Dalle icone bizantine alle tavole contemporanee: quando il gesto di raccontare per immagini tocca la soglia del sacro.

I PRIMI FUMETTI ERANO SANTI

l’invisibile raccontato per immagini

Redazione Inchiostronero

Un pomeriggio qualunque, davanti a un documentario sulla cultura cretese del Cinquecento, nasce una domanda inattesa: e se i primi fumetti fossero stati santi?
Da questa intuizione prende forma un viaggio appassionato tra arte sacra e narrazione per immagini. Attraverso icone bizantine, affreschi rinascimentali, graphic novel contemporanee e le tavole di autori come Gipi, Taniguchi, Zerocalcare e Art Spiegelman, il saggio esplora come l’atto di disegnare storie continui a sfiorare il sacro — anche senza proclamarlo. Un percorso originale che intreccia storia dell’arte, linguaggio visivo, memoria collettiva e riflessione poetica. Perché in fondo, ogni immagine che resta ci chiede di credere in qualcosa.


Il clic del pensiero

Era un pomeriggio scolorito, uno di quelli che sembrano disfarsi nel tempo ancora prima di finire.
In casa regnava il silenzio. Solo il fruscio lieve degli alberi nel parco davanti a casa, e il suono sommesso della televisione accesa.
Un documentario parlava della cultura cretese del Cinquecento, quando l’isola era ancora sotto l’influenza veneziana. Arte, fede, commerci. E icone.

Poi, un’inquadratura su una pala dorata: figure allungate, volti ieratici, mani che sembravano parlare senza muoversi. Cristo Pantocratore al centro, la Vergine in trono, i santi disposti come in una narrazione silenziosa.

E lì, come un clic, una domanda:

“Ma… non è che questi erano i primi fumetti?”

Non in senso offensivo, naturalmente. Anzi, come un’illuminazione. Quei dipinti, quelle icone, sembravano raccontare una storia in sequenza. Ogni pannello, ogni figura, era un frame. Ogni gesto codificato, un simbolo. La religione usava l’immagine come linguaggio, proprio come avrebbe fatto, secoli dopo, il fumetto.

Era come se la fede avesse inventato la narrazione visiva ben prima della carta stampata.

Il sacro che non cambia: nascita di un linguaggio condiviso

Guardando le icone — in Grecia, a Creta, a Ravenna o a Mosca — si ha la sensazione che siano state dipinte tutte dalla stessa mano, o almeno dallo stesso pensiero.
Sempre gli stessi colori. Sempre le stesse aureole. Le stesse pose, le stesse mani benedicenti.
Quasi un unico sguardo sul divino, come se l’intera cristianità avesse firmato un patto invisibile per rappresentare il sacro in un solo modo possibile.

E in effetti, è quasi così.

La simbologia dell’arte cristiana non nasce da impulsi individuali, ma da un lungo e profondo processo collettivo.
Le prime immagini cristiane — nate nel mondo romano — erano semplici e simboliche: il pesce, l’àncora, il pastore con la pecora sulle spalle. Poi, quando il cristianesimo diventa religione di Stato (IV secolo), le immagini devono diventare insegnamento.
Nascono così le prime regole non scritte, poi i codici precisi, che stabiliscono come raffigurare il sacro.

L’artista, in questo contesto, non è un creatore, ma un tramite.
La sua mano è guidata dalla tradizione, dalla liturgia, dalla teologia.
Ogni dettaglio ha un significato:

  • Il blu è il cielo, il mistero, il divino.

  • Il rosso è la vita, il sacrificio, il sangue e la regalità.

  • La mano benedicente dice «IO SONO», ripetendo il Nome di Dio.

  • L’aureola non decora: indica la santità, e quella di Cristo ha una croce interna che lo distingue da ogni altro.

Con il tempo, queste regole diventano veri manuali di pittura sacra (come l’“Erminia” bizantina), tramandati nei monasteri, nelle scuole iconografiche, nelle botteghe.

