”Estate del 1944 la guerra calpestava la terra di Langa. Caterina ormai adulta, ritorna con la memoria ad un episodio fantastico della sua infanzia, quando conobbe una masca che laggiù, nelle Langhe, vuole dire strega, e una strana creatura selvatica enorme e feroce, con occhi iniettati di sangue e il pelo ispido, con zampe grandi come quelle di un toro e il pelo ritto sulla sua schiena che sembrava che sotto di esso la carne fosse viva, senza pelle, rossa e pulsante, soprattutto dove c’era la grande macchia nera sul muso…
(vincitore della XXXVa edizione del Premio Cesare Pavese 2018)
MASCA GARIBALDINA
Racconto
di
Claudia Cravero
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È come quando una goccia di pioggia cade in una pozzanghera, e rimbalza. Acqua che smuove acqua.
Lo stesso è con i ricordi d’infanzia: talora riaffiorano improvvisamente, sollecitati dalla vista di un oggetto o da un profumo, e sono offuscati dal tempo e anche da quel consueto travisamento tipico dei fanciulli, i quali trasformano nelle loro menti fantastiche anche le cose più ragionevoli, rendendole improbabili o addirittura impossibili.
Gli eventi che mi accingo a raccontare si verificarono tanti anni fa, e non saprei dire se siano stati oggetto di fantasticheria o se sia stata realtà. Sta di fatto che furono allora per me del tutto straordinari e ancora oggi non vi ho trovato alcuna soluzione se non quella della loro più totale e meravigliosa singolarità.
Era l’inizio dell’estate del 1944 e la guerra calpestava la terra di Langa. Una guerra senza carrarmati e senza eserciti: erano i piccoli numeri a combattere sulle mie colline. I crucchi da una parte, che buttavano giù le porte ed entravano prendendo a calci persone e cose e sparando e bestemmiando; i partigiani dall’altra, che restavano nascosti e ogni tanto saltavano fuori e si sentiva uno scoppio da qualche parte. Non si capiva chi fosse il gatto e chi fosse il topo.
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A quel tempo io avevo sei anni ed ero magra come un chiodo, con ginocchia e denti così grandi che assomigliavo a una puledrina rachitica. Ero venuta al mondo dopo che mia madre aveva già sfornato altre quattro figlie femmine: Maria, per onorare Nostra Signora; Piera, che era il nome della sorella di mio padre morta da piccola per le febbri; Luisa, detta Etta, e Biaggia, detta Gina. La teoria di mio padre era che la moglie fosse buona solo a fare sansuve, sanguisughe, che le avevano succhiato tutto il meglio. Io avevo succhiato quel che era rimasto e doveva essere davvero poco, perché mia madre morì una settimana dopo la mia nascita e io presi a rimpicciolirmi e a seccare, come un rapanello se non lo si mangia appena colto. Nonna Lena si era detta convinta che avrei raggiunto presto sua nuora in Paradiso, ma io mi aggrappai alla vita con le unghie e con i denti che ancora non avevo e così, grazie al latte di Magna Tea, alle preghiere delle pie donne delle cascine e alle mie sorelle, che facevano i falò nell’aia sperando di richiamare la buona fortuna, me la cavai. E bene anche. Venni su sana come un pesce, solo piuttosto bruttina e con mille paure nel cervello: tutto mi terrorizzava, persino il vitello quando mi veniva incontro per leccarmi la faccia. Mia sorella Maria, più vecchia di me di dodici anni e che a sette ammazzava già i conigli e li pelava, mi raccontava delle storielle per farmi stare tranquilla, come quella del temporale, che in realtà era Dio che aveva il raffreddore e se mettevo fuori dalla finestra un bicchiere d’acqua con il bicarbonato tutto passava.
Ci era riuscita con tutto Maria, tranne che con gli aerei.
Quando arrivavano, gli aerei facevano un rumore che era peggio del russare delle mie sorelle tutte insieme: sembrava che il cielo dovesse esplodere e certe volte lo faceva sul serio. Allora c’era una sola cosa che mi toglieva la paura: la sottana di nonna Ninin.
