Howard Phillips Lovecraft, spesso citato come H.P. Lovecraft (1890-1937), è stato uno scrittore, poeta, critico letterario e saggista statunitense, riconosciuto tra i maggiori scrittori di letteratura horror insieme ad Edgar Allan Poe e considerato da molti uno dei precursori della fantascienza angloamericana. Le sue opere, una contaminazione tra horror, fantascienza soft, dark fantasy e low fantasy, sono state spesso descritte, anche da lui stesso, col termine weird fiction (dove weird sta per “strano”), venendo riconosciute tra le principali origini del moderno genere letterario del new weird.

 Uno dei maggiori studiosi lovecraftiani, S. T. Joshi, definisce infatti la sua opera come “un’inclassificabile amalgama di fantasy e fantascienza, e non è sorprendente che abbia influenzato in maniera considerevole lo sviluppo successivo di entrambi i generi”. Dal punto di vista del pensiero nei suoi racconti e saggi coniò la filosofia del cosmicismo, in conseguenza del suo ateismo e delle nuove scoperte scientifiche, e le sue idee in molti campi furono spesso controverse.

Inquietante e lucido, come la follia.

I ratti nei muri (The Rats in the Walls) è un racconto horror. Scritto tra l’agosto e il settembre 1923, fu pubblicato per la prima volta nel marzo 1924 sulla rivista Weird Tales.

 

Trama

I ratti nei muri è raccontato dal rampollo della famiglia Delapore, trasferitosi dal Massachusetts ad Exham Priory, l’ancestrale tenuta della sua famiglia in Inghilterra appena fatta ristrutturare. Qualche giorno dopo il trasloco il protagonista e il suo gatto preferito, “Nigger-man”, sentono degli strani suoni, come di topi che zampettano dietro ai muri. Si ripetono nelle notti seguenti, e nessuno sa spiegarsene la ragione. Dopo svariate indagini il narratore e alcuni scienziati (da lui chiamati sul posto per risolvere il mistero) rinvengono sotto un altare nei sotterranei una scala antichissima che sprofonda nel buio: discendendola giungono ad una terrificante città sotterranea. Da vari indizi scoprono che la sua famiglia si nutriva di carne umana, arrivando al punto di allevare uomini come bestiame, cosa che provocò poi una loro involuzione a causa delle mostruose condizioni di vita, trasformandoli in creature ibride che si muovevano a quattro zampe. Alla fine, il protagonista impazzisce per le rivelazioni sul passato della sua famiglia e – guidato dall’istinto derivatogli dalla propria cannibale eredità – uccide uno dei suoi compagni nel buio e inizia a divorarlo. Verrà poi rinchiuso in un istituto mentale. Il narratore proclama la sua innocenza, afferma che sono stati i ratti a mangiare l’uomo; continua infatti a sentirli zampettare dietro ai muri della sua cella. Si intuisce dal racconto come il cannibalismo e la follia finale del protagonista siano causati dalla presenza, nelle più oscure profondità della cripta, del dio Nyarlathotep, il cui piacere è condurre le persone alla pazzia. Nyarlathotep, adorato dai romani col nome di Atthis (o Ati), sposo della dea Cibele, è definito come “il dio folle e senza volto, che urla cieco nelle tenebre ed è accompagnato da due flautisti amorfi e idioti.”

Fonte Wikipedia

I RATTI NEI MURI

racconto

di

H. P. LOVECRAFT

 

 

Exham Priory, priorato di Exham. Mi trasferii il 16 luglio 1923 dopo che l’ultimo artigiano aveva finito i suoi lavori. Restaurarla era stata un’impresa biblica: ben poco, infatti, rimaneva di quella struttura abbandonata se non una vuota crisalide in rovina. Per contro, dal momento che si trattava della magione dei miei avi, non mi ero lasciato intimidire dai costi in alcun modo. Il luogo era disabitato fino al regno di Giacomo I, epoca in cui una tragedia pressoché inesplicabile di inaudita follia aveva causato la morte del proprietario. Di cinque dei suoi figli e di parecchi servitori. Il figlio terzogenito, unico sopravvissuto e mio diretto antenato di quella deviata progenie, era fuggito al massacro, ma comunque marchiato da un alone di sospetto e di terrore.

