”I leoni di Sicilia di Stefania Auci è già un caso letterario «La modernità della storia dei Florio mi ha conquistato».
Il romanzo storico dell’autrice palermitana d’adozione è uscito da appena cinque giorni, ma è già destinato a diventare una serie tv e ad essere tradotto in diverse lingue. «Sono tre anni di approfondimento, di scrittura, di riscrittura, di lavoro a testa bassa», dice l’autrice.
Certi siciliani sono ricchi solo di nomi e di titoli che non valgono manco la pietra su cui sono scolpiti i loro stemmi.
“Cu nesci, arrinesci” (chi esce riesce), il proverbio che apre il prologo de “I leoni di Sicilia” preannuncia il vero leitmotiv di un romanzo nel quale Stefania Auci narra la saga dei Florio che, emigrati dalla Calabria dopo il terremoto, saranno capaci in pochissimo tempo di accumulare potere e ricchezze, tanto da diventare protagonisti della vita politica della Sicilia risorgimentale.
Le vicende storiche si intrecciano con quelle private, raccontando le fortune economiche e la miseria umana di una dinastia ambiziosa guidata dal desiderio di riscatto in una Palermo che, in fondo, li considererà sempre dei “pirocchi arrinisciuti”, privi di un titolo nobiliare che legittimi tanta ricchezza e potere.
Ammazzarsi di fatica, dnnarsi l’anima, non è bastato per farsi accettare da chi ha il poterevero: quello politico, quello che conta.
Pregevole il tratteggio delle peculiarità caratteriali dei personaggi. Profondo il contrasto intimo delle figure femminili. Donne forti e tormentate, inevitabilmente figlie del sud e del loro tempo, donne che combattono nell’ombra per proteggere i loro affetti, ma che finiscono per soccombere di fronte al volere del capofamiglia ed al prestigio di casa Florio.
L’autrice si focalizza, ovviamente, sui momenti più significativi dell’ascesa della famiglia e, nonostante i frequenti salti temporali, la scrittura resta sempre fluida ed estremamente piacevole. Molto funzionali l’albero genealogico e la suddivisione in piccoli paragrafi, che agevolano il lettore in una storia dove spesso i nomi dei protagonisti tendono a ripetersi, nel rigoroso rispetto delle tradizioni di famiglia del 1800.
Curatissima l’ambientazione, che ci trasporta in una città complicata e storicamente piena di contraddizioni:
una città misera, lercia, ma regale al tempo stesso, dove il puzzo della fogna conviveva con l’aroma delle zagare e dei gelsomini che decoravano i cortili dei palazzi nobiliari… una Palermo, schiava padrona, che pare vendersi a tutti, ma che appartiene solo a se stessa.
L’autrice si districa alla perfezione tra parole, proverbi in dialetto, epiteti, frasi dette e non dette, convenzioni familiari, che tutti potranno apprezzare, ma che per un palermitano, come me, acquistano un significato ancora più sottile e profondo.
Impossibile leggere il romanzo e non guardare con occhi diversi la Tonnara dell’Arenella, il villino Florio, Palazzo Steri, Castello a Mare, i vicoli della cala e le strade dai nomi altisonanti. Un’occasione per scoprire le bellezze, più o meno nascoste, di una città che ha tanto da raccontare. Tutto ciò nell’attesa del prossimo capitolo di un romanzo, che poco dopo la sua uscita, è già un caso letterario.
La trama del romanzo.
Dal momento in cui sbarcano a Palermo da Bagnara Calabra, nel 1799, i Florio guardano avanti, irrequieti e ambiziosi, decisi ad arrivare più in alto di tutti. A essere i più ricchi, i più potenti. E ci riescono: in breve tempo, i fratelli Paolo e Ignazio rendono la loro bottega di spezie la migliore della città, poi avviano il commercio di zolfo, acquistano case e terreni dagli spiantati nobili palermitani, creano una loro compagnia di navigazione… E quando Vincenzo, figlio di Paolo, prende in mano Casa Florio, lo slancio continua, inarrestabile: nelle cantine Florio, un vino da poveri – il marsala – viene trasformato in un nettare degno della tavola di un re; a Favignana, un metodo rivoluzionario per conservare il tonno – sott’olio e in lattina – ne rilancia il consumo in tutta Europa… In tutto ciò, Palermo osserva con stupore l’espansione dei Florio, ma l’orgoglio si stempera nell’invidia e nel disprezzo: quegli uomini di successo rimangono comunque «stranieri», «facchini» il cui «sangue puzza di sudore». Non sa, Palermo, che proprio un bruciante desiderio di riscatto sociale sta alla base dell’ambizione dei Florio e segna nel bene e nel male la loro vita; che gli uomini della famiglia sono individui eccezionali ma anche fragili e – sebbene non lo possano ammettere – hanno bisogno di avere accanto donne altrettanto eccezionali: come Giuseppina, la moglie di Paolo, che sacrifica tutto – compreso l’amore – per la stabilità della famiglia, oppure Giulia, la giovane milanese che entra come un vortice nella vita di Vincenzo e ne diventa il porto sicuro, la roccia inattaccabile.
Come inizia.
Cu nesci, arrinesci.
«Chi esce, riesce.»