Ninin sembrava una vecchia quercia, solida e rugosa, e, visto che ogni tanto aveva le gambe gonfie, si sedeva all’ombra, proprio davanti ai noccioli, e stava là tutto il giorno a sgranar piselli o a dormicchiare. Entrava in casa solo per mangiare e per dormire e nessuno tranne me passava mai di lì neppure per dirle di andare al Creatore. Era grossa grossa la vecchia Ninin e indossava una gonna gigantesca con due o tre sottovesti che la ingrossavano ancora di più, e non c’era niente di meglio contro gli aerei.
Quando li sentivo arrivare, lasciavo tutto e correvo come una spia verso la collina di Ninin, mi buttavo davanti alle sue ginocchia e lei alzava il primo cotin [1] e mi copriva la testa: io sparivo magicamente e nulla e nessuno mi faceva più paura. Lì sotto ero al sicuro.
Fu proprio durante un umido pomeriggio estivo che la faccenda della sottoveste e degli aerei ebbe la sua prima evoluzione e portò la mia storia a prendere sostanza.
L’aria era spessa, i vestiti si appiccicavano addosso, ed io ero dietro alla stalla, all’ombra, e osservavo una fila di formiche che sentivano la pioggia imminente e andavano e venivano come impazzite.
Ad un tratto arrivarono gli aerei.
Lasciai perdere le formiche e mi precipitai da Ninin, ma, quando arrivai in cima alla collina, dietro al suo ciabot [2] trovai solo la sedia vuota. Il rumore si avvicinava e io ero terrorizzata: le mie sorelle, che erano abituate a lavorare come uomini, erano tra i noccioli e mio padre era in paese e non c’era nessuno a togliermi la paura. Decisi allora di cercare Ninin in casa. Vidi che la porta era aperta ed entrai.
La stanza era grande e abbastanza buia, con le imposte chiuse e un intenso odore di legna bruciata e di erbe.
«Ninin, dove sei?» chiesi con un filo di voce. Gli aerei arrivarono e fecero tremare i vetri. D’istinto mi rannicchiai in un angolo e mi venne da piangere. Fu allora che sentii per la prima volta una voce che sarebbe diventata per me una consuetudine, anche se ancora non lo sapevo: era calda e bella e impedì alle lacrime di uscire.
Proveniva dalla stanza vicina, buia più di quella in cui mi trovavo. Non vidi chi aveva parlato.
«Ninin è a letto che ha i dolori. Che vuoi, Caterina?»
Sentire quel nome mi sorprese perché nessuno mi chiamava mai così: mio padre mi chiamava ratin, topolina; Etta e Maria mi chiamavano simpaticamente giariot mofì, che più o meno voleva dire piccolo topolino ammuffito; mentre per Gina e Piera ero un pasaròt, un uccellino, e basta. La nonna mi chiamava Nuccia. Ma io ero Caterina, come la mamma, e solo io sembravo ricordarmelo. Io e quella voce.
«Allora, cosa vuoi, Caterina?» insistette.
«Voglio Ninin.»
«Ma ti ho detto che non può.»
L’unica cosa che avevo ereditato da mio padre era la testa dura, per cui non mi mossi di un centimetro e chiesi:
«Tu chi sei?»
La voce non rispose subito. Solo dopo una pausa che mi parve lunga cento anni.
«Sono la figlia di Ninin. E tu sei la bambina che ha paura degli aerei.»
«Stanno ancora volando.»
«Li sento.»
«E non hai paura?»
«Io no. Vuoi una rustìa?»
La domanda mi colse di sorpresa. Ma la paura mi aveva fatto venire una fame da cavallo e allora mi staccai dalla parete e avanzai nella stanza. I miei occhi si erano abituati all’oscurità e così, quando la voce mi venne incontro, constatai che apparteneva a una donna piuttosto alta e robusta, con un seno prosperoso e belle gambe tornite. Era una sagoma che avevo già intravisto vicino alla casa di Ninin, ma non sapevo che ci vivesse.
Si voltò subito verso la credenza e così non la vidi in viso. Fu solo quando si avvicinò e mi mise sotto il naso un piatto con una fetta di pane sfregato con aglio e un filo d’olio che notai un particolare insolito: una grande macchia ruvida le copriva tutta la guancia sinistra, dall’occhio fino all’orecchio e giù fino al collo. Sembrava che ci avesse spalmato la marmellata di fragole. La stavo fissando, perché mi chiese:
«Ti fa senso?» e si sedette al tavolo. Anche io feci lo stesso.