Con l’erede rimasto additato come assassino, Exham Priory tornò di proprietà della corona. Da parte sua, l’uomo accusato non fece alcun tentativo né di discolparsi né di riprendere possesso di ciò che gli apparteneva. Scavato nel profondo da qualche orrore addirittura più dilaniante della coscienza o della legge, esprimendo solo una disperata volontà di ergere una barriera tra l’antico edificio e la propria vita e i propri ricordi, Walter de la Poer, undicesimo barone di Exham, fuggì in Virginia, formando poi una famiglia che, a partire dal secolo successivo, fu conosciuta sotto il nome di Delapore.

Exham Priory rimase disabitata. In seguito, venne accorpata alla proprietà della famiglia Norrys e studiata con attenzione a causa della sua peculiare architettura composita.  Torrioni gotici si ergevano da una struttura sassone o romanica, le cui fondamenta originavano a loro volta da uno stile, o da un gruppo di stili, addirittura antecedente: romano o, se si vuole dare credito alle leggende, anche druidico o addirittura cimmerico primordiale. Le fondamenta erano qualcosa di davvero singolare. A proposito delle fondamenta c’è da osservare un fatto strano: su un lato formano, tutt’uno con la solida parete di calcare che piomba a precipizio nella valle sottostante, una landa desolata che si estendeva tre miglia a est del villaggio di Anchester.

Architetti e studiosi di antichità hanno sempre amato questa reliquia dei tempi perduti, ma la gente delle campagne la detesta da secoli, quando i miei antenati vivevano ancora a Exham; e ora che il muschio e l’umidità ne coprono le vecchie pietre il sentimento non è cambiato.

Ero ad Anchester da un giorno appena e già sapevo di possedere una casa maledetta. Questa settimana, del resto, gli operai l’hanno fatta saltare in aria e ora sono indaffarati a cancellarne le fondamenta. Della vecchia famiglia conoscevo la storia in modo sommario: sapevo che il mio avo era arrivato nelle colonie d’America circondato dai sospetti, ma i particolari mi sfuggivano per la tradizionale reticenza dei Delapore. Diversamente dai nostri vicini delle piantagioni, non ci vantavamo di discendere da crociati o altri eroi del medioevo e del Rinascimento; non avevamo tradizioni particolari, a parte l’abitudine (invalsa da prima della Guerra Civile) di tramandare di padre in figlio un documento che doveva essere letto, dopo la morte del capofamiglia, dal suo primogenito.

Le cose di cui andavamo fieri erano successive all’immigrazione e consistevano nell’orgoglio e nell’onore di una buona famiglia della Virginia, sia pur riservata e non molto socievole. Durante la guerra le nostre fortune precipitarono e la vita cambiò in modo drastico dopo l’incendio di Carfax, la casa in cui vivevamo sulle sponde del fiume James. Mio nonno, già avanti negli anni, morì nella catastrofe e con lui scomparve il documento che ci legava al passato. Ricordo benissimo l’incendio, a cui assistei all’età di sette anni: i soldati nordisti urlavano, le donne erano in preda alla disperazione, i negri si lamentavano e pregavano. Mio padre era nell’esercito, con cui partecipava alla difesa di Richmond; dopo molte formalità fu permesso a mia madre e a me di attraversare le linee e di raggiungerlo.

Alla fine della guerra ci trasferimmo al nord, perché mia madre veniva da lì: sono cresciuto, diventato adulto e ricco come molti prosaici Yankee. Né mio padre né io sapevamo che cosa contenesse il documento scomparso con il nonno, e man mano che mi immergevo nel grigiore della vita d’affari del Massachusetts perdevo interesse nei misteri che, con ogni evidenza, si nascondevano nel mio passato ancestrale. Se avessi sospettato di cosa si trattava, avrei lasciato volentieri Exham Priory al suo musco, ai suoi pipistrelli e alle ragnatele! Mio padre morì nel 1904 senza poter lasciare nessuna informazione a me o a mio figlio Alfred, un ragazzo orfano di madre che aveva allora soltanto dieci anni. Eppure fu proprio Alfred a capovolgere l’ordine con cui, di padre in figlio, ci trasmettevamo le notizie sul passato: sebbene non gli avessi dato che poche congetture sulla storia di famiglia, quando nel 1917 la guerra lo portò in Inghilterra, come ufficiale di aviazione, mi informò di alcune interessanti leggende che ci riguardavano. A quanto pare i Delapore avevano una storia colorita e addirittura sinistra, perché un amico di mio figlio – il capitano Edward Norrys dell’Aviazione Reale Britannica – abitava nei pressi dell’antica casa di Anchester e conosceva le superstizioni dei contadini: roba che pochi romanzieri avrebbero potuto eguagliare per delirio e fantasia. Norrys, ovviamente, non prendeva queste cose sul serio, ma mio figlio le trovò divertenti e ne parlò abbondantemente nelle sue lettere. Fu questo corpus di leggende che attirò la mia attenzione sulle origini della famiglia oltre Atlantico e che in seguitomi decise all’acquisto di Exham Priory e alla sua restaurazione; Norrys l’aveva mostrata ad Alfred nel suo pittoresco abbandono e si era offerto di fargliela avere a un prezzo molto ragionevole, perché il proprietario era suo zio.

