”La Venezia del XVI secolo che Connor ci racconta nel suo thriller non ha nulla a che vedere con la città dell’amore, romantica, sfarzosa ed artistica, indolente regina della laguna che sottostà ai capricci delle maree.
La Venezia del XVI secolo che Connor ci racconta nel suo thriller non ha nulla a che vedere con la città dell’amore, romantica, sfarzosa ed artistica, indolente regina della laguna che sottostà ai capricci delle maree.
La Venezia de “I Lupi di Venezia” è una città pericolosa, oscura, che nasconde all’ombra degli ori e degli stucchi turpitudini, ricatti ed orrori. Come una maschera che cela il volto di chi la indossa, la città nasconde i suoi veri padroni, non il doge, non i nobili, ma degli individui dei quali non si sussurra nemmeno il nome: sono i Lupi, e non sono due, ma quattro, non credete a chi vi dice altro.
La trama è ricca, ideata e messa nero su bianco con abilità, pervasa da uno strisciante quanto onnipresente senso di drammatica tragicità. Con la sua scrittura Connor ci trasporta lontano, ci sussurra alle orecchie di spie, tradimenti, di una voglia di riscatto e considerazione che viene presa, usata, mutata in ciò che di negativo può esserci al mondo, in un veleno che si diffonde tra i canali e raggiunge tutti, sporcandoli, ingarbugliandone le esistenze, portando morte e disperazione.
Grande spessore e dinamismo hanno i personaggi che incontriamo nel romanzo. Tiziano con la sua grandezza, Tintoretto con la sua arte e la sua furia nel renderla su tela, Pietro Aretino che diviene non solo letterato e poeta, ma un vero personaggio negativo, ambiguo, scaltro e temibile, affascinante come un cobra e altrettanto letale, insieme al sodale Battista. Accanto a loro ci sono figure che vengono dal popolo del ghetto, come i fratelli Tabat, Ira e Rosella, ai quali tanto accadrà loro malgrado, oppure stranieri come l’olandese Der Witt, speziale, mago, ma soprattutto uomo con un gran senso di colpa con il quale convivere.
Poi c’è lui, il vero protagonista, che all’inizio appare come un attore marginale, ma che via via, anche tramite le sue dirette parole, assurge al ruolo predominante che gli spetta: Marco Gianetti, colui che egoisticamente, avidamente, permette al male di irretirlo, ingabbiarlo, imprigionarlo, trascinando così altri nel baratro.
Si parte dal ritrovamento del cadavere di una vittima di omicidio, per poi scandagliare le bassezze dell’uomo, principalmente la capacità di nuocere, la cattiveria che in queste pagine dilaga, seduce e spaventa, per una narrazione avvincente che non perde ritmo, ma sempre più ne guadagna.
I Lupi spadroneggiano, i Lupi terrorizzano. State attenti e se potete fuggite, perché restare a Venezia può significare morire…
La trama del romanzo.
Venezia, XVI secolo. La dura vita di bottegai, prostitute, schiavi ed ebrei del ghetto contrasta con l’abbagliante ricchezza della città lagunare, meta di mercanti provenienti da ogni parte del mondo per fare fortuna. Ma alla prosperità, si sa, si accompagna spesso la corruzione. In un’epoca in cui l’inganno, la malizia e la perversione prosperano al pari dell’arte e della filosofia, i lupi hanno vita facile. Sono individui spregiudicati, che si muovono famelici, fiutando le migliori opportunità per acquisire sempre più potere, coinvolgendo ignare pedine nelle loro oscure trame. Marco Gianetti è un assistente del Tintoretto; Ira Tabat un mercante ebreo; Giorgio Gabal lavora come apprendista di bottega; Giovanni Spoletto è un condannato senza appello. I loro destini stanno per piegarsi al volere di individui molto in vista, come il poeta Pietro Aretino, la cortigiana Tita Boldini e la spia Adamo Baptista. Il ruggito del leone di Venezia sembra essersi placato, ora che i lupi sono a caccia.
Come inizia.
Parte prima
Il burattinaio
Non temer; ché ‘l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
DANTE ALIGHIERI, Inferno, Canto VIII
La vita è un balocco di vetro; sembra
avere un valore inestimabile, quando
in realtà val ben poco.
PIETRO ARETINO
Prologo
Venezia, 1548
Un sussurro è pericoloso tanto quanto uno squillo di tromba, dicono, e a Venezia un sussurro continua a riecheggiare nella Repubblica per l’eternità. Aleggia tra i pali di legno che tengono a galla la nostra città. Si abbarbica ai frigidi gradini e con la sua lingua lappa le umide murature. Silenzio, dice, non parlare, sussurra e basta. Sussurra alle orecchie dei pesci e alle carcasse degli uomini annegati.
