” Si chiama tafofobia, dal greco Taphos che significa sepolcro, è la paura di essere sepolti vivi. Ma non era così colto da conoscerla Narseo Iannacore. Sa solo che un giorno toccherà anche a lui finirci dentro. Ma quel tormento lo possedeva ogni volta che costruiva una bara. Quell’ossessione lo perseguitava da quel lontano giorno che…
La premiata e conosciuta ditta d’Onoranze Funebri dei fratelli Narseo e Olindo Iannacore del fu Antimo e Siriano, è conosciuta in tutta la provincia di Enna. Massima discrezione e professionalità sono da sempre state il vanto della famiglia Iannacore. L’Agenzia offre tutti i tipi di servizi: si occupa di trasporto funebre nazionale ed internazionale, di disbrigo pratiche e documenti, affissione manifesti, nonché cremazioni ed esumazioni della salma o di manifesti funerari, biglietti di ringraziamento, pubblicazioni e addobbi floreali.
Narseo a differenza di suo fratello Olindo, insensibile e cinico, ha un solo e grande cruccio ogni volta che costruisce una bara. Narseo lo sa bene che un giorno toccherà anche a lui finirci dentro, ma quello che più l’angoscia è finirci non ancora del tutto morto. È un’ossessione che lo perseguita da quel lontano giorno, giorno in cui oltre a costruire la cassa, dovette parteciparvi al funerale. Era deceduto un suo parente un certo Didimo Nisticò, fratello di sua moglie Devota. A Cerami, quella giornata di fine febbraio s’incominciava a respirare un’aria dal sapore primaverile. La chiesa di Sant’Antonio Abate era gremita. Celebrava l’omelia il parroco don Adelmo Montanari. Quando il feretro s’incamminò lungo i filari dei cipressi, prospicienti il cimitero, mentre davanti all’auto, don Adelmo con i due chierichetti, salmodiava il rito funebre, Narseo, che era subito dietro il feretro, accanto ai parenti più stretti, gli parve di udire un qualche rumore provenire dalla bara.
«Hai udito?» domandò alla moglie Devota che gli dava il braccio. Lei, nemmeno gli diede retta, assorta com’era a guardare le punte dei cipressi. Il feretro entrò nel cimitero e si diresse alla tomba di famiglia dei Nisticò. La bara fu deposta su due cavalletti per il saluto finale prima di essere tumulata. Nuovamente Narseo udì quello strano rumore.
«Senti?» le disse alla moglie indicando la bara. Il canto melodioso degli uccelli che, celati, cinguettavano sui rami fece scuotere la testa a Devota, che alzò le spalle e corrugò le sopracciglia sbuffando. «Io di rumori, sento solo questi», disse e indicò con l’indice il cielo azzurro oltre i rami dei cipressi, pieni di passeri. Poi lo portò sulla punta del naso perché stesse zitto e ascoltasse le parole di don Adelmo. Quando, a fine omelia, alzò nuovamente il pennello dall’aspersorio per benedire, Narseo lo udì ben distinto.
«Qua c’è qualche problema», disse serissimo muovendosi verso la bara. Vi pose sopra l’orecchio e fece segno agli altri di tacere. Solamente il cinguettio gioioso e rumoroso dei passeri si udiva, per il resto silenzio.
Dalla cassa giunse un colpo secco, questa volta percepito da tutti.
«Mio Dio!» disse il curato, «presto, aprite la cassa!» Immediatamente i becchini accorsero con un paio di piedi di porco. Fecero leva e il coperchio saltò come un tappo di champagne.
Didimo Nisticò, di anni ottantasette, si mise seduto dentro la bara, bianco come un morto, ma non ancora morto, tirò un lungo respiro.
«Siri sarvati, siri vivu!» disse e subito diede un colpo di tosse. La moglie Trasea alzò la veletta nera, si portò il braccio sulla fronte e cadde a terra svenuta.
Da quel giorno, Narseo incominciò ad avere degli incubi che l’ossessionavano ogniqualvolta doveva costruire o vendere una bara. Il suo pensiero correva sempre a quel giorno. Guardava quel raso colorato che rivestiva le bare, e la sua ossessione aumentava incontrollabile, compulsiva. Il fratello Olindo per un po’ non se n’era accorto, ma quando gli comunicò che non riusciva più a lavorare, gli disse che si doveva pensare di fare qualcosa.
Ma cosa.
Olindo eliminò subito i medici, per lui erano al pari dello stregone Mimi Na Wewe della tribù africana di griama, di cui aveva letto recentemente un articolo. Gli propose quindi un semplice marchingegno capace di ridonargli la pace.
«A cosa ti riferisci?» gli domandò Narseo. Olindo gli chiese semplicemente se la sua ossessione era quella d’immaginarsi dentro a una bara ancora vivo. «Certo. È questa la mia ossessione.»
«Bene», rispose allora il fratello «ho quello che te la farà passare, solo udendo la mia idea».
Passò qualche giorno quando Olindo gli presentò un certo Zoilo Cutone, elettricista, magro come i fili che teneva nelle mani ossute. Chiese al fratello di seguirlo nel laboratorio dove costruivano le bare.
«Ecco», disse mostrando una bara aperta «guarda.» Narseo si affacciò sull’interno del catafalco.
«Beh?» chiese.
«Vedi questo pulsante?» gli domandò Olindo mostrandogli un aggeggio che gli ricordò le “perette” che ci sono nelle stanze da letto per accendere la luce dal letto. «Questo coso qua», disse facendolo roteare come un’elica «potrà servire per chiamare in caso uno venga messo dentro, non ancora morto. Hai capito?»
«Permettete?» domandò il Cutone. «Una volta messa la bara sotto terra, ci sarà un filo che uscirà dalla terra stessa, dove sarà collegato un campanello. Se il morto, non ancora morto, schiaccerà questo bottone», e prese in mano la “peretta” «farà suonare sopra un campanello. Ha capito?» Narseo asserì con la testa, anche se un lieve senso d’angoscia lo colse.
«Quindi, se ho ben capito, ci sarà come, diciamo, un citofono collegato con l’esterno. Giusto?»
«No!» disse Zoilo con l’indice magro rigido come una matita. «Non un citofono. Un campanello. Un semplice campanello.»
«Pensa Narseo, la tua ossessione diventerà un nostro motto: «“Morite tranquilli se così non fosse noi lo sapremo”.»
Il destino delle persone segue un sentiero tortuoso e sconosciuto, ma a volte è insito nei nostri sogni e nelle nostre ossessioni.
Narseo qualche mese più tardi fu travolto da un camion. In agonia all’ospedale da qualche giorno, spirò contento al pensiero della sua “peretta” tra le mani.