Acquistai Exham nel 1918, ma i miei progetti di restauro furono interrotti dal ritorno di mio figlio come grande invalido. Nei due anni che gli rimasero da vivere non pensai ad altro che alle sue cure, delegando anche i miei affari ai soci. Nel 1921 ero un industriale in pensione non più giovane, solo e affranto dal dolore: decisi che avrei trascorso i miei ultimi anni nella casa degli antenati. In dicembre andai per la prima volta ad Anchester e fui accolto dal capitano Norrys, un giovane simpatico e piuttosto in carne che aveva voluto molto bene ad Alfred e che mi offrì il suo aiuto per ciò che riguardava la ristrutturazione; grazie a lui, inoltre, venni a sapere altri aneddoti. La prima volta che vidi Exham Priory fu senza particolari emozioni, perché si trattava di un mucchio di vacillanti rovine medievali coperte di licheni e buche forellate dai nidi di cornacchia; rovine che si affacciavano pericolosamente sul precipizio ed erano prive di pavimenti o altri elementi interni che non fossero le mura di pietra delle torri. Dopo essermi fatto un’idea dell’aspetto che l’edificio aveva tre secoli prima, quando i miei antenati lo avevano abbandonato, cominciai a cercare gli operai per la ricostruzione. Fui sempre costretto a reclutarli fuori di Anchester, perché gli abitanti del posto nutrivano una paura e un odio addirittura incredibili per la vecchia casa. Era un sentimento così forte che a volte riuscivano a comunicarlo ai lavoratori venuti da lontano, provocando improvvise diserzioni; né la paura si limitava all’edificio, ma comprendeva la famiglia che vi aveva abitato. Mio figlio aveva confessato che durante le sue visite veniva spesso evitato perché era un de la Poer: mi trovai anch’io difronte all’ostracismo finché non convinsi gli abitanti del villaggio che sapevo pochissimo del nostro passato. La gente, comunque, non smise di manifestarmi una certa antipatia e per conoscere meglio le credenze locali dovetti ricorrere alla mediazione di Norrys. Quello che non mi perdonavano, probabilmente, era la decisione di ricostruire un antico simbolo di terrore: per irragionevole che fosse, gli abitanti di Anchester vedevano Exham Priory come un covo di orchi e di stregoni.

Mettendo insieme i racconti che Norrys raccoglieva per me e le informazioni degli studiosi che avevano esaminato le rovine, mi resi conto che Exham Priory sorgeva nel sito di un tempio preistorico: una costruzione druidica o pre-druidica contemporanea di Stonehenge. Pochi dubitavano che vi venissero compiuti riti abominevoli, ed esistevano racconti poco simpatici che testimoniavano come certe pratiche si fossero trasferite nel culto di Cibele introdotto dai romani. Nei sotterranei erano ancora visibili iscrizioni come “DIV… OPS… MAGNA. MAT…” rivolte a quella Magna Mater la cui oscura religione era stata un tempo proibita ai cittadini romani, ma invano. Anchester era stata l’accampamento della terza legione di Augusto, come attestato da numerosi resti, e si diceva che il tempio di Cibele fosse splendido e affollato di fedeli che eseguivano riti occulti sotto la guida di un sacerdote frigio. Secondo i resoconti, il declino del paganesimo non aveva messo fine alle cerimonie nel tempio, e anzi i sacerdoti si erano adattati alle apparenze della nuova fede senza cambiare in nulla la sostanza. Allo stesso modo si diceva che i riti non fossero terminati con la fine del potere romano, e che elementi sassoni avessero ampliato l’edificio sacro dandogli la struttura che avrebbe conservato in futuro: in questo modo era divenuto il centro di un culto temuto per metà dell’eptarchia. Intorno all’anno Mille una cronaca menziona la località come sede di un convento che ospitava uno straordinario e potente ordine monastico; l’edificio era circondato da ampi giardini, ma non c’era bisogno di mura per tener lontana la popolazione atterrita. Il convento non fu mai distrutto dai danesi, anche se un tremendo declino dovette seguire alla conquista normanna: quando Enrico III lo donò nel 1261 a mio antenato Gilbert de la Poer, primo barone di Exham, non vi fu infatti alcuna opposizione. Prima di questa data non esistono racconti sinistri in relazione alla mia famiglia, ma in seguito dev’essere accaduto qualcosa di strano. In una cronaca del 1307 si fa riferimento a un de la Poer come al “maledetto da Dio”, mentre le leggende del villaggio testimoniano di un terrore schiacciante nei confronti del castello che era stato eretto sui resti del vecchio tempio e del monastero.