Non ho scoperto la verità se non parecchi anni dopo: era una questione di cui mio padre non parlava mai, ma sapevo che era il motivo per cui mi odiava, lo scandalo che mi tallonava, i mormorii che si affievolivano senza mai cessare del tutto. Mia madre aveva diciotto anni quando mi diede alla luce e ne aveva diciotto quando morì. Una settimana tra il parto e il momento in cui perse la vita. La trovarono impiccata, la sottoveste sporca di sangue. I piedi ciondolavano a una sola spanna da terra, la finestra aperta, e le campane della chiesa rintoccavano per dare il loro esuberante annuncio pasquale mentre i suoi occhi spalancati fissavano il vuoto, il bianco iniettato di sangue, il corpo che dondolava leggermente dalla trave. Il latte che avrebbe dovuto nutrire suo figlio trasudava dal cotone della sottoveste, creando aloni delle dimensioni di un piattino, e attorno al polso sinistro c’era un livido, indaco, che si scuriva fino a diventare color melassa.
Questo è ciò che mi dissero.
Questo è ciò a cui avevo creduto.
Il medico diceva che mia madre era stata colpita da un’encefalite: “febbre da latte”, come la chiamano alcuni, una pazzia temporanea. Era talmente disturbata che si era tolta la vita, allontanandosi da Dio e facendo cadere in disgrazia la famiglia Gianetti. Dicevano che il suicidio per lei era stato una benedizione, una via di fuga dal dolore.
Nei sogni, però, la sento rantolare, vedo le mani che artigliano il cappio attorno al collo, i piedi che sussultano e fremono, calciando l’aria secca, la vescica che si svuota mentre sta soffocando.
È stata colpa mia. Se non mi avesse partorito, non si sarebbe mai uccisa. Io ero la larva nel suo ventre, il tarlo nella sua mente; io ne sono stato la causa, e mio padre me l’ha ricordato ogni giorno della mia vita.
Capitolo uno
Per il resto, i suoi rapporti con i potenti si riducono a
mera questua e volgare estorsione.
Jakob Burckhart riferendosi a Pietro Aretino
Basilica di San Marco, Venezia, 1549
Camminava con i piedi rivolti all’infuori, la tipica andatura di un obeso, le braccia che oscillavano lungo i fianchi come remi di una barca e smuovevano l’aria torrida a mano a mano che attraversava piazza San Marco. Pietro Aretino, ciarlatano, confidente di Tiziano, puttaniere, pornografo e uomo di lettere conosciuto in tutta Europa come “il flagello dei principi”. Quando entrò in chiesa, avvertì una presenza alle sue spalle e si voltò mentre intingeva le dita porcine nell’acquasantiera.
«Signor Battista», salutò Aretino prima di farsi il segno della croce, ostentando fin troppo il gesto. «Avevo sentito dire che eri andato a Firenze».
«È stata una visita breve».
«Sei andato a trovare la tua famiglia?»
«La mia famiglia è di Firenze, sì, ma ero là per un’altra ragione».
Aretino diede un rapido sguardo al fianco di Battista. Il pomello dorato della sua spada scintillava, baciato dalla luce che filtrava dalle grandi vetrate della chiesa.
«Adamo, hai trovato un impiego per la tua “amica”?»
«È raro che la mia amica resti a lungo con le mani in mano», replicò lui, l’ovale del viso perfettamente rilassato, appena rasato, gli occhi scuri indecifrabili.
“Infido bastardo”, pensò Aretino, raggiungendo una panca con la sua camminata a papera proprio nel momento in cui il coro iniziò a cantare. La sua attenzione si spostò subito sul giovane solista, poi si concentrò su un uomo dall’espressione austera seduto nelle prime file. Barent Der Witt alzò gli occhi, come se si fosse sentito osservato, e ricambiò l’espansivo saluto dell’altro con un brusco cenno del capo.
«Dicevi di avere delle notizie per me?», sussurrò Aretino a Battista mentre prendevano posto davanti alla comunità di fedeli.
Chiunque avrebbe potuto vederli, ne era consapevole, ma la sua presenza era un promemoria per tutti coloro che lo temevano, e a Venezia se ne contavano a centinaia. Badava bene ad accaparrarsi ogni menzogna, ogni segreto, ogni insulto. Si era fatto un pallottoliere personale per i peccati: file di ripicche meschine, il cui numero era andato ingrossandosi con calunnie, crimini, depravazioni, persino l’omicidio. Il ricatto era la sua specialità: entrare in possesso di informazioni talmente compromettenti che qualsiasi uomo – e qualsiasi donna – sarebbe st stato disposto a pagarlo pur di comprare il suo silenzio. Svenava impunemente la nobiltà, svuotandone i forzieri. E quelli dei re.
Aretino si sistemò gli abiti, l’ampio mantello color prugna sopra le vesti nere. Il letterato era infastidito dal fatto che Battista fosse così slanciato e muscoloso; sembrava incapace di prendere chili con i dolciumi e la frutta candita che Aretino divorava con tanta ingordigia. Era anche invidioso della sua insensibilità al caldo: nel bel mezzo dell’estate veneziana, Battista era sempre impeccabile, gli abiti mai macchiati da chiazze di sudore. Le stesse chiazze di sudore che Aretino faticava a nascondere sotto strati di lino pregiato comprato dai mercanti egiziani.
Pietro Aretino poteva anche incutere timore alla gente, ma Madre Natura non ne era affatto impressionata.
«Hai delle notizie per me?», ripeté. «Si tratta del ritorno dell’olandese qua a Venezia?»
«No, non si tratta di Der Witt».
«Di chi, allora?»