L’obiettivo non era stupire o innovare.
Era trasmettere fedelmente un messaggio eterno.
E per questo, ogni icona è diversa, ma tutte dicono la stessa cosa.

In un mondo senza stampa, senza fotografia, senza accesso ai testi sacri, l’icona era un piccolo Vangelo visivo, e la sua forza stava proprio nella ripetizione.
Riconoscere era più importante che sorprendersi.

È per questo che sembra tutto un “unicum”.
Perché lo era davvero: un solo linguaggio, molte mani.
Un solo messaggio, ripetuto all’infinito.

Dal sacro al sequenziale

Guardando quelle immagini, nasce spontanea la connessione.
Non è solo una provocazione intellettuale, ma una possibilità reale.
Gli storici dell’arte parlano di «iconografia», di «sintassi simbolica».
I teorici del fumetto, invece, parlano di «sequenzialità visiva», di «grammatica dell’immagine».

Stanno parlando, forse, dello stesso fenomeno: la capacità di raccontare attraverso immagini organizzate secondo un codice.

«L’icona è un’immagine che parla, come una frase in una lingua sacra», scriveva Pavel Florenskij, monaco, matematico e teologo russo del primo Novecento.E Scott McCloud, nel suo Capire il fumetto, definisce il fumetto «un sistema di comunicazione visiva che associa spazio e tempo attraverso immagini poste in sequenza».

Due epoche, due mondi, una stessa intuizione: il visibile che racconta l’invisibile.

I santi erano gli eroi.
Le parabole, gli episodi.
Il Vangelo, il soggetto ricorrente.

E come ogni grande fumetto, ogni tavola sacra portava con sé una morale, un invito, una rivelazione.
Non si trattava solo di decorazione: era una narrazione codificata, progettata per guidare, commuovere, convertire.
Un percorso visivo dall’ombra alla luce, dal dubbio alla fede — proprio come le tavole di un graphic novel che portano il lettore verso un finale che vuole “dire qualcosa”.

Fonti delle citazioni:

  • Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona

  • Scott McCloud, Understanding Comics (Capire il fumetto nella versione italiana)

Lettura simbolica delle immagini

Osservare un’icona non è un’esperienza passiva. È un atto di lettura.
Ma non una lettura lineare, da sinistra a destra come in un romanzo: è una lettura verticale, stratificata, dove ogni dettaglio è un segno, e ogni segno rimanda a un significato spirituale, culturale, teologico.

Nell’arte cristiana antica e medievale — e ancora nella scuola cretese del ‘500 — nulla è decorativo, tutto è parlante.

Il colore, ad esempio.

  • Il blu non è solo blu: è il colore del cielo, della trascendenza, del mistero divino. Maria, spesso rappresentata con un manto blu sopra e una tunica rossa sotto, incarna simbolicamente la divinità che riveste l’umanità.
  • Al contrario, Cristo indossa spesso l’opposto: rosso sopra e blu sotto, a dire l’umanità che abbraccia il divino. Un linguaggio, appunto, con grammatica e sintassi.

Le mani non riposano mai.

  • La mano benedicente di Cristo, con due dita sollevate (indice e medio) e le altre piegate, è un gesto che dice “IO SONO”, richiamando l’antico nome di Dio, ma anche la doppia natura (umana e divina).
  • I gesti dei santi indicano la scena principale o “narrano” la loro vicenda: San Pietro tiene le chiavi, San Paolo il libro, San Sebastiano mostra le frecce come medaglie di martirio.

Il nimbo, la forma circolare intorno alla testa, non è solo un’aureola decorativa: è il segno visibile della santità, come una specie di raggio X spirituale. Cristo, in particolare, ha sempre un nimbo con una croce inscritta — unica eccezione tra i santi — a dire che lui non è solo “vicino a Dio”: è Dio stesso.

Anche gli oggetti sono parole:

  • La croce è una firma.
  • Il libro aperto indica la Parola condivisa, chiuso è la Parola misteriosa.
  • Il giglio parla di purezza, la palma di martirio, il pesce di Cristo stesso (dal greco ichthys).