I racconti che si narravano intorno al focolare erano della più orribile natura, e ancora più spaventosi per la reticenza e l’evasività imposte dalla paura. I miei antenati venivano rappresentati come una razza di demoni ereditari al cui confronto Gilles de Retz e il marchese de Sade avrebbero fatto la figura di principianti, e per molte generazioni erano stati incolpati delle periodiche sparizioni di persone che avvenivano nel villaggio. I più odiati erano il barone e i suoi eredi diretti, su cui si accentravano sospetti gravissimi. Si raccontava che se il primogenito era animato da intenzioni cristiane, questi morisse prematuramente, per far posto a un più tipico rappresentante della schiatta. A quanto pare la famiglia tramandava un culto segreto presieduto dal patriarca ed escluso a chiunque tranne pochi membri fedeli. I requisiti per esservi ammessi dovevano essere caratteriali più che ereditari, perché erano entrati a farne parte uomini e donne unitisi ai de la Poer solo in seguito al matrimonio.

Lady Margaret Trevor, venuta dalla Cornovaglia per sposare Godfrey (il secondo figlio del quinto barone), diventò lo spauracchio dei bambini in tutta la regione e la demoniaca eroina di una vecchia, orribile ballata che ai confini del Galles qualcuno ricorda ancora. Un’altra ballata, ma di tono diverso, racconta la terribile storia di Mary de la Poer, uccisa poco dopo il matrimonio da suo marito, il conte di Shrewsfield, e dalla suocera, entrambi assolti e anzi benedetti dal sacerdote che ne ascoltò la confessione: una confessione che né l’uno né l’altra avrebbero osato ripetere al mondo. Miti e filastrocche del genere, sia pur tipici delle superstizioni contadine, mi ripugnavano nel modo più assoluto. La loro durata nel tempo e il costante riferirsi ai miei antenati erano cose che non potevano certo tranquillizzarmi, mentre l’accusa di abitudini mostruose sembrava suffragare l’unico scandalo conosciuto in famiglia, quello del mio giovane cugino Randolph Delapore di Carfax, che dopo essere tornato dalla guerra messicana si era rifugiato fra i negri ed era diventato un sacerdote vudù. Giudicavo meno interessanti le storie di lamenti e ululati che si udivano nella valle, dei pessimi odori che aleggiavano intorno alla casa dopo le piogge primaverili, della cosa bianca che si lamentava e dibatteva in mezzo ai campi nel cuore della notte e in cui il cavallo di sir John Clave si era imbattuto per caso; del servo, infine, che era impazzito per ciò che aveva visto in pieno giorno nell’ex-monastero. Tutta paccottiglia soprannaturale, e io ero ormai uno scettico incallito. Meno trascurabili mi parvero i resoconti relativi alla scomparsa di contadini dal circondario, benché non provassero nulla se si tiene conto dei costumi medievali. Essere troppo curiosi significava morire, e sui bastioni del castello era stata innalzata – a titolo dimostrativo – più di una testa mozza. Ma ormai neanche i bastioni esistevano più. Alcuni racconti erano più pittoreschi degli altri e mi facevano rimpiangere di non aver approfondito il campo della mitologia comparata. Secondo una di queste credenze, per esempio, una legione di demoni con ali di pipistrello teneva ogni notte un sabba delle streghe nell’ex-monastero: il loro sostentamento avrebbe spiegato la spropositata abbondanza di verdure grossolane che si raccoglievano negli orti della casa. Ma il racconto più impressionante riguardava il flagello dei topi, un esercito frenetico e disgustoso che si era riversato dal castello tre mesi dopo la tragedia che aveva portato al suo abbandono: un’orda di creature smagrite, sudicie, fameliche, che dilagando dappertutto avevano divorato polli, gatti, cani, porci, pecore e perfino due sventurati esseri umani prima che la loro furia si fosse placata. Intorno all’indimenticabile esercito di roditori ruota un ciclo di leggende a parte, perché i topi si sparpagliarono fra le case del villaggio portando nella loro scia terrore e distruzione.