«Gilda Fasculo».
Aretino si strinse nelle spalle massicce e, quando allungò il collo verso Battista per replicare, quasi gli sfiorò con la testa i capelli lucidi come la pelliccia di una lontra. «Chi è Gilda Fasculo?»
«Un’usuraia del ghetto ebraico».
Aretino gonfiò le gote e per un solo istante puntò gli occhi sul prete prima di tornare a concentrarsi sul giovane solista del coro. «L’usura è proibita a Venezia».
«Lei non la chiama usura».
«Un gatto è un gatto, se miagola».
«A meno che non gli abbiano insegnato ad abbaiare».
Aretino rise, una risata bassa, gutturale. «Una donna, hai detto?». Si soffermò a riflettere un momento. Il ghetto, che era stato istituito nel 1512, da principio non aveva riscosso il suo interesse. Poi, quando la presenza degli ebrei si era consolidata, era diventato curioso di scoprire qualcosa in più sul loro leggendario acume per gli affari. «Permettono a una vecchia megera di gestire i loro affari? Cos’è, tutti gli ebrei maschi sono diventati eunuchi di punto in bianco?»
«Gilda Fasculo è molto qualificata e ha chi la sostiene».
«Non la Repubblica…».
«La Repubblica, signore, è docile quanto una sgualdrina alle prime armi», replicò Battista.
«E chi sarebbero i protettori di questa sgualdrina alle prime armi?»
«I suoi figli, Federico e Angelo».
«Bambini!».
«Ventenni, uomini fatti e finiti. Appena arrivati da Firenze insieme alla madre». La voce di Battista era un brontolio sovrastato dai canti del coro e, mentre continuava a spiegare, Aretino seguì con attenzione ogni sua parola. «Morto il padre, sono venuti qua al ghetto in cerca d’asilo».
«Il padre faceva lo strozzino?»
«Era un mercante ed è morto improvvisamente…».
«E ha lasciato la famiglia senza un soldo?»
«Doveva denaro e merci a parecchie persone. Ecco perché sono scappati da Firenze, per sfuggire ai loro creditori».
Aretino gli diede un colpetto sul ginocchio; sapeva che Battista detestava quel tipo di contatto. «E tu, mio caro Adamo, sai chi sono questi creditori?»
«Credo di sì».
«Lo credo anch’io», replicò Aretino. «E naturalmente quei poveri creditori sarebbero lieti di sapere dove, e da chi, potrebbero recuperare i loro soldi e le loro merci. Certo è che se la signora, questa Gilda Fasculo, fosse davvero così abile a maneggiare il denaro, magari potrei tenerne conto. Potrei dimenticare i miei doveri nei confronti della Repubblica in cambio di una piccola commissione. In fin dei conti, a quella povera famiglia dovrebbe essere concesso un nuovo inizio».
Battista cambiò posizione sulla panca e scostò la mano di Aretino. L’avversione nei confronti del pederasta era surclassata dalla soddisfazione dell’essere un suo alleato e la sua spia più fidata. Inoltre, la sua utilità lo rendeva immune alle cattiverie del letterato. Aretino poteva anche sperare di controllarlo, ma non avrebbe mai potuto dare per scontata la lealtà di Battista, consapevole che le doti del fiorentino potevano essere impiegate altrove, al servizio del miglior offerente.
«Forse dovrei scambiare due parole con la signora?».
Aretino si accigliò. «Ma non in presenza dei figli».
«No, un incontro privato sarebbe più proficuo per tutti noi», confermò Battista prima di chinare il capo e scivolare via dalla panca.
«Oh, e un’altra cosa», sussurrò Aretino mentre afferrava il polso dell’altro con una mano nerboruta. «Scopri per quale motivo l’olandese è tornato a Venezia. Non mi fido di quell’arcigno speziale».
Capitolo due
Venezia era stata una delle più grandi potenze commerciali al mondo e le sue ricchezze erano state accumulate dai mercanti veneziani che avevano sfruttato le Crociate per rafforzare il loro diritto di precedenza. I crociati, politicanti nati, erano stati persuasi a eliminare i mercanti rivali a Costantinopoli e, come ricompensa per tale spietato attacco, si erano guadagnati passaggi sicuri verso il Medio Oriente e l’impero arabo.
La prosperità veneziana continuò a crescere, ma la sua supremazia non resse e, quando i portoghesi scoprirono le ricchezze delle Indie, i veneziani persero il monopolio sul traffico delle spezie. Così i giorni di gloria della Repubblica come potenza commerciale si erano conclusi, ma i veneziani, sempre pieni di risorse, trovarono altri modi per fare denaro. Furono aperti centri manifatturieri per produrre zucchero raffinato e sapone profumato e, a dispetto della notorietà di Firenze nel settore della seta, nel sedicesimo secolo la produzione veneziana sestuplicò, di pari passo con la manifattura di altri tessuti locali. Con lo sviluppo di nuove – e turpi – tecniche segrete per tingere i tessuti, affiancate in special modo dalla diffusione del celebre vetro di Murano, la fama della Repubblica crebbe a dismisura.
