Era da parecchio tempo che doveva farlo
IL BUCO NEL MURO, STORIA CURIOSA DI UN VOYEUR
Era da parecchio tempo che doveva farlo. Sua moglie Giovanna gliel’aveva detto un sacco di volte. C’era qualcosa, oltre quel buco, che lo aveva affascinato da un po’ di tempo e non riusciva a staccarsene. Ma quella mattina si era detto che era venuto il momento di chiuderlo. Levato il brutto quadro che serviva a nasconderlo, aveva cominciato con il rimestare il gesso, e mentre se ne stava con la schiena piegata sul secchio, guardava di tanto in tanto quel piccolo foro poco più grande di una moneta d’argento.
Era sempre stato lì da quand’erano entrati in quell’appartamento sei mesi prima. Giovanna, fin da subito gli aveva detto di chiuderlo ma Enrico aveva aspettato. Era capitato un giorno, poche settimane dopo che si erano trasferiti che Enrico, solo nella casa, mentre traduceva un nuovo libro di un autore spagnolo, aveva udito quella voce provenire dall’appartamento attiguo.
«Lasciami ti prego!», aveva gridato una voce femminile. «Te l’ho detto mille volte che così non mi va.» Aveva finito col dire. Enrico si era alzato e aveva posato l’orecchio contro il muro. Poi aveva levato l’occhio e aveva pensato a quel buco. Così, aveva levato il quadro, e per la prima volta vi ci aveva guardato attraverso il buco. Riusciva a vedere parte della stanza. C’erano un letto e un grosso armadio con una specchiera contro una parete. La ragazza di cui aveva udito la voce era seduta sul letto e gli voltava le spalle. Aveva la schiena seminuda, ricoperta solamente da una maglietta chiara. Un uomo le stava accanto ma Enrico ne vedeva solamente una parte, dal busto in giù.
Era vestito.
La storia e gli incontri in quella stanza erano proseguiti molte altre volte. Via via si erano fatti più interessanti. Evidentemente era una classica storia extraconiugale, con lei amante e lui, più anziano, sposato e padre di qualche figliolo. Un giorno era pure riuscito a vederlo in faccia, aveva capelli brizzolati e un pizzetto bianco che gli contornava il mento appuntito. Quell’occhiata gli aveva confermato il suo pensiero. Era per questo motivo che Enrico non si decideva mai a chiuderlo.
Tutta colpa della curiosità che gli era cresciuta dentro, durante le sue noiose giornate di lavoro.
«Lo hai fatto?» gli chiedeva ogni tanto Giovanna. E lui trovava sempre una scusa per rimandare. E una scusa la trovava sempre per guardare, una volta che lei era uscita. Oramai la storia aveva preso tutti i contorni di un vero adulterio, con situazioni molto erotiche.
Lei un giorno l’aveva chiamato professore. Forse, aveva pensato Enrico, è un suo insegnante di liceo. Poco gli importava di quel particolare, anzi se ne compiacque con lui. A lui, traduttore, una storia così quando mai gli sarebbe capitata. Enrico, aveva preso l’abitudine di segnare i giorni in cui i due amanti s’incontravano. Il lunedì e il giovedì. Un giorno, mentre era concentrato sulla sua traduzione, udì delle voci concitate. Al momento non pensò nemmeno ai suoi vicini, non era il giorno convenuto. Poi quelle voci divennero urla. Allora si alzò e andò al quadro che tolse. Porse l’occhio in quella cavità e guardò curioso. Una donna vestita se ne stava accanto al grande armadio, lo specchio ne rimandava la sua figura avvolta in un tailleur grigio. Gesticolava verso la ragazza che se ne stava seduta sul letto con le mani sulla faccia.
«Sei una sgualdrina!», le urlò a un certo momento la donna, «come puoi andare a letto con un uomo che ti potrebbe essere padre?», le disse alzando il braccio che rimase sospeso nell’aria mentre la giovane ragazza si copriva la testa e attendeva di essere colpita. Poi udì la porta che si apriva.
Enrico trattenne il fiato e il quadro in una mano. Fermo come un geco alla parete, pensò che fosse entrata Giovanna e l’avesse sorpreso mentre spiava dal buco.
Niente di tutto ciò.
Era stata la porta dell’appartamento accanto a essere aperta e chiusa violentemente.
«Che ci fai qua?» aveva domandato la voce dell’uomo.
«Sei un maiale!» gli aveva risposto la donna in tailleur. «Lo sapevo che mi tradivi con le tue allieva, sporco pervertito, questa potrebbe essere tua figlia. Ma…» Questa fu l’ultima frase che Enrico udì prima di quello strano e sordo rumore. Era come quando si faceva battere la bistecca sul ceppo dal macellaio. Un tonfo sordo di carne maciullata.
Guardò meglio, muovendo l’occhio dentro quel buco, cercando nuove visioni, là dove la sua proiezione non gli permetteva. La donna di schianto cadde sul letto, molle come un burattino cui hanno tagliato i fili. La faccia sporca di sangue, gli occhi spalancati come a domandarsi cosa le fosse successo ma non avesse avuto il tempo di rispondersi.
Enrico fece un balzo indietro rovesciando un tavolino di cristallo, che provocò un rumore che a lui parve soverchiasse ogni cosa. Veloce prese il quadro e coprì il buco. Il cuore gli martellava nel petto. Mi avrà visto? Si domandò. Poi scosse la testa pensando come avrebbe potuto vederlo se si trattava solo di un buco.
Basta si disse. E da quel giorno non guardò più.
«Allora, lo hai tappato finalmente?» gli domandò Giovanna vedendolo sospeso come una statua con la cazzuola in una mano.
«Ecco, ora lo faccio», disse e guardò quel buco. Girò lo sguardo verso la moglie che era scomparsa dalla stanza. Lentamente si avvicinò a quella cavità da cui fuoriusciva una tenue luce come quella di una lucciola. L’occhio si posò leggero attorno al piccolo foro, come sull’oculare di un telescopio. Il bulbo si mosse più volte verso destra e sinistra alla ricerca di un’immagine, le orecchie erano tese nel percepire qualche rumore.
Nulla.
Fu come se gli avessero infilato un chiodo rovente nell’occhio. Gettò un grido disumano e se lo coprì con entrambe le mani, mentre il sangue gli usciva a zampilli attraverso le dita insanguinate.
Il quadro a terra raffigurante l’occhio monoculare di Magritte, con la sua bella pupilla nera e le sue belle nuvole bianche sull’iride azzurro; una stampa acquistata a un mercato, mentre monocularmente lo osservava. Sotto, beffarda, vi era scritto un aforisma di Alessandro Maroniti, critico d’arte che recitava:
“Per osservare un’opera d’arte occorre aprire gli occhi, per comprenderla bisogna chiuderli.”