo film), nel 1988 Fuori tiro, nel 1995 La settimana bianca, nel 2000 L’avversario, nel 2002 Facciamo un gioco, nel 2007 La vita come un romanzo russo, nel 2009 Vite che non sono la mia e nel 2012 Limonov (con il quale vince il Prix Renaudot).

Tradotta in Italia dal 1996 al 2011 per l’editore Einaudi, che ne ha pubblicato 5 titoli, l’opera di Carrère viene rilanciata nel 2012 da Adelphi con la biografia del controverso personaggio Limonov, finalmente bestseller di vendite, e la ripubblicazione delle opere precedenti.

Nel 2015 sempre per Adelphi esce Il regno, a cui seguono A Calais (2016),  Io sono vivo, voi siete morti (2016), Propizio è avere ove recarsi (2017), Un romanzo russo (2018).

 

  • I baffi
  • Emmanuel Carrère
  • Traduttore: Maurizia Balmelli
  • Editore: Adelphi
  • Collana: Fabula
  • Anno edizione: 2020
  • In commercio dal: 27 febbraio 2020
  • Pagine: 149 p., Brossura
  • EAN: 9788845934599   Acquista. € 16,15 

 

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Un commento

  1. Ornella

    7 Giugno 2020 a 15:03

    Grandissimo autore. Limonov capolavoro assoluto.anche l’avversario. ??

    rispondere

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