Tuttavia, malgrado i progressi nel settore manifatturiero e i continui – seppur limitati – scambi commerciali via mare, i veneziani divennero conosciuti soprattutto per la loro opulenza e gli sfarzi. Il cambiamento ebbe luogo nel giro di pochi anni e la Repubblica supplì a ciò che aveva perso in termini di beni materiali affermando la propria supremazia in campo artistico.
La merce di scambio privilegiata era la cultura. All’inizio del sedicesimo secolo, Venezia era già diventata famosa per i suoi libri e per le opere stampate, tomi ebraici pubblicati e distribuiti in tutta Europa, spesso negli stessi luoghi da cui gli ebrei erano stati costretti ad andarsene. Accettato il proprio declino come potenza marinara, Venezia trovò strade alternative per rifiorire e il governo revocò il divieto di fare teatro. Attori e musicisti furono improvvisamente liberi di esibirsi per la nobiltà e di farsi pagare per intrattenerla, e da lì a poco i mecenate investirono in commedie e spettacoli musicali.
Il sesso, come sempre, era un bene di consumo, prezioso almeno quanto le spezie e i fili d’oro. Le prostitute, che in una città che amava i piaceri della carne avevano sempre proliferato, ricadevano in tre categorie distinte. Le comuni passeggiatrici, le amanti mantenute dai mercanti e, sul gradino più alto, le cortigiane, donne acculturate che offrivano talenti musicali, gusto artistico e un acuto intelletto come portate secondarie al banchetto del loro erotismo.
Quell’insaziabile ed esigente fame di bellezza andava a braccetto con il talento. Tiziano era già famoso a Venezia, come lo erano stati i fratelli Bellini prima di lui, ma i pittori più giovani presagivano l’arrivo della loro occasione, e con quella si giunse anche a uno scontro tra titani.
Casa di Tintoretto, Fondamenta dei Mori
Quando Tintoretto si richiuse la porta alle spalle e lanciò un’occhiata al limitare del canale, la luce della torcia si rifletté in obliquo sull’acqua. Riusciva a sentire l’Adriatico, l’odore forte e pungente dell’ozono, ma era sempre meglio di quello dell’acqua stagnante e paludosa dei lunghi mesi estivi. Tenendo alta la fiaccola, si incamminò verso il ponte. La nebbiolina serale si arricciolava attorno agli edifici in pietra e l’aria umida creava un alone attorno alla torcia. Era un sollievo che le strade fossero così tranquille; Venezia si era surriscaldata ore prima e la tetra foschia era restia a dissolversi e costringeva la gente a restarsene in casa.
Sopra la sua testa, da un appartamento in alto, sentì provenire un sibilo musicale. Tintoretto non sapeva che tipo di musica fosse; immaginava provenisse da una lira, ma non ne era sicuro. Non aveva proprio tempo per la musica o per gli altri piaceri che Venezia aveva da offrire. E sapeva che non sarebbe mai diventato un favorito del doge, che le cerchie a corte non l’avrebbero mai adulato. Forse un giorno sarebbe entrato nelle grazie della nobiltà, ma solo di riflesso, soltanto perché un tempo era stato un allievo di Tiziano. Un allievo temporaneo di Tiziano.
Tintoretto si fermò ad ascoltare la musica, poi attraversò il ponte e si diresse verso l’ospedale, prendendo una scorciatoia per raggiungere l’ingresso sul retro. Passò davanti a una donna che lo guardava con curiosità e le rivolse un tacito cenno di saluto prima di allungare il passo.
«Mi stavo giustappunto chiedendo se saresti venuto», disse una voce stanca quando Tintoretto aprì le porte a doppio battente, il legno distorto e intaccato dai graffiti.
«Sei arrivato molto tardi».
«Ho perso la cognizione del tempo, caro dottore», replicò l’artista mentre infilava la torcia in un supporto vuoto ancorato alla parete e si voltava a guardare il medico.
Il suo viso era scuro come quello di una talpa, tinte forti impresse da più di ottanta torride estati veneziane, le guance scavate, gli occhi cascanti dietro gli occhiali dalla montatura nera. Anche se vestiva in modo sobrio, sfoggiava una gorgiera in stile spagnolo, il bianco punteggiato da pezzetti di foglie secche e con un forte profumo di sandalo. Era un lascito dei tempi della peste, quando i medici non dimenticavano mai maschere e mazzolini di fiori per prevenire il contagio, e nella vana speranza di arginare almeno un po’ del fetore.
«Dottor Norillo», esordì l’artista, ansioso di arrivare al dunque. «Ho una cosa per te…».
«Perché in cambio vuoi qualcosa da me?».
Tintoretto non era sicuro di aver capito cosa intendesse l’anziano, perciò continuò: «Ho una cornice per il ritratto di tua moglie».
«Che non è come se mi avessi portato del denaro».
«Mi hai chiesto un ritratto!», ribatté Tintoretto, infuriato. L’anziano dottore e lui si conoscevano da parecchi anni, ma il suo crescente prestigio non sortiva alcun effetto su Norillo.
«Peccato che un ritratto non sia né una lira né una sacca d’oro».
«Non ne resterai deluso», insistette l’artista, in imbarazzo.
