Tra illusioni di vittoria e realtà ignorate, l’Occidente affonda nel suo autoinganno.

I DIECI GIORNI DEL DRAGONE

Il Simplicissimus

Ne “I Dieci giorni del Dragone” si svela il cortocircuito tra retorica e concretezza che ha segnato l’ultimo scorcio di politica internazionale: dieci giornate in cui gli applausi a parole hanno coperto le disfatte sul campo. Dall’evacuazione precipitosissima della flotta USA dal Mar Rosso – cavallo di battaglia del successo americano sullo Yemen – all’inerzia con cui gli Houthi hanno continuato a colpire obiettivi israeliani, si coglie la prima fessura nella narrazione trionfalistica di Washington. Nel frattempo, l’idea – peraltro bocciata con sdegno da Mosca e snobbata persino da Trump – di un cessate il fuoco incondizionato promosso da Macron, Starmer, Merz e von der Leyen si è tramutata in un autogol strategico che ha confermato l’irrilevanza dell’Europa sul palcoscenico globale. In questo clima di sordi annunci e pugni nell’acqua, il solo Zelensky appare intrappolato in un gioco di equilibri precari, intento più che mai a salvare la pelle. Un’analisi spietata che invita a leggere tra le righe, là dove i grandi leader scoprono – a loro insaputa – la loro impotenza reale. (f.d.b.)


I dieci giorni appena passati sono stati memorabili sotto due aspetti: le vittorie dichiarate a parole e le sconfitte subite nei fatti. Certo per comprenderlo occorre leggere tra le righe, attività che oggi costituisce la maggior fonte di informazione non inquinata dai trafficanti di illusioni e infingimenti., ma è evidente che siamo ormai di fronte a un radicale divorzio dalla realtà, a un dormiveglia dell’Occidente. Si è cominciato con la splendida vittoria americana sullo Yemen concretatasi con l’abbandono precipitoso del Mar Rosso da parte della flotta a stelle e strisce e con gli Houthi che continuano tranquillamente a colpire Israele. È probabile che Trump si sia reso conto delle difficoltà e abbia cominciato a prendere le distanze da Netanyahu. Poi è venuta la vittoria degli europei con la loro balzana idea di un cessate il fuoco incondizionato da parte della Russia, fermamente respinto e ridicolizzato da Putin, ma che anche Trump non ha apprezzato per la sua intrinseca insensatezza: è come se Macron, Starmer, Merz e Ursula avessero preso una caterva di legnate come nel teatro dei burattini visto che l’unico ad ascoltarli è ormai Zelensky il cui obiettivo a questo punto è solo salvare la pelle.

Ma questa potrebbe essere considerata solo cronaca, una serie di eventi sfortunati e mosse sbagliate che il mainstream ha ricoperto di carta regalo fingendo di festeggiare un successo: sembra di assistere a una festa di laurea in cui il neo dottore ha in effetti fatto un solo esame e finto un curriculum di studi inesistente. Ma sul piatto della bilancia c’è molto di più: c’è la storica vittoria della Cina che non soltanto non ci pensa nemmeno a supplicare Washington perché tolga i dazi, come qualche tonto nelle terre d’Occidente pensava, e ha soltanto acconsentito, con molta abilità, a creare un pletorico e inutile meccanismo di consultazione commerciale, il cui unico scopo è quello di dare a Trump la possibilità di dire agli americani che ha vinto, che ha costretto Pechino a venire a patti, mentre tali patti non esistono. In segreto poi Pechino ha assestato una bella sberla al John Wayne della Casa Bianca perché i prodotti destinati ai consumatori statunitensi sono stati comprati da altri, tanto che l’export della Cina è aumentato in pochi giorni dell’8.1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Come ha scritto un autorevole commentatore: “la Cina si concentra sul commercio piuttosto che sulla politica, produce beni per chiunque voglia comprarli e questo significa che il restante 95% dell’umanità diventerà il cliente sostitutivo”. Del resto, l’ex celeste impero è molto più esperto di arti marziali e il tentativo trumpiano di sfruttare le debolezze dell’America e il suo ossessivo consumismo per atterrare l’avversario, non è per nulla riuscito. Semplicemente c’è il fatto che Washington non ha le carte per conquistare il punto, mentre la Cina sì.

Pechino però ha messo a segno un altro colpo, questa volta non voluto, nello scontro fra Pakistan e India: come sappiamo l’aviazione pakistana ha surclassato quella indiana abbattendo molti aerei dell’avversario senza nessuna perdita. Il fatto è che l’aeronautica di Islamabad è interamente equipaggiata con sistemi d’arma cinesi, tra cui caccia J-10, missili aria-aria PL-15, sistema di difesa aerea HQ-9 e Awacs Zdk-03. Quella indiana è invece composita: tra le perdite di Nuova Dehli figurano almeno 3 caccia Rafale di fabbricazione francese dal costo stratosferico di 240 milioni di dollari ciascuno e considerato il miglior caccia europeo, un Su-30 di fabbricazione russa, un vetusto MiG-29 e un drone Heron di fabbricazione israeliana. Peraltro il J-10, pur senza essere un caccia arretrato, è di una o due generazioni indietro rispetto al grosso dell’arma aerea cinese: le batoste che è riuscito ad infliggere all’aviazione indiana è dovuto a sistemi d’arma integrati e guidati da un sistema di comunicazione bidirezionale molto avanzato e comprendente anche satelliti, un insieme che si è dimostrato molto superiore rispetto al link 17 o 16 che è lo standard della Nato adottato dall’India. Il combattimento nei cieli tra Pakistan e India, definito il più grande conflitto aereo degli ultimi 50 anni, è stato un banco di prova per le tecnologie cinesi. Con un equipaggiamento militare di una o due generazioni più vecchio di quello dell’Esercito Popolare di Pechino, il Pakistan ha ampiamente superato l’armamento occidentale più avanzato dell’India.

Qualcuno ha parlato di “momento DeepSeek” per la Cina. E non è certo un caso se il presidente americano si sia affrettato ad intervenire per chiudere un conflitto che con tutta probabilità era stato aizzato proprio dai servizi occidentali per mettere in difficoltà uno dei percorsi della via della Seta. La figuraccia sarebbe stata epocale e l’India (così come molti altri clienti) probabilmente non avrebbe mai più comprato armi occidentali che costano tra l’altro dalle 4 alle 8 volte quelle cinesi. Ma una cosa è finalmente chiara: gli Stati Uniti devono dare l’addio a Taiwan.

Redazione

 

 

 

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