Persino il modo di guardare è carico di significato. Le figure sacre non ti fissano mai per caso. Ti guardano fuori dal tempo, con occhi grandi e quieti, come se volessero scavarti dentro. Non ti stanno “osservando”, ti stanno chiamando.

In questo senso, le icone non sono solo immagini: sono testi silenziosi, fumetti immobili che raccontano storie eterne. Non c’è bisogno di traduzione, perché il linguaggio del simbolo è universale — o almeno, lo era. Oggi ci serve una “guida alla lettura”, perché abbiamo perso l’alfabeto visivo di una volta.

Ma una volta imparato di nuovo a leggerlo, ci si accorge che quei santi, da fermi, si muovono. Parlano. Agiscono. Camminano sulle tavole come personaggi vivi.

E forse il paragone col fumetto non è solo legittimo, ma necessario.
Non per sminuire, ma per comprendere: l’arte sacra non era solo contemplazione — era narrazione. Era comunicazione visiva di massa, in un’epoca senza stampa, senza cinema, senza balloon.

Dall’eterno all’umano: l’evoluzione del sacro nel Rinascimento

Ma poi, arriva il Rinascimento.
E l’immagine cambia pelle.
L’uomo entra nel quadro.
E con lui entrano il dubbio, la bellezza, la luce, la morte.

Già Giotto, con la Lamentazione su Cristo morto (1305 ca.), preannuncia la svolta:
la Madonna che piange il Figlio ha un volto che non è più solo simbolo.
È un volto reale, tragico, umano, che introduce nella pittura il lutto come esperienza universale.
La scena resta sacra, ma ci riguarda.

Pochi decenni dopo, Masaccio dipinge la Trinità nella chiesa di Santa Maria Novella, a Firenze (1427 ca.):
è il primo esempio di prospettiva centrale applicata al sacro.
Il divino non scende più da un cielo d’oro, ma abita una struttura architettonica.
Un Dio geometrico, immerso in uno spazio credibile, costruito secondo le leggi della ragione umana.

Poi, con la “Deposizione” di Rogier van der Weyden (1435 ca.), la svolta è compiuta.
Cristo viene deposto con un realismo straziante.
Il suo corpo è pesante, abbandonato. Il volto della Vergine è quello di una madre che ha perduto tutto.
Il sacro si è incarnato del tutto, anche nel dolore.

La scena non è più una visione eterna: è un dramma condiviso.
Un’icona del pianto. Un altare della compassione.
E in tutto questo, la pittura non perde il suo valore sacro — lo sposta.

Tecnica: la prospettiva

Gli artisti cominciano a costruire lo spazio secondo leggi matematiche, basate su osservazione, geometria e ordine.
Le linee convergono verso un punto di fuga. Le figure si collocano in ambienti tridimensionali credibili, con proporzioni coerenti. Nasce così la prospettiva centrale, codificata da Filippo Brunelleschi e formalizzata da Leon Battista Alberti nel suo trattato De Pictura (1435).

Questa scoperta è molto più di un espediente tecnico: è una rivoluzione mentale.
Per la prima volta, il mondo rappresentato può coincidere con quello osservato.
E il sacro, che prima abitava fondali dorati e atemporali, entra nel nostro spazio, nel nostro tempo.

L’occhio si sente guidato, quasi accompagnato lungo la scena: lo sguardo viene condotto come da una regia invisibile, verso il centro simbolico della narrazione.
È il primo grande passo verso una vera messa in scena del sacro, dove ogni elemento visivo — scala, angolazione, luce, geometria — contribuisce a un’esperienza cinematografica ante litteram.

Pensiamo ancora a Masaccio, nella Trinità: il punto di fuga si trova all’altezza degli occhi dello spettatore, che così si trova idealmente dentro la scena, di fronte a Dio.
Lo spazio dipinto si apre come un teatro spirituale.
L’arte non solo rappresenta, ma dirige lo sguardo e costruisce un luogo mentale dove la fede si incarna in forma visibile e razionale.