«Sono già deluso. La mia vita è un incessante susseguirsi di delusioni», replicò il dottore. Recuperò la torcia di Tintoretto e gliela passò. «Andiamo, vieni con me. Muoviti!».
Dopo essersi accodato all’anziano, Tintoretto ripeté nella propria mente la conversazione appena conclusa. Il dottore lo stava prendendo in giro? Era serio? Era davvero deluso? Si trovava in difficoltà, una sensazione che gli era familiare e alla quale era abituato da tutta la vita. Come al solito, non era capace di decifrare il reale stato d’animo del medico. Maledicendo la propria stupidità, pensò a Tiziano e ai suoi compari, così a loro agio tra la gente, così bravi a leggere tra le righe e ad arrivare al nocciolo della verità.
Mentre seguiva il dottore, i pensieri di Tintoretto tornarono indietro nel tempo, al suo periodo di apprendistato. Suo padre, pur non avendo alcuna vena artistica, si era accorto del talento del figlio e l’aveva portato a conoscere Tiziano, il più grande pittore di Venezia. Si erano affrettati per le strade della città, superando ponti con gobbe simili a quelle dei cammelli e canali fumanti, finché non avevano raggiunto una villa imponente nel quartiere lagunare di Cannaregio.
I cancelli erano sorvegliati da due schiavi di colore vestiti di un giallo sgargiante, e c’era un orticello rigoglioso che declinava verso lo studio. “Guardami”, sembrava dire il palazzo. “Guarda quanto sono sfarzoso, quanto dev’essere affermato il mio proprietario. E tu ti presenti qui, con i tuoi calzoni logori e un padre tintore, con la speranza di essere accettato sotto questo tetto…”.
«Devi essere garbato, figlio mio. Hai capito? Tiziano è il più grande pittore di Venezia, se non addirittura d’Italia», gli aveva sibilato suo padre all’orecchio mentre entrambi osservavano con attenzione la figura che si stava avvicinando.
Alto poco meno di un metro e ottanta, Tiziano indossava calzoni al ginocchio e una camicia bianca, con le maniche arrotolate fino ai gomiti. Le braccia robuste erano pulite, senza le classiche macchie di colore tipiche di quasi tutti gli artisti, i lineamenti del viso raffinati, la barba biondo rame tagliata corta, gli occhi inaspettatamente celesti. Il suo aspetto fisico era stato una sorpresa per Tintoretto; avrebbe potuto essere un ricco mercante, un banchiere al palazzo del doge o persino un elegante cardinale, ma non un pittore. Non era il tipico artista trasandato e con la testa tra le nuvole che gestiva i forsennati ritmi di lavoro di uno studio e girovagava per Venezia con la sua cartella di cuoio sottobraccio in cerca di nuovi committenti.
«Benvenuti», li aveva accolti con gentilezza prima di spiegare con tono autoritario che era occupato con numerose commissioni per il doge e per la corte e che non aveva bisogno di altri apprendisti.
«Ma, signor Tiziano, mio figlio ha talento…».
«Non ne dubito, ma non basta il solo talento per avere successo a Venezia», aveva replicato l’artista mentre sfogliava gli schizzi che gli erano stati consegnati. «Ci sono tanti pittori competenti in città».
Ma il padre di Tintoretto non si era mai lasciato intimidire da nessuno. Nemmeno dall’artista di maggiore spicco della Repubblica.
«È velocissimo. Lo chiamiamo Il Furioso, tanto è rapido. Riesce a dipingere un’intera parete nel tempo che a qualsiasi altro uomo servirebbe per riprodurre alla meno peggio la testa di un bambino. La gente viene a vederlo all’opera». Aveva dato una gomitata al figlio. «Fai vedere al maestro di cosa sei capace. Mostraglielo!».
«Mostraglielo?».
Sospirando, suo padre gli aveva messo in mano un foglio e un carboncino. «Disegna qualcosa, ragazzo!».
L’apprendistato che ne era derivato era stato motivo d’esultanza per il padre di Tintoretto. Era un tintore e ai suoi occhi il successo del figlio era da considerarsi un vanto per tutta la famiglia. Ma non era durato a lungo e i rapporti con Tiziano erano giunti a una brusca e singolare battuta d’arresto. E in quell’occasione i disegni di Tintoretto non avevano giocato a suo favore.
Ricordava quel giorno, il sole caldo e accecante, il mare privo della consueta linea di demarcazione all’orizzonte. Come al solito, era arrivato allo studio di Tiziano poco dopo l’alba e aveva scambiato due parole con il cuoco appena tornato dal mercato. Con i disegni sottobraccio, si era guardato allo specchio nel corridoio che portava allo studio. I suoi capelli ricci sembravano impolverati, lo sguardo provocatorio, quasi ostile. Sorpreso, aveva addolcito l’espressione ed era uscito nel cortile con i mosaici in marmo per andare a spalancare i cancelli in ferro battuto dello studio.
L’odore di colore era forte e si confondeva con la puzza di vino rancido e con le intense fragranze dell’oleandro e dei fiori d’arancio. La sera prima doveva essere stato un profumo paradisiaco, ma ormai era diventato stantio, quasi acidulo. Mentre i suoi occhi si abituavano alla penombra nella stanza con gli scuri chiusi, Tintoretto era inciampato su un cagnolino ed era quasi andato a sbattere addosso a una donna di colore che portava una cesta di frutta. Senza incrociare il suo sguardo, la donna aveva tirato dritto, e all’improvviso il pittore aveva sentito una risata provenire da un’alcova protetta da una tendina.