PROVERBIO SICILIANO
Il terremoto è un sibilo che nasce dal mare, s’incunea nella notte. Gonfia, cresce, si trasforma in un rombo che lacera il silenzio.
Nelle case, la gente dorme. Alcuni si svegliano con il tintinnio delle stoviglie; altri quando le porte iniziano a sbattere. Tutti, però, sono in piedi quando le pareti tremano.
Muggiti, abbaiare di cani, preghiere, imprecazioni. Le montagne si scrollano di dosso roccia e fango, il mondo si capovolge.
La scossa arriva a contrada Pietraliscia, afferra le fondamenta di una casa, le scuote con violenza.
Ignazio apre gli occhi, strappato al sonno da quel tremore che squassa le pareti. Sopra di lui, un soffitto basso che sembra cadergli addosso.
Non è un sogno. È la peggiore delle realtà.
Davanti a lui, il letto di Vittoria, la nipotina, ondeggia tra la parete e il centro della stanza. Sulla panca, il cofanetto di metallo traballa, cade sul pavimento insieme con il pettine e il rasoio.
Nella casa risuonano grida di donna. «Aiuto, aiuto! Il terremoto!»
Quell’urlo lo fa scattare in piedi. Ma non scappa, Ignazio. Deve prima mettere al riparo Vittoria: ha solo nove anni, è così spaventata. La trascina sotto il letto, al riparo dai calcinacci.
«Resta qui, hai capito?» le dice. «Non ti muovere.»
Lei annuisce. Il terrore le impedisce persino di parlare.
Paolo. Vincenzo. Giuseppina.
Ignazio corre fuori dalla stanza. Il corridoio gli sembra interminabile, eppure sono pochi passi. Sente la parete che viene via dal palmo, riesce a toccarla di nuovo, ma è mobile, come una cosa viva.
Arriva alla camera da letto di suo fratello Paolo. Dalle imposte trapela una lama di luce. Giuseppina, sua cognata, è saltata giù dal letto. L’istinto di madre l’ha avvertita che una minaccia incombe su Vincenzo, il figlio di pochi mesi, svegliandola. Cerca di prendere il neonato che dorme nella culla legata alle travi del soffitto, ma la cesta di vimini è in balia delle onde sismiche. La donna piange in preda alla disperazione, tende le braccia, mentre la culla dondola freneticamente.
Lo scialle che indossa cade, le lascia le spalle nude. «Figghiema! Ccà vene, Maronna mia, aiutateci!»
Giuseppina riesce ad afferrare il neonato. Vincenzo spalanca gli occhi, scoppia a piangere.
Nel caos, Ignazio scorge un’ombra. Suo fratello Paolo. Salta giù dal materasso, prende la moglie, la spinge nel corridoio. «Fuori!»
Ignazio torna indietro. «Aspetta! Vittoria!» grida. Nel nero sotto il letto, ritrova Vittoria, raggomitolata con le mani sulla testa. La solleva di peso, corre via. Pezzi d’intonaco si staccano dalle pareti mentre il terremoto ulula ancora.
Sente la piccola che cerca riparo mentre si aggrappa alla sua camicia fino a torcerne la stoffa. Lo sta graffiando, tanta è la paura.
Paolo li spintona oltre la soglia, giù per le scale. «Qua, venite.»
Corrono al centro del cortile mentre la scossa raggiunge l’apice. Si stringono in un abbraccio, le teste che si toccano, le palpebre serrate. Sono cinque. Ci sono tutti.
Prega e trema, Ignazio, e spera. Sta finendo. Deve finire.
Il tempo si polverizza in milioni d’istanti.
Poi, così com’era nato, il rombo si placa, fino a spegnersi del tutto.
Per un istante, c’è solo la notte.
Ma Ignazio sa che quella pace è una sensazione bugiarda. È una lezione, quella del terremoto, che è stato costretto a imparare presto.
Alza la testa. Sente il panico di Vittoria attraverso la camicia, le sue unghie che si aggrappano alla pelle, il suo tremore.
Legge la paura sul volto della cognata, il sollievo in quello del fratello; vede il gesto di Giuseppina che cerca il braccio del marito, e Paolo che si divincola per avvicinarsi all’edificio. «Grazie a Dio, la casa è ancora in piedi. Domani con la luce del giorno vedremo quali sono i danni e…»
Vincenzo sceglie quel momento per scoppiare in un pianto dirotto. Giuseppina lo culla. «Buono, vita mia, statti buono», lo consola. Nel frattempo, si avvicina a lui e Vittoria. È ancora terrorizzata, Giuseppina: Ignazio se ne accorge dal respiro affrettato, dall’odore di sudore, paura che si mescola al profumo di sapone della camicia da notte.
«Vitto’, come sei? Stai bene?» chiede Ignazio.
La nipote fa cenno di sì, ma non lascia la presa sulla camicia dello zio, anzi. Ignazio le stacca la manina a forza. Capisce la sua paura: la bambina è orfana, figlia di suo fratello Francesco. Lui e la moglie sono morti pochi anni prima, lasciando quella bambina alle cure di Paolo e di Giuseppina, gli unici che potessero offrirle una famiglia e un tetto.
«Qui sono. Stai tranquilla.»