Narrativa: il pathos

Dove prima c’era distanza, ora c’è coinvolgimento emotivo.
L’osservatore non guarda più da fuori: viene chiamato dentro la scena.
Il sacro non è più immobile e inaccessibile, ma vivo, carnale, vulnerabile.

Guarda la Crocifissione di Masaccio (ora perduta, ma documentata da fonti e copie):
Cristo non è più solo il Redentore impassibile: è un uomo trafitto, che soffre, il corpo piegato, il volto segnato.
Maria non è la Teotokos, madre simbolica di Dio: è una donna che sviene, sfinita dal dolore.
San Giovanni spalanca le braccia, le pie donne piangono. Il dramma è umano, teatrale, prossimo.

Il pathos entra nella narrazione sacra come motore narrativo:

  • Le lacrime non sono solo espressione, ma linguaggio.

  • I corpi non sono solo forma, ma storia vissuta.

  • Lo sguardo dei personaggi non si perde nel vuoto celeste: cerca quello dello spettatore.

È una nuova forma di narrazione, una regia emotiva del sacro, dove ogni gesto è pensato per creare risonanza nel cuore del fedele.

Questa è un’altra forma di “fumetto” — ma con codici nuovi.
Non più il simbolo eterno, ma il racconto incarnato.
Non più l’icona, ma la drammaturgia del sacro.

Il volto del Cristo non è più solo icona della divinità: è maschera tragica.
E Maria non è più solo intercessione: è testimone, carne che trema.

Il fedele, guardando, non deve solo credere.
Deve sentire.

Parentesi visiva: dal quadro alla cinepresa

Quella tensione emotiva che entra nelle tavole del Rinascimento — il corpo che soffre, il volto che piange, lo sguardo che cerca — non scompare con i secoli.
Semplicemente, cambia scena.

Nel Novecento, alcuni registi e artisti visivi hanno ripreso quella stessa grammatica del pathos, spostandola dal sacro al contemporaneo, dal quadro alla cinepresa, ma mantenendo identico l’effetto: coinvolgere, commuovere, scuotere.

Pier Paolo Pasolini

Nel suo Vangelo secondo Matteo (1964), Pasolini costruisce ogni inquadratura come una citazione pittorica.
Il volto di Cristo è quello di un giovane contadino, severo, mistico e umano.
I corpi sono composti come in un affresco toscano, e la luce taglia le scene come se stesse illuminando una pala d’altare.

In ogni gesto, in ogni lacrima, Pasolini non cerca spettacolo, ma verità spirituale. Il suo cinema è una liturgia laica, costruita sul modello della pittura sacra rinascimentale.

Carl Theodor Dreyer

Nel film La passione di Giovanna d’Arco (1928), Dreyer usa inquadrature fisse e primi piani estremi per raccontare il martirio.
Il volto di Maria Falconetti — che interpreta Giovanna — è una maschera tragica: gli occhi spalancati, le lacrime che non scendono, lo sguardo che buca la camera.
Tutto è ridotto all’essenziale: volto, silenzio, luce.

È come se Dreyer avesse preso un’icona bizantina, l’avesse spogliata dell’oro, e l’avesse lasciata viva, dolorante, nel bianco e nero del Novecento.

Teatro sacro contemporaneo

Nel teatro, artisti come Eimuntas Nekrošius o Romeo Castellucci hanno continuato questa ricerca, usando il corpo, il silenzio e l’immagine come strumenti di liturgia scenica.
In questi lavori, il sacro non è detto, ma messo in scena attraverso lo stupore, l’asimmetria, la lentezza.

Il pathos, quindi, non appartiene solo al passato.
È una forma narrativa che continua a camminare, a vestire corpi e storie diverse, ma sempre con lo stesso intento:
farci sentire il peso della carne, la luce dell’anima, il dolore che ci fa umani.

Il corpo come vangelo

Con il Rinascimento, anche il corpo diventa un linguaggio.
Non solo vesti e mani, ma muscoli, sguardi, gesti.
Michelangelo, con la Cappella Sistina, dipinge una Bibbia anatomica. Ogni figura è al tempo stesso narrazione, simbolo e spettacolo.