«Quanto sei maldestro», aveva detto un uomo scostando la tendina. Poi era andato ad aprire gli scuri dello studio per far entrare la luce del giorno.
Tintoretto era diventato rosso in volto, chiaramente intimidito da Tiziano. Con le mani che gli sudavano, aveva appoggiato i disegni su un tavolo sotto la finestra sapendo che c’era qualcun altro dietro la tenda dell’alcova. Una donna? Forse, ma era improbabile. Tiziano, a differenza di molti altri veneziani, era fedele a sua moglie.
«Ho portato i disegni che mi avevate chiesto, maestro. E anche altri, molti altri».
Tiziano aveva dato una scorsa ai lavori, i penetranti occhi azzurri vigili, le sopracciglia sottili come lame che si inarcavano. «Così tanti? Perché così tanti?»
«Volevo… È solo che…». A Tintoretto si era incrinata la voce. La quantità era un peccato? Le parole del suo maestro erano un semplice commento o un rimprovero?
«Ero eccitato…».
«Sovraeccitato», aveva detto d’un tratto un’altra voce, e la figura corpulenta di Aretino era uscita alla luce. «Ti sei dato parecchio da fare». Aveva lanciato un’occhiata all’amico che esaminava i disegni senza dire una parola. «E come sono? Questa valanga d’espressività è degna d’elogio o il nostro piccolo tintore è stato fin troppo svelto e industrioso?».
Tiziano non aveva risposto. Si era limitato a sfogliare i disegni, uno dopo l’altro, poi da capo. Tintoretto aveva visto i disegni a carboncino prendere vita davanti ai suoi occhi, le donne che si muovevano, si abbracciavano, gli uomini a cavallo che saltavano e cadevano, e diverse raffigurazioni di Gesù Cristo risucchiate in una mischia convulsa.
«Ebbene, la solerzia ha davvero qualche affinità con il talento?», aveva insistito Aretino.
Ma Tiziano continuava a tacere.
«Oppure il talento dovrebbe essere soppesato e centellinato come un olio prezioso?». Sorridendo, Aretino aveva preso un’arancia da un vassoio pieno di frutta e aveva cominciato a sbucciarla mentre osservava Tintoretto. «Stai cercando di impressionare il tuo maestro, piccolo tintore?»
«Ho soltanto disegnato…».
«Soltanto disegnato?», aveva ripetuto Aretino. «Ma certo, si vede che vorresti essere bravo come Tiziano».
«Non riuscirò mai a essere tanto…».
Un rumore improvviso l’aveva fatto sussultare. Tiziano aveva richiuso di colpo la cartella del giovane e l’angolo di un disegno era rimasto intrappolato come l’ala spezzata di un uccello.
«Non posso insegnarti niente».
«Ma sono il vostro apprendista!».
«Non più, Tintoretto», aveva replicato Tiziano. «Non c’è niente che io possa insegnarti. Non hai bisogno di prendere lezioni da me».
Aretino si era zittito di colpo con la mezza arancia addentata in mano, gli occhi scaltri che si spostavano da Tintoretto all’amico e viceversa.
«Pensi davvero che questo ragazzino non abbia niente da imparare?», aveva chiesto poi con tono beffardo. «Tiziano, devi essere un po’ più compassionevole. Venezia non sosterrà in alcun modo un apprendista che è stato respinto dal tuo studio». Aveva rimesso quello che restava dell’arancia sul vassoio e si era pulito le mani su un canovaccio. La sua malizia si era ridestata come una fiammella, con un guizzo. «Tintoretto è un pittore mediocre… o un grande artista?».
Tiziano non aveva risposto. Non a parole. Aveva semplicemente voltato le spalle, a indicare che l’apprendista era stato congedato.
Il medico stava perdendo la pazienza e la sua voce stizzita riportò Tintoretto al presente. «Vieni, sì o no? Andiamo!», mugolò Norillo mentre apriva la porta di metallo borchiato in fondo al teatro anatomico. Era un posto che Tintoretto conosceva bene, la stretta anticamera dell’obitorio in cui c’era una sola lastra di pietra al centro. Attorno alla base correva una canaletta di scolo per raccogliere il sangue e un tavolo con vecchi strumenti da dissezione era addossato alla parete.
Erano passati quindici anni da quando Tiziano l’aveva cacciato via in modo tanto sbrigativo e, come aveva predetto Aretino, Venezia aveva espresso il proprio giudizio. Il doge e la nobiltà non avevano ben accolto il giovane tintore, e la sua mancanza di raffinatezza e buone maniere l’aveva escluso dalla vita di corte, un po’ come il suo talento aveva spinto il suo maestro a ostracizzarlo. Tiziano era il fiore all’occhiello di Venezia; Tintoretto non era che un brillante novellino. E tale era rimasto. Lui ammirava la genialità di Tiziano, mentre questi diffidava del Furioso ed era determinato – in combutta con il suo seguito – a negargli l’accesso ai mecenate e alla corte.