Vittoria lo fissa, muta, poi si aggrappa a Giuseppina, così come aveva fatto con lui fino a un istante prima, come una naufraga.
Vittoria vive con Giuseppina e Paolo da quando loro si sono sposati, poco meno di tre anni prima. Ha la stessa natura dello zio Paolo: è taciturna, orgogliosa, riservata. Eppure, in quel momento, è solo una bambina atterrita.
Ma la paura ha molte maschere. Ignazio sa che suo fratello, per esempio, non starà fermo a piangere. Già adesso, con le mani sui fianchi e l’espressione torva, contempla il cortile e le montagne che racchiudono il vallone. «Vergine Santa, ma quant’è durato?»La sua domanda cade nel silenzio. Poi Ignazio risponde: «Non lo so. Assai». Cerca di calmare il tremito che lo fa vibrare da dentro. Ha il volto teso per lo spavento, la mascella spruzzata da una barba chiara, ispida e mani sottili, nervose. È più giovane di Paolo, che pure dimostra più anni della sua età.
La tensione si sta liquefacendo in una sorta di spossatezza, lasciando il posto a sensazioni fisiche: l’umidità, la nausea, il fastidio delle pietre sotto i piedi. Ignazio è scalzo, in camicia da notte, praticamente nudo. Si toglie i capelli dalla fronte, osserva il fratello, poi la cognata.
Decidere è un momento.
Si dirige verso la casa. Paolo lo insegue, lo strattona per un braccio. «Dove credi di andare?»
«Hanno bisogno di coperte.» Con la testa, Ignazio indica Vittoria e Giuseppina, che culla il neonato. «Resta con tua moglie. Vado io.»moglie. Vado io.»
Non aspetta una replica. Con fretta e cautela insieme sale i gradini. Si ferma nell’ingresso per dar modo alla vista di abituarsi alla penombra.
Piatti, suppellettili, sedie: tutto è caduto a terra. Vicino alla madia, una nuvola di farina aleggia ancora sul pavimento.
Prova una stretta al cuore: quella è l’abitazione che Giuseppina ha portato in dote a suo fratello Paolo. È la loro casa, è vero, ma è anche un luogo caldo, in cui lui può sentirsi accolto. È sgomento nel vederla così.
Esita. Sa cosa può accadere se dovesse arrivare un’altra scossa.
Ma è un istante. Entra, strappa via le coltri dai letti.
Raggiunge la sua camera. Trova la bisaccia in cui tiene gli attrezzi da lavoro, la raccoglie. Infine trova lo scrigno di ferro. Lo apre. La fede nuziale di sua madre che riluce nel buio sembra volerlo confortare.
Infila la scatola nella sacca.
È nel corridoio che scorge a terra lo scialle di Giuseppina: la cognata deve averlo perduto durante la fuga. Non se ne separa mai: lo indossa sin dal primo giorno in cui è entrata nella loro famiglia.
Lo afferra, torna all’uscita, fa un segno di croce verso il crocifisso sullo stipite.
Un istante dopo, la terra ricomincia a tremare.
«Questa è stata più breve, grazie a Dio.» Ignazio divide le coperte con il fratello; ne dà una a Vittoria. Infine, lo scialle.
Quando glielo restituisce, Giuseppina si tasta la camicia da notte, trova la pelle nuda. «Ma…»
«L’ho trovato per terra», spiega Ignazio, abbassando gli occhi.
Lei mormora un: «Grazie». Si raggomitola nella stoffa alla ricerca di un conforto che riesca a toglierle quel freddo anomalo. Un brivido fatto di angoscia e ricordi.
«È inutile restare all’addiaccio.» Paolo spalanca la porta della stalla. La vacca lancia un debole suono di protesta mentre lui la trascina per la cavezza per legarla alla parete opposta. Poi accende una lanterna con l’acciarino. Dispone mucchi di fieno contro le pareti. «Vittoria, Giuseppina, sedetevi.»
È un gesto di cura, il suo, Ignazio lo sa, ma il tono è quello di un ordine. Le donne hanno sguardi stralunati, che fissano il cielo e la strada. Starebbero in cortile per tutta la notte se qualcuno non dicesse loro cosa fare. È il compito di un capofamiglia. Essere forte, proteggere: questo fa un uomo, soprattutto un uomo come Paolo.
Vittoria e Giuseppina si lasciano cadere su un mucchio di paglia. La bambina si raggomitola con le mani strette a pugno davanti al viso.
Giuseppina la guarda. La guarda e non vuole ricordare, ma la memoria è subdola, è bastarda, le risale dentro, l’afferra alla gola e la risucchia nel passato.
La sua infanzia. I suoi genitori, morti.
La donna serra le palpebre, scaccia il ricordo con un respiro profondo. O almeno ci prova. Stringe Vincenzo, poi abbassa la camicia da notte e subito il bambino si attacca al capezzolo. Le manine afferrano la pelle sottile, le unghie la graffiano intorno all’areola.
Lei è viva, suo figlio è vivo. Non resterà orfano.
Ignazio, invece, è fermo sulla soglia. Studia il profilo della casa. Nell’oscurità, cerca comunque segni di cedimento, una crepa, un muro sbrecciato e non ne trova. È incredulo, quasi non osa sperare che questa volta non accadrà nulla.