«Solo un po’.»
«Lì è dove il diavolo mi ha fatto una carezza, sai?»
«E ti fa male?»
«Macché.»
Mangiai la mia rustìa d’aglio, lanciando ogni tanto qualche occhiata alla signora che mi guardava a sua volta. Gli aerei se ne andarono.
«Adesso puoi tornare a casa», osservò la donna, ritirando il piattino e dandomi di nuovo le spalle per sfaccendare. Non mi parve il tipo abituato a stare con le mani in mano né tanto meno a fare troppi complimenti.
«Posso tornare a trovare te e Ninin?» le chiesi, lì in piedi, con le mie grandi ginocchia e i miei grandi denti.
«Se ci tieni.»
«Mi piace qui.»
«Sei stupida o cosa? A nessuno piace qui.»
Di sicuro ho tantissimi difetti, ma stupida proprio non sono mai stata. Lei mi piaceva davvero, e mi piaceva il suo pane e anche la stanza buia. Però non risposi. Lei non si voltò. Mi disse solo:
«Se vuoi torna domani. Io mi chiamo Amalia.»
Capii che quello era un commiato e che dovevo davvero andarmene. Quando fui a casa tornai a giocare con le formiche e decisi di non dire niente ai miei, almeno non ancora. Dopo poco si mise a piovere.
Per buona parte di quella notte, mentre ero sotto le coperte e ascoltavo le mie sorelle grandi russare, ripensai alla figlia di Ninin e a tutte le domande che mi ero sempre fatta e a quelle nuove che mi erano salite nella testa dopo il nostro incontro: chi preparava da mangiare alla vecchia Ninin? Chi lavava e stirava i suoi cotin? Lei non ce la faceva a camminare molto bene, figuriamoci fare il bucato. E chi raccoglieva i piselli e l’insalata, dava da mangiare alle bestie, faceva la spesa in paese, coltivava l’orto? Tutto Amalia. Da sola. E poi, davvero quella voglia era la carezza del diavolo? A forza di pensare mi addormentai e sognai fragole e diavoli.
La mattina seguente tornai al ciabotdelle due donne, anche se in cielo non c’erano aerei. Ci tornai perché la faccenda mi incuriosiva: non avevo mai saputo che Ninin avesse una figlia, e nessuno ne parlava. E se lo facevano, dicevano cose che non capivo. Ma in fondo non me ne fregava poi un granché.
Entrai senza bussare e senza fare rumore. Amalia dava le spalle alla porta.
«Sei tornata.»
«Come facevi a sapere che ero io? Non ho fatto rumore apposta.»
«Volevi spaventarmi?»
Non sapevo cosa rispondere. La donna mi fece cenno di avanzare.
«Apri un po’ le imposte, che facciamo entrare il sole.»
Obbedii. La stanza sotto la luce sembrò subito più grande e notai cose nuove, che erano rimaste nascoste nel buio: al muro erano stati tirati degli spaghi e vi erano stati appesi a seccare mazzi di basilico, salea, timo, erba cipollina, menta e altre piante che non conoscevo. Su una mensola c’erano tanti barattoli di vetro pieni alcuni di frutta sotto spirito, altri di composta e di marmellate e altri ancora di cose che non avrei saputo dire.
«Vieni a vedere», mi sollecitò Amalia.
Mi avvicinai e vidi che stava confezionando dei piccoli sacchetti. Ne aprì uno e mi fece annusare.
«Che cos’è?» chiesi con le narici piene di quel profumo pungente.
«Qui dentro ci sono lavanda di Sale San Giovanni ed erba sira. Tengono lontano le tignole e la scalogna.»
«E qui invece?» chiesi indicando un altro sacchetto.
«Qui ci sono rosmarino, salvia e menta, che servono a combattere la stanchezza. In quest’altro c’è l’ortica che va bene contro i vermi.»