«Buon Dio, cosa le è capitato?», domandò Tintoretto non appena vide il busto mostruoso della donna che giaceva sulla lastra di pietra. Si coprì il naso con un fazzoletto. «È morta da un pezzo».
Il medico si strinse nelle spalle. «Ti avevo chiamato ieri. Se fossi venuto subito non avresti sentito alcun odore. Siamo in estate e il ghiaccio costa. La prossima volta vai a Padova», brontolò. «Io mi faccio in quattro per te. Se mi scoprono, mi puniranno. Sto mettendo a rischio la mia reputazione per aiutarti, Tintoretto, e lo faccio da anni. Ma tu mi hai mai ringraziato? E come mi ripaghi per le mie gentilezze? Con un dipinto!».
«Un ritratto di tua moglie», replicò Tintoretto mentre girava attorno al cadavere mutilato. «Norillo, non puoi essere rimasto deluso dal risultato. Dico bene?»
«La natura non l’ha resa attraente, ma tu ci sei riuscito», concesse a malincuore il medico. «Ieri sera quella stronza mi ha permesso di entrare nel suo letto per la prima volta dopo non so quanti anni». Osservò il cadavere e incrociò le braccia. «Vieni qui da parecchio tempo. Direi che a quest’ora dovresti conoscere l’anatomia umana in modo abbastanza approfondito. E ormai sei diventato famoso in tutta Venezia, anche se alcuni dicono che stai approfittando del fatto che Tiziano non è in città. Dicono…».
«Non dicono un bel nulla», lo interruppe Tintoretto. «Mi serve più luce. Solleva quella lanterna».
«Tiziano è in Germania a lavorare per il re».
«È un grandissimo pittore».
«E ti ammira», disse Norillo mentre sollevava la lanterna. «Altrimenti anni fa non ti avrebbe mai cacciato via. Tiziano non ama la competizione».
Tintoretto diede le spalle all’anziano dottore. «Non ha niente da temere…».
«Bugiardo!», replicò Norillo prima di aggiustarsi gli occhiali e fare spallucce. «Nessuno viene a Venezia con l’intenzione di fallire».
«Io non sono venuto qui. Sono nato in Lombardia, che fa parte della Repubblica».
«Quindi è tuo dovere avere successo!», esclamò il medico, poi ammorbidì il tono. «Ho visto il tuo dipinto alla Scuola Grande di San Marco, il Miracolo dello schiavo. C’era un bel po’ di gente in fila per ammirarlo. Lo guardavano e si chiedevano come fossi riuscito a dipingere corpi così reali, così solidi».
«Ho usato dei modellini, delle statuette», ammise Tintoretto, che malgrado tutto era lusingato. «Vedi, le ho modellate con l’argilla e ho creato una composizione per capire come sarebbe venuto il dipinto». Prese un bisturi e incise il collo della donna morta dall’orecchio destro alla clavicola. «Poi ho messo le statuine di argilla in una cassetta e ho acceso alcune candele per illuminarle e vedere quale sarebbe stato il risultato a quadro finito…».
«Come un bambino alle prese con un gioco».
Tintoretto annuì. «Sì, come un bambino alle prese con un gioco». Si chinò sul cadavere e studiò la giugulare esposta, poi aggrottò la fronte. «Ma a volte ho bisogno di vedere un corpo vero per ribadire a me stesso… per essere sicuro di avergli reso giustizia. C’è sempre qualcosa da imparare». Fece un passo indietro. «Com’è morta?»
«Non per la peste», rispose ironicamente il dottore. Indicò il torace mutilato della donna, privo di braccia e gambe. «È stata assassinata. Smembrata. Che Dio abbia pietà della sua anima».
«Si sa chi era?»
«Non ne ho idea e nessun familiare è venuto a reclamarla».
«E nessuno sa chi l’abbia uccisa?»
«Non interessa a nessuno!», replicò il medico. «Il corpo è stato ritrovato nella laguna…».
«Così?».
Norillo fece cenno di sì. «Così. Quattro giorni fa. E l’hanno portato nella sala di anatomia dell’ospedale».
Tintoretto esaminò il busto della donna. «Le ferite in prossimità di braccia e gambe sono vecchie, non sono amputazioni recenti». Osservò le spalle e le cosce da cui erano stati rimossi gli arti, i muscoli ingrigiti, le ossa del colore del latte rancido.
«Infatti, non sono ferite recenti. A parte l’incisione che hai appena fatto tu», confermò il dottore con un cenno d’assenso. «Lo sai come funziona. Quando portano qui un corpo, lo lascio a disposizione degli specialisti nel teatro anatomico…».
«In cambio di un compenso?»
«Ovvio che chiedo in cambio un compenso! A Venezia si vende qualsiasi cosa. Sono un uomo anziano, devo provvedere ai bisogni della mia famiglia. Se dovesse accadermi qualcosa, voglio che loro siano al sicuro. Lo sanno tutti che razza di vita fanno i poveri qua a Venezia. Non voglio che soffrano», continuò Norillo con la sua voce lamentosa. «Ma con te corro dei rischi. I cadaveri dovrebbero essere usati soltanto dai medici, non da voi maledetti artisti».