Il ricordo di sua madre è una folata di vento nella notte. Sua madre che rideva, che gli tendeva le braccia, e lui piccolo che le correva incontro. La scatola nella bisaccia sembra d’un tratto pesantissima. Ignazio la prende, tira fuori l’anello di oro battuto. Lo stringe, la mano sul cuore.
«Mamma.»
Lo dice a fior di labbra. È una preghiera, forse la ricerca di una consolazione. Di un abbraccio che gli manca da quando aveva sette anni. Da quando sua madre Rosa è morta. Era il 1783, l’anno del castigo di Dio, l’anno in cui la terra aveva tremato finché di Bagnara non erano rimaste che macerie. Quel terremoto devastante che aveva colpito Calabria e Sicilia, causando migliaia di morti, si era portato via decine di persone in una notte nella sola Bagnara.
Anche allora lui e Giuseppina erano stati vicini.
Ignazio la ricorda bene. Una bimbetta secca e pallida, stretta tra il fratello e la sorella, che fissava due cumuli di terra segnati con una croce sola: i suoi genitori, morti nel sonno, schiacciati dalle macerie della loro camera.
Lui, invece, era accanto a suo padre e a sua sorella; Paolo, un po’ indietro, le mani strette a pugno e uno sguardo cupo sulla faccia di adolescente. In quei giorni, nessuno aveva pianto solo i propri morti: il funerale dei genitori di Giuseppina, Giovanna e Vincenzo Saffiotti, si era svolto nella stessa data di quello di sua madre, Rosa Bellantoni, e con loro, erano stati seppelliti molti altri bagnaroti. I cognomi erano sempre gli stessi: Barbaro, Spoliti, Di Maio, Sergi, Florio.
Ignazio abbassa lo sguardo sulla cognata. Nel momento in cui Giuseppina alza gli occhi e incontra i suoi, il giovane capisce che pure lei è braccata dai ricordi.
Parlano un’unica lingua, abitano lo stesso dolore, si portano dentro la medesima solitudine.
«Dovremmo andare a vedere cos’è successo agli altri.» Ignazio indica la collina oltre l’abitato di Bagnara. Nel buio, luci segnalano la presenza di case e uomini. «Che fa, non vuoi sapere se stanno bene, Mattia e Paolo Barbaro?»
Ha una leggera esitazione nella voce. A ventitré anni è un uomo fatto, eppure i suoi gesti ricordano a Paolo quelli del bambino che si nascondeva dietro la casa di famiglia, oltre la fucina del padre, quando la loro vera madre lo rimproverava. Dopo, con quell’altra, la nuova moglie di suo padre, Ignazio non aveva mai pianto. Si limitava a fissarla con un odio rancoroso, e a tacere.
Paolo scrolla le spalle. «Non ce n’è bisogno. Se le case sono in piedi, a loro non sarà successo nulla. E poi è notte ed è buio, e la Pagliara è distante.»
Ma Ignazio sbircia ansiosamente la strada, e poi oltre, verso le alture che circondano il paese. «No. Io vado a vedere che è successo.» E imbocca il sentiero per il centro di Bagnara, seguito da un improperio del fratello.
«Torna indietro», gli grida, ma lui alza la mano e gli fa cenno che no, andrà avanti.
È scalzo, in camicia da notte, ma non gli importa: vuol sapere come sta la sorella. Scende dall’altura dove si trova Pietraliscia, in pochi passi arriva al paese. Qua e là calcinacci, pezzi di tetto, tegole spaccate.
Intravede un uomo che corre, ha una ferita sulla testa. Il sangue brilla alla luce della torcia con cui illumina il vicolo. Ignazio oltrepassa la piazza, s’infila tra le stradine ingombre di galline, capre, cani in fuga. Troppa è la confusione.
Nei cortili, donne e bambini recitano il rosario, o si chiamano per avere notizie. Gli uomini, invece, cercano vanghe e zappe, raccolgono le bisacce con gli attrezzi da lavoro, unica cosa che potrà garantire loro di sostentarsi, più preziosi del cibo o dei vestiti.
Lui s’inerpica per il sentiero che porta a contrada Granaro, dove si trova l’abitazione dei Barbaro.
Lì, sul bordo della strada, ci sono baracche di pietra e legno.
Una volta, erano vere case: lui era piccolo, ma se le ricorda bene. Poi il terremoto del 1783 le aveva distrutte. Chi aveva potuto, le aveva ricostruite alla meglio con ciò che era riuscito a salvare. Altri avevano usato i ruderi per creare case più grandi e ricche, così come aveva fatto suo cognato, Paolo Barbaro, il marito di Mattia Florio, sua sorella.
La prima persona che vede è proprio lei, Mattia, seduta su una panca, a piedi nudi. Occhi scuri, sguardo severo, con la figlia Anna attaccata alla camicia da notte e Raffaele addormentato in braccio.
In quel momento, Ignazio rivede sua madre in lei, i suoi colori scuri. Le va incontro, l’abbraccia senza dire una parola.La tensione smette di mordergli il cuore.
«Come state? Paolo, Vincenzo? E Vittoria?» Gli prende il viso tra le mani, lo bacia sugli occhi. Nella voce, una nota di pianto. «Giuseppina, come sta?» Se lo abbraccia di nuovo, e il fratello sente un odore di pane e frutta, un profumo di casa, di dolcezza.