Il divino, che prima si mostrava come luce irreale, ora si incarna nella carne vera.
È un cambiamento radicale. Le immagini non servono più solo a istruire il fedele: servono a commuoverlo, coinvolgerlo, farlo entrare nella scena.

E questo, se ci pensiamo, è la stessa missione del fumetto moderno: creare empatia visiva, raccontare storie attraverso immagini cariche di tensione, azione, sentimento.

Il Rinascimento ha quindi traghettato le immagini sacre dal codice al vissuto, dallo schema alla narrazione, dal santo al protagonista. Ma la missione è rimasta la stessa: raccontare l’invisibile. Solo che ora, invece di essere fuori dal tempo, è entrato nella nostra realtà.

Il sacro che migra

Il linguaggio cambia. I supporti si evolvono. Ma l’istinto a raccontare per immagini — a costruire un mondo visivo che parli allo spirito — resta.
Quando l’iconografia religiosa ha perso la centralità culturale, non è morta: si è spostata. Ha migrato verso nuove forme di espressione, nuovi “templi”, nuovi codici.

Oggi, chi sono i nuovi santi?
Forse li troviamo nei supereroi. O nei personaggi dei manga. Figure archetipiche, dotate di poteri straordinari, spesso combattuti tra il bene e il male. Vivono drammi morali, cadono, si sacrificano, risorgono. Non è molto diverso dal martirio dei santi.

E non è un caso che autori come Scott McCloud o Will Eisner abbiano parlato del fumetto come di una forma d’arte sacra nel metodo: fatta di regole, di riti, di sequenze, di simboli.
McCloud scrive:

«Il fumetto è un sistema. Un alfabeto visivo. Un linguaggio silenzioso».
E in questa frase si sente un’eco lontana delle icone antiche: anche quelle erano linguaggio silenzioso, carico di significati.

La stessa tensione tra segno e significato, tra immagine e contenuto trascendente, continua.
Una tavola di Hugo Pratt con Corto Maltese in mezzo al deserto non è forse un’icona moderna?
Una splash page in cui Batman contempla Gotham dall’alto — non è forse una nuova forma di annunciazione?

Il sacro non ha smesso di parlare. Ha solo cambiato voce.
E forse, oggi più che mai, abbiamo bisogno di rileggere quei vecchi codici, per riconoscere i nuovi.

Il sacro nei tratti di oggi

Il sacro, oggi, non si manifesta più tra ori e icone, ma tra le pieghe dell’umano.
Non ha bisogno di aureole: a volte basta uno sguardo vuoto, un silenzio tra due vignette, una mano che tiene una fotografia strappata.

Nel fumetto contemporaneo, il sacro non urla: sussurra.

«Ogni disegno è una preghiera storta»

Lo dice idealmente Gipi — autore toscano che nei suoi lavori mescola memoria, perdita, rabbia e delicatezza. In “La mia vita disegnata male”, Gipi racconta la fragilità, il lutto, la malattia mentale, l’infanzia. Ma lo fa come un monaco laico, tracciando le sue icone sulla carta ruvida del quotidiano.

In “Unastoria”, il fumetto diventa davvero un’epifania, in cui presente e passato si fondono come in un trittico contemporaneo. Il dolore diventa sacrificio narrato, e le tavole si leggono come un salmo per immagini.

«Chi parla se non si può più parlare?»

Zerocalcare pone questa domanda implicitamente in ogni opera.
In “Kobane Calling”, il protagonista non è solo lui: è la coscienza occidentale, impacciata e fragile, che entra in contatto con la resistenza curda. Il viaggio verso il fronte siriano diventa una via crucis laica, tra domande morali, paure, e il peso di raccontare.
Il sacro è nei silenzi tra le battute, nella paura di tradire una verità.
E anche nel disegno caricaturale — apparentemente leggero — che rivela una densità etica sorprendente.