Tutte le erbe erano in piccoli vasi e Amalia prendeva un po’ qui e un po’ là e preparava i suoi sacchetti. Chiesi se ce n’era uno anche per le gambe di Ninin e Amalia mi disse che doveva ancora inventarlo. Poi mi mandò a salutarla. Ninin era a letto con un cuscino sotto le gambe e dei panni freddi che le coprivano le ginocchia. Stava bene e fu felice di vedermi. Era contenta che avessi conosciuto sua figlia perché era una brava persona e dovevo volerle bene. Poi però mi fece una richiesta che non capii bene:
«Non dire a nessuno che vieni qui e che vedi Amalia. Va bene, ratin?»
E si mise a dormire. Io promisi, anche se lei aveva già chiuso gli occhi, e tornai da Amalia, ma non le chiesi spiegazioni. Restai lì tanto tempo a guardarla fare sacchetti. Come promesso non feci parola con nessuno di lei e quando qualcuno mi chiedeva dove mi cacciassi ogni volta, rispondevo che andavo a giocare con la Bigia che abitava nella cascina vicina alla mia, che tanto era muta e non poteva smentirmi, o che andavo ad acchiappare pasarote farfalle con i figli dei Gavatorta. Ero attenta a non farmi vedere da nessuno. E nessuno mi scoprì mai.
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All’inizio trovavo molto difficile capire cosa girasse nella testa di Amalia: parlava poco, era ruvida come la corteccia e aspra come le ciliegie poco mature, ma era una donna senza ghirigori, un tipo pane al pane vino al vino insomma, e soprattutto sapeva cose che nessuno sapeva. C’erano giorni in cui non mi voleva intorno e altri in cui mi istruiva e mi dava anche qualche scappellotto se non ero attenta. Ad un certo punto non notai più la voglia sul suo viso e solo quando il sole la colpiva, raramente, coglievo il suo colore intenso e mi ricordavo della sua unicità. Col tempo imparai come si prepara la pomata per le scottature e quella per le punture di insetto; osservai Amalia fare impacchi alle gambe della vecchia Ninin con poltiglie puzzolenti e produrre piccoli pupazzetti con ramoscelli secchi e aghi di rosmarino per aiutare le donne ad avere figli. Ogni tanto veniva al ciabotqualcuno che voleva qualcosa: passavano da dietro e tenevano gli occhi bassi, si guardavano intorno con aria strana e appena avevano tra le mani il loro pacchetto scappavano via come se avessero la masca che li inseguiva.
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Masca. Questa parola la sentii per la prima volta alla fine dell’estate, quando, un sabato sera, io e mia sorella Gina tornavamo dai campi dopo aver tolto erbacce tra i noccioli. Gina era fradicia di sudore e io sporca come se mi fossi rotolata nel fango e ridevamo di quanto fossimo brutte e strampalate e dicevamo che non avremmo mai trovato marito in quello stato; d’un tratto, mia sorella divenne seria: stavamo passando davanti alla casa di Ninin e Amalia era fuori che ritirava le lenzuola. Gina disse solo:
«Guardala là, la masca della Langa.»
Poi mi afferrò per un polso e mi trascinò via e non volle parlarne più. Nessuno me ne parlò più. Capii che sull’argomento vigeva un divieto quasi sacrale, calato chissà come e chissà quando su Amalia, sulla sua voglia e sulle sue erbe. Tutti sapevano ma nessuno diceva niente. Almeno non a me. Decisi che lo avrei scoperto da sola nel modo che mi riusciva meglio, vale a dire osservando, e tuttavia non dovetti sforzarmi troppo, perché le circostanze volsero presto a favore della mia superba curiosità.
Nelle settimane che seguirono mi fu quasi impossibile andare al ciabot di Ninin perché nell’alta Langa si erano intensificate le operazioni dei partigiani e così donne e bambini venivano tenuti ben al sicuro nelle case per paura dei rastrellamenti tedeschi. Mio padre era sempre lì che non sapeva come fare a salvare la ghirba [3] e l’onore delle sue cinque figlie e si dannava l’anima perché né i partigiani né i crucchi ci andavano leggeri. Era arrivato al punto di far vestire le mie sorelle come maschi quando andavano per la Langa o al paese, così almeno – diceva– le avrebbero ammazzate da uomini. Ci era pure andata bene che, sebbene dilagasse la miseria e nonna Lena, che teneva a noi, fosse morta, nostro padre non ci aveva vendute, come era capitato al Poj [4] di Bossolasco o alle sorelle Gallo di Neive, finiti tutti al mercato di Alba. Il fatto è che mio padre aveva una paura boia del fantasma della moglie che venisse a prenderlo per i piedi perché aveva dato via le sue figlie e così vivevamo tutti insieme, cercando insieme di non morire di fame e di non farci prendere dai crucchi.