«Tutti salvi, grazie a Dio. Paolo ha sistemato lei e i bambini nella stalla. Io sono venuto per sapere come stai… come state voi.»
Dal retro dell’abitazione, spunta Paolo Barbaro. Suo cognato. Conduce un asino per la cavezza.
Mattia s’irrigidisce, Ignazio la lascia andare.
«Ah, bene. Stavo venendo a cercare te e tuo fratello.» Attacca l’animale al carretto. «Dobbiamo andare al porto a controllare la barca. Fa niente che ci sei solo tu.»
Ignazio apre le braccia, lascia cadere la coperta. «Così? Sono mezzo nudo.»
«Che fa, ti vergogni?»
Paolo è basso e tarchiato. Il cognato, invece, è asciutto, ha un corpo nervoso, giovane. Mattia si fa avanti, arrancando con i bambini che le si stringono addosso.
«Ci sono dei vestiti nel cassettone. Può mettersi…»
Il marito la zittisce: «Che t’ho chiesto qualche cosa a te, perché t’ha sempre immiscari? E tu, svelto, sali. Con quello che è successo, nessuno baderà a com’è combinato».
«Mattia stava cercando di aiutarmi», prova a difenderla Ignazio. Non sopporta di vedere la sorella a testa bassa, con le guance arrossate dalla mortificazione.
Il cognato salta sul carretto. «Mia moglie parla sempre assai. Ora andiamo.»
Sta per ribattere, Ignazio, ma Mattia lo ferma con un’occhiata di supplica. Lo sa bene, lui, che Barbaro non ha rispetto per nessuno.
Il mare è vischioso, ha il colore dell’inchiostro, si confonde con la notte. Ignazio salta giù dal carretto non appena arrivano al porto.
Davanti a lui, la baia spazzata dal vento, racchiusa da una massicciata di scogli e sabbia, protetta dalla mole aguzza delle montagne e di capo Marturano.
Intorno alle barche, uomini gridano, controllano il carico, stringono corde.
Sembra mezzogiorno, tanto è il fermento.
«Andiamo.» Barbaro si dirige verso la torre di Re Ruggero, dove il mare è profondo. Lì sono ormeggiate le imbarcazioni più grandi.
Arrivano davanti a una barca dalla chiglia piatta. È il San Francesco di Paola, lo schifazzo che è dei Florio e di Barbaro.L’albero maestro oscilla al ritmo delle onde, il bompresso si tende verso il mare. Le vele sono piegate, il sartiame è in ordine.
Una lama di luce si fa largo nel boccaporto. Barbaro si protende in avanti, ascolta i cigolii con un’espressione che oscilla tra il sorpreso e l’indispettito. «Cognato, sei tu?»
La testa di Paolo Florio compare dal boccaporto. «Chi doveva essere?»
«E che ne so? Con quello che è successo stanotte…»
Ma Paolo Florio non lo ascolta più. Ora guarda Ignazio. «E tu, poi! Non mi hai fatto sapere più niente. Hai preso e sei sparito. Ora sali, muoviti.» Poi scompare nel ventre della barca e anche il fratello salta a bordo. Il cognato resta sul ponte per controllare la murata di sinistra che ha sbattuto contro il molo.
Ignazio s’incunea nella stiva, tra cassette e sacchi di tela che dalla Calabria arriveranno fino a Palermo.
È questo il loro lavoro: il commercio, soprattutto per mare. Pochi mesi prima c’erano stati grandi sconvolgimenti nel Regno di Napoli: il re era stato cacciato e i rivoltosi avevano fondato la Repubblica Napoletana. Era stato un gruppo di nobili e di intellettuali a diffondere idee di democrazia e libertà, proprio com’era avvenuto in Francia, durante la rivoluzione che aveva visto cadere le teste di Luigi XVI e di Maria Antonietta. Ferdinando e Maria Carolina, però, erano stati più accorti e se ne erano scappati in tempo, aiutati da quella parte dell’esercito rimasta fedele agli inglesi, storici nemici della Francia, prima che i lazzari, i popolani, li travolgessero con il loro furore.
Ma lì, tra i monti calabresi, era arrivata solo l’ultima onda di quella rivoluzione. Si erano verificati omicidi, i soldati non sapevano più a chi obbedire e i briganti che da sempre infestavano le montagne avevano iniziato a depredare anche i commercianti sulla costa. Tra briganti e rivoluzionari, le strade erano pericolose e, anche se il mare non aveva né chiese né taverne, di certo offriva più sicurezza delle vie del regno dei Borbone.
L’interno della piccola stiva è soffocante. Cedri in ceste di vimini, richiesti dai profumieri; pesce, soprattutto pesce stocco e aringhe salate. Più in fondo, pezze di cuoio, pronte per esser portate a Messina.
Paolo ispeziona i sacchi di merce. Nella stiva si diffonde l’odore del pesce salato insieme con quello lievemente acido del cuoio.
Le spezie, però, non sono nella stiva. Quelle le tengono in casa fino alla partenza. L’umidità e il salmastro del mare potrebbero danneggiarle, e vanno conservate con riguardo. Hanno nomi esotici che acquistano sapore sulla lingua ed evocano immagini di sole e calore: pepe, citrino, chiodi di garofano, tormentilla, cannella. Sono la vera ricchezza.