Queste erano le credenze con cui dovetti fare i conti mentre portavo a termine, con la massima ostinatezza, i lavori di restauro dell’antico castello. Ma nemmeno per un momento bisogna credere che il mio stato d’animo fosse condizionato dai racconti: il capitano Norrys e gli studiosi che collaboravano con me mi elogiavano e mi incoraggiavano, e, quando dopo due anni l’opera fu portata a termine, la vista delle grandi stanze, dei soffitti a volta, delle finestre bifore e degli ampi scaloni mi riempì di un orgoglio che compensava le enormi spese di ristrutturazione. Ogni caratteristica medievale era stata abilmente riprodotta e le parti nuove si fondevano perfettamente con quelle originali e con le fondamenta.

La casa dei miei padri era completa e decisi di riscattare la pessima fama di cui godeva la famiglia, anche perché ne ero l’ultimo rappresentante. Sarei vissuto a Exham e avrei dimostrato che un de la Poer (secondo la vecchia grafia, che avevo adottato)non è necessariamente un mostro. La mia sicurezza era aumentata dal fatto che, pur riproducendo un castello medievale, l’interno di Exham Priory era completamente nuovo e privo di topi o di fantasmi.

Come ho detto mi trasferii nella nuova casa il 16 luglio 1923, con sette servitori e nove gatti, animali che amo in modo particolare: la più vecchia delle mie bestiole si chiamava Nigger-Man, aveva sette anni e mi aveva seguito da Bolton, nel Massachusetts; gli altri li avevo raccolti vivendo con la famiglia del capitano Norrys mentre procedevano i lavori. Per cinque giorni la nostra vita si svolse nella più assoluta tranquillità, con me che passavo il tempo a raccogliere notizie sulla famiglia.

Ero in possesso, ormai, di un resoconto dettagliato del dramma che aveva portato alla fuga di Walter de la Poer, emi convinsi che il documento andato perduto a Carfax durante l’incendio parlasse di questo. A quanto pare il mio antenato veniva accusato, con ragione, di avere ucciso nel sonno tutti gli altri membri della famiglia, con l’eccezione di quattro servitori fedeli; e questo era avvenuto due settimane dopo la devastante scoperta che aveva completamente cambiato il suo carattere, ma di cui non aveva parlato a nessuno tranne ai domestici, e anche a loro per allusioni. Dopo averlo aiutato nell’impresa, i quattro si erano dati alla macchia. Il massacro deliberato della famiglia, che oltre al padre comprendeva tre fratelli e due sorelle, era stato perdonato dagli abitanti del villaggio, e la legge lo aveva giudicato in modo così blando che l’assassino aveva potuto fuggire in Virginia onorato, illeso e senza bisogno di ricorrere a una falsa identità. La sensazione generale era che Walter de la Poer avesse purgato il paese da un’antichissima maledizione. Quale scoperta lo avesse indotto a compiere il terribile gesto, si poteva difficilmente immaginare: ma i racconti sinistri che gravitavano intorno alla famiglia dovevano essergli noti da anni, per cui il movente non poteva essere questo. Aveva assistito a un rito antichissimo e mostruoso? Si era imbattuto, in casa o nelle sue vicinanze, in qualche simbolo spaventoso e rivelatore?

In Inghilterra Walter de la Poer aveva fama di essere un giovanotto timido e gentile; in Virginia non si parlava di lui come di un uomo duro o amareggiato, ma piuttosto apprensivo e confuso. Un gentiluomo e avventuriero del suo tempo, Francis Harley di Bellview, lo descrive nel suo diario come un individuo di specchiata onestà, delicatezza d’animo e onore.