Io me ne stavo tutto il giorno in casa a guardare dalla finestra con un caldo tremendo e a lamentarmi. Allora Piera, per non sentirmi più, mi aveva trovato non so dove dei fogli e mi aveva appuntito dei carboni, e avevo preso a disegnare. Etta e Gina si occupavano delle faccende e invece Maria, che era forte come un toro, faceva andare avanti la cascina con mio padre. Alla fine dell’estate i campi erano persi e si tirava avanti con quel che davano gli animali e con quel che si recuperava qua e là. Paura, fame e rabbia divoravano la Langa.
Poi una notte cominciarono le stranezze che sarebbero culminate nel più grande evento fantastico a cui ebbi l’avventura di assistere.
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La prima volta fu l’ultima domenica di agosto: fuori la luna era grande e bianca e la sua luce mi svegliò. Avevo una gran sete e pensai di scendere in cucina a prendere l’acqua facendo attenzione a non svegliare mio padre che era steso davanti alla porta d’entrata abbracciato al fucile. Dormiva sodo e non mi sentì. La brocca e il secchio erano vuoti, così contravvenni agli ordini e uscii dalla finestra per andare alla pompa che stava in cortile.
Mentre tiravo l’acqua sentii un rantolo sommesso, mi voltai spaventata e vidi che un grosso cane mi osservava seduto sulle zampe posteriori: era tutto bianco tranne che per una macchia nera sul lato sinistro del muso. Il suo pelo lungo e folto brillava alla luna e i suoi occhi parlavano. Mi fissò per un tempo indefinito poi si allontanò da me, ma non andò via. Lo vidi avvicinarsi alla staccionata e stendersi a terra, con il collo e le orecchie belle dritte: si era messo a fare la guardia. Bevvi la mia acqua e tornai lesta in casa. All’alba il cane non c’era più.
Ma nelle notti seguenti tornai a sbirciare dalla finestra e il grosso cane era sempre là, fermo come una statua, e anche mio padre lo vide e disse che era meglio lasciargli fare il suo lavoro. Una notte sentimmo abbaiare e ringhiare, ma mio padre non fece in tempo a guardare che tutto era sparito. Sta di fatto che casa nostra non fu mai invasa né i nostri animali uccisi.
Le cose proseguirono così per un paio di mesi. Circolò la voce che tra ottobre e novembre Alba fosse stata liberata, ma non si era andati oltre perché le comunicazioni con la Liguria erano interrotte e i tedeschi si apprestavano a fare un grande rastrellamento per sgomberare i ribelli fino all’Astigiano. Molti nostri vicini si erano uniti alle bande armate e molti erano scappati senza lasciare detto nulla. Mio padre era intenzionato a vendere cara la pelle sua e delle sue figlie e così si procurò altri due fucili e munizioni e ci relegò in casa a tempo indeterminato. Perfino i bisogni dovevo farli nel secchio che poi una delle mie sorelle svuotava di fuori.
Non sapevo che fine avessero fatto Ninin e Amalia e le disegnavo felici dentro la loro casa a preparare pomate e intrugli. Nell’aria c’era tensione, era questione di giorni. Mio padre e le mie sorelle e la terra lo sapevano. Io lo sapevo.
E infatti tutto si compì in una nebbiosa mattina di novembre.
Fui svegliata presto da un grande fracasso. Mia sorella Maria mi strappò dal letto e mi portò di sotto. Le altre stavano spostando i mobili e creando delle barricate davanti alla porta e alle finestre. Avevano i fucili carichi.
«Se arrivano ci ammazzano tutti», continuava a ripetere Etta, la più paurosa.