Ignazio, d’un tratto, capisce che Paolo è nervoso. Lo vede dai gesti, lo avverte nelle parole, soffocate dallo sciabordio contro il fasciame. «Cosa c’è?» gli chiede. Teme che abbia litigato con Giuseppina. Sua cognata è tutt’altro che remissiva come dovrebbe essere una moglie. Per lo meno, una moglie adatta a Paolo. Ma non è questo ciò che lo turba, lo sente. «Che c’è?» ripete.
«Voglio andarmene da Bagnara.»
La frase cade nel fugace momento di pausa tra un’onda e l’altra.
Ignazio spera di non aver capito. Ma sa che altre volte Paolo ha espresso questo desiderio. «Dove?» chiede, più accorato che sorpreso. Ha paura. Una paura improvvisa, antica, una bestia che ha il fiato acido dell’abbandono.
Mattia e Paolo lo hanno sempre sorretto. Ora Mattia ha una famiglia sua e Paolo vuol andar via. Lasciarlo solo.
Suo fratello abbassa la voce. È quasi un sussurro. «In realtà ci sto pensando da tempo. La scossa di stanotte mi ha convinto che è la cosa giusta. Non voglio che Vincenzo cresca qui, con il rischio di vedersi cadere addosso la casa. E poi…» Lo guarda. «Voglio di più, Igna’. Questo paese non mi basta più. Questa vita non mi basta più. Voglio andare a Palermo.»
Ignazio apre la bocca per rispondere, la richiude. È disorientato, sente le parole diventare cenere.
Ma certo, Palermo è una scelta ovvia: Barbaro e Florio, come li chiamano a Bagnara, hanno una putìa, un negozio di spezie, laggiù.
Ricorda, Ignazio. Tutto era iniziato circa due anni prima con un magazzino, un piccolo fondaco dove stivare le merci che acquistavano lungo la costa per rivenderle nell’isola. All’inizio, era stata una necessità; subito dopo, però, suo fratello Paolo aveva intuito che poteva trasformarsi in un’occasione favorevole per loro: potevano aumentare le vendite su Palermo che, in quel momento, era uno dei maggiori porti del Mediterraneo. Così quel magazzino si era trasformato in un emporio. Oltretutto, a Palermo, c’è una grossa comunità di bagnaroti, riflette Ignazio. È una piazza vivace, ricca, piena di opportunità, soprattutto dopo l’arrivo dei Borbone scappati per la rivoluzione.
Fa un cenno con la testa e indica il ponte sopra di lui, dove schioccano i passi del cognato.
No, Barbaro ancora non lo sa. Paolo gli fa cenno di tacere.
Per Ignazio, la solitudine è una stretta alla gola.
Il ritorno a casa è silenzioso. Bagnara è prigioniera di un tempo sospeso, in attesa del giorno. Quando arrivano a Pietraliscia, i due fratelli entrano nella stalla. Vittoria dorme, così pure Vincenzo. Giuseppina, invece, è sveglia.
Paolo si siede accanto alla moglie, che rimane rigida, in allerta.
Ignazio cerca un posto sulla paglia e lo trova accucciandosi accanto a Vittoria. La bambina emette un sospiro. D’istinto, lui la abbraccia, ma non riesce a prendere sonno.
La notizia è dura da accettare. Come farà, da solo, lui che solo non è mai stato?
L’alba trafigge il buio attraverso le fessure della porta. Una luce dorata, che parla di un autunno incombente. Ignazio rabbrividisce per il freddo: schiena e collo sono rattrappiti, i capelli sono pieni di stoppie. Scuote dolcemente Vittoria.
Paolo è già in piedi. Sbuffa, mentre Giuseppina culla il piccolo che ha ricominciato a lamentarsi.
«Bisogna rientrare a casa», dichiara lei, bellicosa. «Vincenzo deve essere cambiato e io, comunque, non posso stare così. Non è dignitoso.»
Paolo sbuffa, spalanca la porta: il sole dilaga nella stalla. La casa è ancora in piedi e ora, nella luce dell’alba, si scorgono alcuni calcinacci e delle tegole rotte. Ma nessuna crepa, nessuna lesione. Lei mormora una benedizione. Possono rientrare.
Ignazio entra in casa subito dopo Paolo. Alle sue spalle, Giuseppina. Ne sente i passi esitanti, l’aspetta, pronto ad aiutarla.
Superano la soglia. La cucina è piena di suppellettili rotte.
«Santa Madre di Dio, che disastro.» Giuseppina tiene stretto il neonato che si lamenta in maniera ormai incontrollabile. Dal piccolo arriva un odore simile al latte andato a male. «Vittoria, aiutami! Metti in ordine, non posso fare tutto io. Sbrigati!» La bambina, rimasta indietro, entra. Cerca lo sguardo della zia, non lo trova. Con le labbra strette si china, inizia a raccogliere i cocci. Non piangerà, non deve.
Giuseppina s’inoltra nel corridoio su cui si aprono le stanze da letto. Ogni suo passo è un lamento, una stretta al cuore. La sua casa, il suo orgoglio, è piena di calcinacci e di oggetti rotti. Ci vorranno giorni per rimettere tutto in ordine.