«Non vi sto raccontando questa storia per fare bella figura.
La sto raccontando perché sento che, se non lo faccio, cancello qualcosa che dovrebbe restare.»

(Kobane Calling)

«L’Olocausto come icona del Novecento»

Art Spiegelman, con “Maus”, realizza forse il fumetto sacro per eccellenza del nostro tempo.
Non per contenuto religioso, ma per il modo in cui racconta la trasmissione del dolore, la memoria come fede, il trauma come ereditarietà.
Il padre, Vladek, è un sopravvissuto. Il figlio, Art, è un testimone. Il lettore, un penitente.
Il bianco e nero, il tratto asciutto, i topi e i gatti: tutto si fa simbolo, tutto diventa rito di ricordo.

«Il silenzio come preghiera»

Taniguchi, maestro giapponese, usa il fumetto per elevare il quotidiano a spirituale.
In “Alcuni giorni d’estate”, “Il diario del mio padre”, “L’uomo che cammina”, ogni gesto — bere il tè, guardare gli alberi, camminare nel quartiere — diventa atto meditativo.
Non c’è bisogno di santi né di miracoli: la sacralità è nei gesti minimi, nell’accettazione del tempo, della perdita, della memoria.
Come nelle icone, i volti sono sereni, gli occhi quieti. Come in un sutra per immagini.

Il fumetto, oggi, non ha smesso di essere una forma di devozione. Solo che ha cambiato altare.
Non si prega più verso l’iconostasi, ma verso il vissuto collettivo, il ricordo, l’etica, il corpo ferito.
E se l’arte sacra voleva elevare l’anima, forse oggi il fumetto vuole proteggerla. Raccontarla. Farla resistere.

Tornare a guardare

E così, dopo aver camminato tra le tavole dorate di Creta, le cupole bizantine, gli affreschi rinascimentali, e le vignette di oggi, torno al punto di partenza.
Davanti a quella televisione, nel pomeriggio milanese.
Un programma sul passato, una scena d’arte sacra, un Cristo dipinto, e una domanda che ancora oggi mi risuona addosso come una campana sommersa:

«E se i primi fumetti fossero stati santi?»

Non è una provocazione. È un’intuizione.
Una traccia di significato che attraversa i secoli, una costante necessità umana: vedere per credere, vedere per capire, vedere per sentire.

Le immagini sacre di una volta non erano solo arte: erano parole senza voce, teologia silenziosa, fumetti dell’eterno.
E i fumetti di oggi, nella loro forma profana, incerta, fragile, continuano — a modo loro — quella missione antica:
raccontare l’invisibile, rendere visibile la coscienza, il dolore, la speranza.

Forse la differenza non è tanto tra sacro e profano, tra icona e vignetta, ma tra immagine che resta e immagine che scivola via.

E allora il punto non è se Zerocalcare somigli o no a un iconografo bizantino.
Il punto è cosa resta negli occhi quando chiudi il libro.
O quando spegni la TV.

Perché ogni immagine, alla fine, ci chiede una sola cosa:

«Vuoi credere in me?»

E la risposta, come sempre, non è scritta.
Sta nel silenzio tra una tavola e l’altra,
tra il gesto che guarda in alto e quello che cerca un volto.

🌒 Fine del saggio-immaginifico
“I primi fumetti erano santi”

 

Riccardo Alberto Quattrini

 

 

 

 

Elenco artisti, opere e collocazione attuale

Arte sacra e Rinascimento

Giotto di Bondone

    • Opera: Lamentazione su Cristo morto Anno: circa 1305 Tecnica: Affresco Collocazione: Cappella degli Scrovegni, Padova, Italia Dettagli: Parte del ciclo della Vita di Cristo. Una delle prime rappresentazioni emotive del dolore sacro.

Masaccio

    • Opera: La Trinità Anno: circa 1425–1427 Tecnica: Affresco Collocazione: Basilica di Santa Maria Novella, Firenze, Italia Dettagli: Primo uso consapevole della prospettiva centrale nella pittura sacra.