«Sembra che stanotte abbiano dato fuoco a tre cascine dalle parti di Dogliani», riferì Piera che lo aveva sentito da Berto, che passava di lì ogni tanto con le nuove.
Avevo una gran paura ma credo che le mie sorelle ne avessero più di me: io non mi rendevo conto di quel che avrebbero potuto fare di noi i tedeschi se ci avessero trovate, ma loro sì. Il cane quella notte non si era fatto vedere.
All’improvviso si sentì il rumore di motori che si avvicinavano: erano le camionette tedesche che venivano a prenderci. Mio padre guardò dalla finestra e lo vidi sbiancare. Le camionette si fermarono in mezzo all’aia e quattro soldati armati scesero mentre altri quattro restarono al loro posto, in attesa. I primi si diressero verso la casa parlando a voce alta e ridacchiando.
Quel che accadde dopo è come un sogno: qualcosa udii, qualcosa vidi, qualcosa mi fu riferito da mio padre e dalle mie sorelle. Qualcosa forse ho immaginato.
Quando i quattro soldati furono a circa tre metri dalla nostra porta, improvvisamente un grosso animale si parò loro di fronte. Le mie sorelle urlarono all’unisono. Era lui, il cane con la macchia sul muso, ma era cambiato: adesso era enorme, con occhi iniettati di sangue e il pelo ispido e non assomigliava più ad un cane, ma poteva anche essere un lupo o una bestia non di questo mondo, tanto insolite erano le sue dimensioni e la sua selvatichezza e la sua ferocia. Le sue zampe erano grandi come quelle di un toro e il pelo era ritto sulla sua schiena e sembrava che sotto di esso la carne fosse viva, senza pelle, rossa e pulsante, soprattutto dove c’era la grande macchia. I quattro uomini indietreggiarono e abbracciarono i fucili, e uno di loro prese la mira e sparò e centrò la zampa sinistra della bestia, ma quella non parve neppure accorgersene e, anzi, si fletté sulle zampe posteriori e in un attimo gli fu addosso. La sua bocca sembrava una trebbia, che afferrava, strappava e dilaniava. In pochi secondi i quattro uomini furono fatti letteralmente a pezzi e ciò che restava di loro era sparso per l’aia. Allora gli altri quattro che avevano assistito alla scena, terrorizzati, misero in moto e tentarono di scappare, mala bestia con pochi balzi fu anche su di loro e anche quelli non ebbero scampo. Terminato lo scempio, la bestia si girò a guardare la casa e poi si dileguò nella nebbia. Mia sorella Etta è sicura ancora oggi di averla vista zoppicare: dopo tutto il proiettile aveva fatto il suo lavoro. Una camionetta si era ribaltata nel campo mentre l’altra era andata a schiantarsi contro la stalla. Ovunque c’erano sangue, ossa, brandelli di divise lacerate. Mio padre e le mie sorelle si erano ammutoliti e Gina aveva stretto talmente forte la mano intorno al fucile che le era diventata tutta bianca. Con movimenti lenti e tremanti, liberarono la porta e fecero una breve uscita per sincerarsi che non ci fosse più nessuno in giro, né uomo né bestia. Solo Piera rimase con me, per impedirmi di vedere il macabro scenario che era diventata l’aia. Non mi opposi perché non avevo bisogno di vedere: mi sentivo al sicuro e dentro di me sapevo che ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto, anche se avremmo dovuto attendere ancora un anno prima che la guerra trovasse una fine. Tuttavia quella mattina era successo qualcosa, non solo nell’aia ma anche nel cuore e nell’anima di tutti noi.
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Grazie a Gigi di Feisoglio, amico di famiglia e legato alle bande partigiane, venimmo a sapere che quel giorno fatale i crucchi e i fascisti erano avanzati sulle nostre colline con tre divisioni e che avevano fatto falò di alcune cascine e che avevano razziato bestiame e sequestrato e ucciso persone. Tuttavia la piccola fetta di Langa della mia famiglia era rimasta immune dal nemico, come accade per chi non si ammala quando tutti intorno si buscano l’influenza.