Il 22 luglio accadde il primo incidente che, per quanto sottovalutato al momento, acquista un significato terribile in rapporto con i fatti che seguirono. Si tratta di una cosa tanto semplice da sembrare trascurabile, e date le circostanze c’è da stupirsi che io ci abbia fatto caso: perché bisogna tener presente che mi trovavo in una casa completamente nuova (a partele mura), ero circondato da un gruppo di domestici fidati e ogni tipo di apprensione sarebbe stata, nonostante tutto, fuori luogo. Ciò che ricordo è essenzialmente questo: il mio vecchio gatto nero, di cui conosco perfettamente gli umori, era sul chi vive e ansioso in modo insolito. Passeggiava da una stanza all’altra, inquieto e fremente, annusando il bordo delle paretiche formavano una parte della vecchia struttura gotica. Mi rendo conto che tutto questo sembrerà banale (come l’immancabile cane nelle storie di fantasmi, che sempre brontola prima che il padrone veda l’apparizione velata); eppure non posso omettere il particolare.

Il giorno dopo uno dei servitori si lamentò perché tutti i gatti erano inquieti; venne nel mio studio, un’alta stanza a occidente del secondo piano, con archi a volta, rivestimenti in quercia nera e una tripla finestra gotica che guardava sullo strapiombo di pietra calcarea e la valle desolata, e mentre parlava notai la sagoma scura di Nigger-Man che strisciava lungo la parete occidentale grattando sui pannelli che rivestivano l’antica pietra. Dissi al mio servitore che doveva trattarsi di un odore o comunque di un’emanazione dalla vecchia parete, qualcosa che i sensi umani non percepivano ma che disturbava quelli delicatissimi dei gatti anche attraverso il legno. Credevo sinceramente in quel che dicevo, e quando il cameriere avanzò l’ipotesi che potessero esserci sorci o ratti, gli ricordai che non ce n’erano più da trecento anni e che i comuni topi campagnoli non potevano arroccarsi in mura così alte, dove non s’era mai sentito che vivessero.

Il giorno dopo mi consultai con il capitano Norrys e mi assicurò che l’ipotesi di un’invasione di topi campagnoli era inverosimile, specie così all’improvviso come gli dicevo. Quella sera, allontanato il mio cameriere personale, mi ritirai nella stanza della torte occidentale che avevo scelto per me e che si raggiungeva attraverso una scala di pietra e un breve corridoio. La scala era in parte antica, il corridoio del tutto rifatto. La stanza era circolare, molto alta e senza pannelli in legno, perché l’avevo tappezzata con stoffe scelte personalmente a Londra. Vedendo che Nigger-Man era con me, chiusi la pesante porta gotica e mi ritirai alla luce delle lampade elettriche che avevano la forma di candele; infine girai l’interruttore e mi infilai nel letto a baldacchino, col venerabile gatto ai miei piedi come sempre. Non tirai le cortine del letto, ma guardai la grande finestra settentrionale che mi stava di fronte. Nel cielo c’era un debolissimo chiarore e il delicato telaio della finestra era messo piacevolmente in risalto. A un certo punto devo essermi addormentato, perché quando il gatto trasalì, abbandonando il solito posto, stavo sognando. Lo vidi nel debole chiarore della finestra, con la testa protesa in avanti, le zampe anteriori sulle mie caviglie e quelle posteriori tese indietro. Nigger-Man fissava intensamente un punto della parete che si trovava un po’ a occidente della finestra e in cui io non vedevo niente di strano, pur osservandolo con la massima attenzione. All’improvviso mi resi conto che l’eccitazione del gatto non era ingiustificata, e anche se non sono certo che l’arazzo si muovesse (ma penso di sì, almeno un poco), giuro che dietro di esso sentii un inconfondibile trepestio di topi. In un attimo Nigger-Man balzò sul rivestimento di stoffa, lacerandolo in parte con il suo peso e mettendo a nudo un antico tratto del muro di pietra.

I restauratori lo avevano riparato qua e là e nessuno si era accorto dei topi. Nigger-Man passeggiava lungo il muro, lacerando con le unghie il pezzo di arazzo caduto e cercando a volte di infilare la zampa fra il punto in cui finiva il muro e il pavimento di legno: non trovò niente e dopo un poco tornò al suo posto, ai miei piedi. Io non mi ero mosso, ma quella notte non dormii affatto. La mattina dopo interrogai tutti i domestici, scoprendo che nessuno aveva notato qualcosa di insolito. Solo la cuoca ricordava lo strano comportamento di un gatto che dormiva sul davanzale di camera sua: a un’ora imprecisata della notte si era messo a miagolare, svegliandola in tempo per vederlo infilare la porta delle scale. Verso mezzogiorno andai a riposare un poco e nel pomeriggio feci visita al capitano Norrys, che fu molto interessato ai miei racconti.