Masaccio

    • Opera: Crocifissione (Predella del Polittico di Pisa) Anno: 1426 Tecnica: Tempera su tavola Collocazione: Museo di Capodimonte, Napoli, Italia Dettagli: Esemplare significativo di pathos pittorico nella prima metà del Quattrocento.

Rogier van der Weyden

    • Opera: La Deposizione (The Descent from the Cross) Anno: circa 1435 Tecnica: Olio su tavola Collocazione: Museo del Prado, Madrid, Spagna Dettagli: Capolavoro della scuola fiamminga. Forte impatto emotivo e composizione teatrale.

Andrea Mantegna

    • Opera: Cristo morto (Lamento sul Cristo morto) Anno: circa 1480 Tecnica: Tempera su tela Collocazione: Pinacoteca di Brera, Milano, Italia Dettagli: Famoso per l’audace scorcio prospettico e la crudezza del corpo di Cristo.

Donatello

    • Opera: Compianto sul Cristo morto Anno: circa 1460 Tecnica: Gruppo scultoreo in terracotta Collocazione: Basilica del Santo, Padova, Italia Dettagli: Intensa rappresentazione tridimensionale del dolore; pathos nella scultura.

Cinema e teatro (riferimenti artistici contemporanei)

Pier Paolo Pasolini

    • Opera: Il Vangelo secondo Matteo Anno: 1964 Location principali: Matera (Basilicata), Barile, Massafra Dettagli: Estetica ispirata alla pittura toscana del Rinascimento.

Carl Theodor Dreyer

    • Opera: La passione di Giovanna d’Arco (La Passion de Jeanne d’Arc) Anno: 1928 Formato: Film muto Attrice protagonista: Maria Falconetti Produzione: Francia Dettagli: Celebre per i primi piani statici e intensi, carichi di pathos spirituale.

Romeo Castellucci

    • Opera: Inferno, On the Concept of the Face, Regarding the Son of God, ecc. Formato: Teatro sperimentale/contemporaneo Produzione: Socìetas Raffaello Sanzio (Italia) Dettagli: Uso del corpo, dello spazio e dell’immagine come liturgia visiva.

Eimuntas Nekrošius

  • Opera: Hamlet, Faust, Il Cantico dei Cantici Formato: Teatro visivo e poetico Produzione: Meno Fortas (Lituania) Dettagli: Estetica rituale, elementi simbolici e lentezza come forma sacra.

📚 Breve bibliografia essenziale

🖼️ Iconografia e arte sacra

  • Emile Mâle, L’arte religiosa del XIII secolo in Francia – Un classico per comprendere i codici dell’iconografia cristiana.
  • Ernst Gombrich, La storia dell’arte – Per una panoramica accessibile e autorevole, utile anche per il passaggio al Rinascimento.
  • Nikos Hadjinicolaou, Arte e ideologia a Creta e Venezia – Approfondisce proprio il contesto storico della scuola cretese sotto Venezia.

✍️ Fumetto e narrazione visiva

  • Scott McCloud, Capire il fumetto. L’arte invisibile – Fondamentale per comprendere il fumetto come linguaggio e struttura.
  • Will Eisner, Comics and Sequential Art – Testo fondamentale sul fumetto come mezzo narrativo.
  • Thierry Groensteen, Il sistema del fumetto – Per chi vuole approfondire i meccanismi semiotici delle tavole.

📓 Fumetto d’autore contemporaneo

  • Zerocalcare, Kobane Calling – Testimonianza personale, giornalismo grafico e coscienza civile.
  • Gipi, Unastoria – Fumetto poetico e drammatico sulla memoria, il trauma e la narrazione interiore.
  • Art Spiegelman, Maus – Il fumetto-testimonianza per eccellenza sul dolore storico e personale.
  • Jirō Taniguchi, L’uomo che cammina – Meditazione visiva, spiritualità quotidiana.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Controllate anche

«DISFORIA DAL MONDO REALE»

Contro il riarmo, ma con lo spartito della NATO. …