Quando arriva in camera, la prima cosa che fa è lavare Vincenzo. Lo deposita sul materasso per potersi lavare a sua volta. Il bimbo sgambetta, cercando di afferrarsi un piedino, e se ne esce con una risata acuta.
«Amore mio», gli dice lei. «Vita mia.»
Vincenzo è la sua puddara, la sua «stella polare». Colui che ama più di chiunque altro.
Alla fine, indossa l’abito da casa. Sulle spalle, lo scialle, che appunta dietro la schiena.
Mentre rimette il figlio nella culla, Paolo entra nella stanza.
L’uomo spalanca la finestra. L’aria di ottobre invade la stanza, insieme con il fruscio dei faggi che hanno iniziato a rosseggiare verso la montagna. Una gazza ladra cicaleccia a poca distanza dall’orto che Giuseppina accudisce personalmente. «Non possiamo restare a Pietraliscia.»
La donna si blocca con le mani sul guanciale che sta sprimacciando. «Perché? Ci sono danni? Dove?»
«Il tetto è pericolante, ma no, non sono solo i danni. Ce ne andiamo noi da qui. Da Bagnara.»
Giuseppina è incredula. Il cuscino le scivola dalle mani. «Perché?»
«Perché sì.» La voce non lascia dubbi: c’è una decisione irremovibile dietro quell’annuncio.
Lo fissa. «Ma che dici? Via da casa mia?»
«Da casa nostra.»
Da casa nostra? sta per chiedergli lei. Lo fronteggia, stringe i denti. Questa è la mia casa, pensa la donna con rancore. Mia, quella che ho portato in dote mentre tu e tuo padre volevate ancora soldi e sempre di più, e non vi bastavano mai…Perché se lo ricorda bene, Giuseppina, il tira e molla che c’era stato per ottenere la dote che i Florio volevano, e quanto c’era voluto per accontentarli, mentre lei, invece, non avrebbe voluto sposarsi. E ora lui vorrebbe andarsene? Perché?
Anzi no, non vuole saperlo. Va in corridoio, scappa via dalla stanza e da quella discussione.
Paolo la insegue. «Ci sono crepe sui muri interni, sono cadute tegole. Al prossimo terremoto, ci accopperà in testa.»
Arrivano in cucina. Ignazio capisce in fretta. Conosce i segnali di una tempesta e lì ci sono tutti. Fa cenno a Vittoria di andar via e lei si dilegua verso le scale, all’aperto. Lui arretra verso il corridoio, ma rimane appena oltre la soglia: teme le reazioni di Paolo e la collera della cognata.
Non ne verrà nulla di buono, da quella lite. Non è mai venuto nulla di buono tra loro.
La donna afferra una ramazza per scopare via la farina dal pavimento. «Aggiustalo: sei tu il capofamiglia. Oppure chiama degli operai.»
«Non posso stare qui a controllare i muratori e non ho tempo di farlo io. Se io non parto, noi non mangiamo. Io navigo da Napoli a Palermo, ma non voglio continuare a essere u’ bagnaroto. Voglio di più, per me e per mio figlio.»
Lei emette un verso a metà strada tra il disprezzo e la risata sguaiata. «Ma tu si’ e resterai u’ bagnaroto, anche se te ne vai alla corte dei Borbone. Non si può cancellare quello che uno è, per quanto profumo di soldi si butta addosso. E tu sei uno che vende cose con uno schifazzo comprato in societàcon un cognato che continua a trattarlo da servo.» Giuseppina comincia a trafficare con le stoviglie nell’acquaio.
Ignazio sente il rumore dei piatti che cozzano l’uno con l’altro, ne immagina i gesti nervosi. Intravede la sua schiena muoversi a scatti, curva sulla tinozza.
Sa come deve sentirsi: in collera, confusa, spaventata. Angosciata.
Le stesse cose che prova lui sin dalla notte precedente.
«Andremo via nei prossimi giorni. È bene che tu avvisi tua nonna che…»
Un piatto finisce scagliato a terra. «Io da casa mia non me ne vado! Scordatelo!»
«Casa tua!» Paolo soffoca una bestemmia. «Casa tua! Non fai altro che rinfacciarmelo da quando ci siamo sposati. Tu, e i tuoi parenti, e i tuoi soldi! Sono io che ti permetto di viverci, io, con il mio lavoro.»
«Sì. È mia, è quella che mi hanno lasciato i miei genitori. Tu te la potevi solo sognare una casa del genere. Vivevi nel pagliaio di tuo cognato, ricordi? Hai avuto ducati da mio zio e da mio padre, e ora decidi che te ne vuoi andare da qui?» Afferra una pentola di rame, la scaglia a terra con violenza. «Io non me ne vado! Questa è casa mia! Il tetto è rotto? Si aggiusta! Tu tanto qui non ci stai mai, te ne parti ogni mese. Vattene, vattene tu dove vuoi. Io e mio figlio non ci muoviamo da Bagnara.»
«No. Tu sei mia moglie. Il figlio è mio. Tu farai quello che ti dico io.» Paolo è gelido.
Il viso di Giuseppina perde colore.
Si copre la faccia con il grembiule, si colpisce la fronte con i pugni con una rabbia cruda, che chiede solo di uscire.