Per scongiuro rimanemmo barricati in casa ancora per qualche giorno, poi uscimmo, come le lumache dopo il temporale. Mio padre decise che io, Gina, Piera ed Etta dovevamo raggiungere Alba dove viveva suo fratello con la famiglia; lui e Maria sarebbero rimasti in cascina, perché, se anche il nostro pezzo di mondo era rimasto illeso una volta, non era detto che lo sarebbe stato sempre.
La mattina della mia partenza c’era il sole e mio padre non faceva che ripetere che dovevamo fare presto per evitare di trovare posti di blocco lungo la strada. Salimmo sul barroccio io, le mie sorelle e mio padre, e partimmo alla volta di Alba.
La strada correva proprio ai piedi della collina su cui stava il ciabot di Ninin e quando le fummo sotto alzai lo sguardo e vidi che Amalia era ritta in piedi nel punto in cui la terra comincia a declinare. Aveva il braccio sinistro legato al collo. Ebbi la certezza che mi stesse guardando e che sorridesse. Anche mio padre la guardò e anche lui sorrise. Ci seguimmo con gli occhi e con il pensiero fino a che il barroccio non ebbe svoltato e un’altra collina ci divise.
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Un racconto che si rispetti esigerebbe un finale un po’ drammatico e dovrei dire che Amalia scomparve e Ninin morì, così come qualcuna delle mie sorelle o mio padre… Ma non lo dirò perché non accadde nulla del genere.
Io e le mie sorelle rimanemmo ad Alba fino alla fine della guerra e poi, quando le campagne furono ripulite dai fascisti e dai crucchi, tornammo a casa. Maria e mio padre se l’erano cavata dignitosamente e così ci ricongiungemmo felici come pasque. Anche il cane con la macchia sul muso aveva fatto ancora un paio di comparsate durante l’ultimo anno di resistenza, per poi sparire del tutto.
Io ripresi la scuola e anche a fare visita alla vecchia Ninin, che era tornata a sedersi a rimirare i noccioli, ma ora non mi rifugiavo più sotto le sue sottane perché gli aerei non volavano più su di noi. Amalia non aveva più il braccio al collo e aveva ripreso a fare pomate, e la gente ora passava dalla porta principale e la salutava con un sorriso. Mio padre mandava alle due donne ogni settimana uova e burro. Le nostre colline prosperarono e così i suoi abitanti.
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La storia del cane, che io e le mie sorelle avevamo provveduto a raccontare e a colorire un po’, era diventata leggenda, ma nessuno faceva allusioni, nessuno faceva nomi. Perché la gente della Langa è così: capisce e si fa i fatti suoi. O forse quella fu davvero tutta una fantasticheria collettiva causata dalla guerra: forse quella mattina del 1944 fu la nostra paura a farci vedere la grande bestia; forse il cane che aveva deciso di proteggerci per tanto tempo e che aveva una macchia sul muso non era che un comune bastardo randagio che per un certo periodo aveva battuto le nostre terre in cerca di cibo e si era affezionato al nostro cortile; forse fu solo una coincidenza che il giorno successivo alla strage Amalia avesse il braccio sinistro al collo. Forse.
Comunque siano andati i fatti, dopo tanti anni di una cosa sono fermamente convinta: che la nostra grande madre Langa abbia voluto proteggere me e la mia famiglia con la sua nebbia e la sua terra e le sue creature, non importa se fatte di realtà o di illusione. La Langa era stata spezzata e calpestata, ma poi aveva reagito e le case erano state ricostruite e i buoni morti erano stati seppelliti e pianti e onorati. Quegli altri dimenticati. La Langa aveva in modi diversi preservato i suoi figli.
Figli che a modo loro avevano finalmente imparato ad essere riconoscenti.
[1] Cotin significa appunto sottoveste.
[2] Un ciabotè una piccola casa un po’ mal ridotta.
[3] Ghirba sta per “vita”, “pelle”
[4] Pidocchio, soprannome.
Pinuccia
17 Settembre 2018 a 22:49
Bel racconto impostato molto bene mi è piaciuto molto raccomando la lettura
Riccardo Alberto Quattrini
18 Settembre 2018 a 8:46
Grazie Pinuccia, lo girerò all’autrice.
Giuseppina DIEGOLI
19 Settembre 2018 a 9:17
Ok grazie