«Da me intaschi più che dai medici. Il ritratto di tua moglie vale bei soldi, quindi non provare a ingannarmi, Norillo».
Preso in contropiede, il dottore fece spallucce. «Comunque sia, com’è che ti interessa tanto questa donna? La conoscevi?»
«Ha un’aria familiare», ammise Tintoretto. «Penso… forse ha posato per me un annetto fa. Non ne sono sicuro. È diversa».
«Chiunque sembrerebbe diverso senza braccia e senza gambe», osservò Norillo con sarcasmo. «Una cosa è certa, è annegata. Ma prima l’hanno fatta a pezzi. Chiunque l’abbia uccisa, l’ha torturata prima di gettarla nella laguna».
Tintoretto fece una smorfia, poi tornò a osservare il cadavere. «E nessuno è venuto a vederla?»
«Nessuno».
«In quattro giorni, nessuno è venuto a reclamare il corpo o a esaminare il cadavere?»
«Te l’ho appena detto, non è venuto nessuno». Norillo esitò e, quando una corrente d’aria entrò nella camera mortuaria umida e buia, la torcia avvampò.
Agli occhi di Tintoretto, la titubanza del medico valeva più di mille parole. «Chi è venuto a vedere il corpo?»
«Non sono nella posizione per potertene parlare», mugugnò Norillo mentre spostava il peso da un piede all’altro.
«Chi è venuto?»
«Che importanza ha?»
«Chi?»
«Pensava di conoscerla, ma non era così…».
«Chi lo pensava?»
«Battista. Adamo Battista».
Il nome si rapprese nell’aria impregnata d’umidità; fece rabbrividire l’anziano medico e mise a tacere Tintoretto. Adamo Battista, artista, giocatore d’azzardo e spia di Pietro Aretino, un fiorentino che si muoveva per gli ambienti veneziani ed era diventato intoccabile. Un uomo sospettato di decine di crimini, sul quale i pettegolezzi spuntavano come funghi nel sottobosco. Un uomo che era sfuggito alle autorità grazie all’astuzia e alla protezione offerta dal dissoluto sacripante, Aretino.
In silenzio, Tintoretto tirò fuori un foglio di cartapecora e disegnò il torace mutilato della donna, poi il volto. Dedicò grande attenzione ai dettagli e buttò giù alcuni appunti sbrigativi sul colore delle ciglia, sulla scheggiatura che aveva su un incisivo e sul leggero avvallamento a entrambi i lati del naso. Una volta terminato, tornò a rivolgersi al medico, che stava battendo il piede a terra davanti alla porta, impaziente. «Cerca di farle avere una degna sepoltura».
Norillo scrollò le spalle. «La ragazza è destinata alla sala delle autopsie…».
«Non puoi evitarlo?», domandò Tintoretto.
Gli angoli della bocca del dottore si incurvarono in una smorfia. «No, non posso. Perché dovrei? I medici devono imparare, lo sai. Inoltre, prima d’ora non ti eri mai preoccupato per un cadavere…».
Tintoretto abbassò lo sguardo sulla ragazza sfigurata.
«Abbi un po’ di pietà. Non permettere che la facciano a pezzi. Non ha già sofferto abbastanza?». Rialzò gli occhi sull’anziano. «Lo sai cosa succederà. Quando avranno finito, se ne andranno e si metteranno a parlare di lei, descriveranno il suo aspetto, le cose che le hanno fatto. Diffonderanno i dettagli per tutta Venezia».
«Non sono cose che mi riguardano», tagliò corto Norillo mentre ricopriva il cadavere con il lenzuolo. «Lei ormai non prova più nulla».
Tintoretto scosse la testa. «Se non puoi impedire l’autopsia, promettimi almeno questo. Quando avranno finito con lei, assicurati che riceva una degna sepoltura».
«Avrà dei costi…».
«Pagherò io!», esclamò il pittore. «E se torna Adamo Battista…».
«Senti, io non voglio avere problemi con quell’uomo», lo interruppe il medico. Era nervoso. «Come nessun altro. Non voglio averci niente a che fare».
Tintoretto gli diede una piccola pacca sul braccio. «Calmati, Norillo, non ti sto chiedendo niente del genere. Non c’è pericolo. Ma se Adamo Battista dovesse tornare, non dirgli che sono venuto qui. Hai capito?».
Il medico annuì.
«Non dirgli che sono venuto qui. Né oggi né mai».
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L’autrice
Alex Connor è autrice di thriller e romanzi storici ambientati nel mondo dell’arte, tutti bestseller. Lei stessa è un’artista e vive a Brighton, nel Sussex. Cospirazione Caravaggio, edito da Newton Compton nel 2016, è diventato un bestseller ai primi posti delle classifiche italiane. Con Il dipinto maledetto ha vinto il Premio Roma per la Narrativa Straniera. La Newton Compton ha già pubblicato la sua trilogia su Caravaggio e Goya enigma.
- I lupi di Venezia
- Alex Connor
- Traduttore: Tessa Bernardi
- Editore: Newton Compton
- Formato: EPUB
- Testo in italiano
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 1,43 MB
- Pagine della versione a stampa: 382 p.
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