Ignazio vorrebbe intervenire, placare lei e il fratello, ma non può e deve distogliere lo sguardo per impedirsi di farlo.
«Disgraziato, ma veramente tutto mi vuoi togliere?» singhiozza Giuseppina. «Qua ho mia zia, mia nonna, le tombe di mio padre e mia madre. E tu, per i soldi, vuoi farmi abbandonare tutto? Ma che razza di marito sei?»
«Finiscila!»
Lei non lo ascolta nemmeno. «No, mi dici? No? E poi dove, dove vorresti andare, maledizione?»
Paolo osserva i frammenti di terracotta del piatto, ne scosta uno con la punta della scarpa. Aspetta alcuni istanti che i suoi singhiozzi si plachino prima di rispondere. «A Palermo, dove io e Barbaro abbiamo aperto l’aromateria. Per ora è una città ricchissima, altro che Bagnara!» Si avvicina, le accarezza un braccio. «E poi, al porto vivono alcuni nostri conterranei. Non saresti sola.» È un gesto impacciato, un po’ rude, ma di gentilezza.
Giuseppina si scrolla di dosso la mano del marito. «No», ringhia. «Non ci vengo.»
Allora gli occhi chiari di Paolo s’induriscono. «No, lo dico io. Sono tuo marito e tu verrai con me a Palermo, anche a costo di tirarti per i capelli da qui fino alla torre di Re Ruggero. Comincia a raccogliere le tue cose. Partiamo entro la prossima settimana.»
Spezie
novembre 1799 – maggio 1807
Cu manìa ’un pinìa.
«Chi si dà da fare non patisce.»
PROVERBIO SICILIANO
Già dal 1796 sull’Italia spirano venti di rivoluzione, portati dalle truppe comandate da un giovane e ambizioso generale: Napoleone Bonaparte.
Nel 1799, i giacobini del Regno di Napoli si ribellano alla monarchia borbonica, istituendo la Repubblica Napoletana. Ferdinando IV di Napoli e Maria Carolina d’Asburgo sono costretti a rifugiarsi a Palermo. Tornano a Napoli solo nel 1802; l’esperienza della repubblica si conclude con una repressione feroce.
Nel 1798, per contrastare la presenza dilagante dei francesi, vari Stati, tra cui Gran Bretagna, Austria, Russia e il Regno di Napoli, si coalizzano contro la Francia. Ma, già dopo la sconfitta a Marengo (14 giugno 1800), gli austriaci firmano il trattato di Lunéville (9 febbraio 1801) e, un anno dopo, con il trattato di Amiens (25 marzo 1802), anche la Gran Bretagna arriva alla pace con i francesi, riuscendo se non altro a salvaguardare i propri possedimenti coloniali. La marina inglese rafforza così la propria presenza nel Mediterraneo, e in Sicilia in particolare.
Il 2 dicembre 1804, Napoleone si autoproclama imperatore dei francesi e, dopo la decisiva vittoria di Austerlitz (2 dicembre 1805), dichiara la fine della dinastia borbonica e invia a Napoli il generale André Masséna con l’incarico di mettere sul trono il fratello dello stesso Napoleone, Giuseppe, che diventa così «re di Napoli». Ferdinando è di nuovo costretto a fuggire a Palermo, sotto la tutela degli inglesi, anche se continua a regnare sulla Sicilia.
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L’autrice.

Stefania Auci è una scrittrice e insegnante di sostegno. Tra i suoi libri ricordiamo: Florence (Baldini + Castoldi, 2015) e La cattiva scuola (Tlön, 2017) scritto con l’amica e collega Francesca Maccani.
Nel 2019 esce per Nord I leoni di Sicilia. La saga dei Florio. Per scriverlo l’autrice ha condotto numerose ricerche: ha setacciato le biblioteche, ha letto tutte le cronache giornalistiche dell’epoca, ha esplorato i possedimenti dei Florio e ha raccolto con puntiglio i fili della Storia che si dipanano tra abiti, canzoni, lettere, bottiglie, gioielli, barche, statue. E una realtà culturale che ha lasciato il segno non solo in Sicilia.
- I leoni di Sicilia. La saga dei Florio
- Stefania Auci
- Editore: Nord
- Collana: Narrativa Nord
- Anno edizione: 2019
- Pagine: 436 p., Brossura
Acquista € 9,99Acquista e-book € 9,99
In copertina: Ritratto di signora con due adolescenti, di Vittorio Matteo Corcos, 1910, collezione privata © Archivi Alinari, Firenze
sono il fratello di vlad
25 Maggio 2019 a 8:53
Ricordo una intervista ad una nipote dei Florio apparsa tempo fa sulla Rai. Alla domanda su cosa ricordasse sulla fine di quel grande impero che furono i Florio ella rispose, nulla. Prima c’era tutto, feste, balli, visite, poi il niente. Ci ritirammo in campagna ed iniziò per noi una nuova vita. La Banca Commerciale ci aveva sospeso i crediti, era l’unica banca con la quale per ordine regio le società marittime avrebbero potuto collaborare. Finì tutto così. Bastò una stretta sul credito e si lasciò spazio ad una nuova potenza militare marinara che oramai stava investendo nello stretto di Suez.