Gli strani incidenti (piccoli ma curiosi) eccitarono il suo senso del pittoresco e lo indussero a rievocare una quantità di storie sovrannaturali della regione. La presenza dei topi ci lasciava comunque perplessi: Norrys mi prestò trappole e veleno topicida, che feci piazzare dai domestici nei punti strategici. Quella sera andai a letto presto perché ero molto stanco, ma fui tormentato da sogni orribili. Avevo l’impressione di guardare, da grande altezza, una caverna immersa nella penombra e piena di rifiuti fino al ginocchio; un demone-porcaro dalla barba bianca guidava con una lunga pertica un gregge di bestie flaccide e pallide come funghi, il cui aspetto mi riempì del più assoluto ribrezzo. Poi, quando il porcaro si fermò e annuì compiaciuto per aver portato a termine il suo compito, un enorme sciame di topi si precipitò nella caverna appestata e divorò contemporaneamente gli animali e il guardiano. Da quella terribile visione mi svegliò un brusco movimento di Nigger-Man, che come al solito dormiva sui miei piedi. Stavolta non fu necessario domandarmi il perché dell’inquietudine e del miagolio del gatto, né dello scatto con cui mi piantò le unghie nelle caviglie, senza preoccuparsi del mio dolore: le pareti erano vive d’un trepestio sconvolgente, la marcia velocissima di giganteschi topi affamati.

Dalla finestra non giungeva il chiarore della notte prima e non potevo giudicare lo stato della tappezzeria (la cui parte rovinata era stata sostituita dai camerieri), ma non ero così spaventato da non poter accendere la luce. Al chiarore della lampadina vidi che l’arazzo tremava da cima a fondo, e il disegno, piuttosto bizzarro, eseguiva una strana danza di morte sulle pareti. Quasi immediatamente il movimento si arrestò e con esso il rumore. Balzai in piedi, tastai la tappezzeria con il lungo manico di uno scaldaletto e ne sollevai un lembo per vedere che cosa si nascondesse dietro. Niente, a parte il muro di pietra, e anche il gatto non avvertiva più le presenze estranee. Esaminai la trappola rotonda che avevo piazzato in camera e scoprii che in qualche modo era scattata, anche se non restava traccia di ciò che era rimasto imprigionato e poi era fuggito. Di dormire non se ne parlava neppure, così accesi una candela e attraversai il corridoio che portava alle scale. Volevo andare nel mio studio, e Nigger-Man mi stava alle calcagna. Prima di aver raggiunto i gradini di pietra il gatto mi passò davanti e scomparve in fondo alla scalinata: mentre anch’io scendevo mi resi conto che nella stanza al piano di sotto c’era un gran baccano, un inconfondibile trepestio. Le pareti rivestite di legno brulicavano di topi in corsa, e Nigger-Man balzava da un punto all’altro dello studio con la rabbia del cacciatore frustrato. Arrivato in fondo alle scale accesi la luce, ma stavolta il fracasso non diminuì. I topi continuavano a correre dietro i muri, e la chiarezza dei loro passi mi permise di individuare la direzione verso cui marciavano. Quelle bestie, tante da sembrare inesauribili, migravano dalle parti alte del castello a profondità abissali e addirittura inconcepibili sotto di esso. Sentii dei passi in corridoio e in un attimo due servitori aprirono la porta massiccia: frugavano la casa per individuare l’origine del fenomeno che aveva gettato i gatti nel panico, spingendoli a precipizio giù per le scale che conducevano alla porta della cantina. Una volta arrivati, i gatti si erano appiattiti contro la porta e avevano cominciato a sbuffare e miagolare. Chiesi ai servitori se avessero sentito il trepestio dei topi, ma risposero di no. Quando richiamai la loro attenzione sui rumori dietro i pannelli, mi resi conto che erano cessati. Insieme ai due uomini scesi in cantina, ma i gatti si erano ormai dispersi. Mi ripromisi di esplorare personalmente i sotterranei e per il momento esaminai le trappole: erano tutte scattate e tutte vuote. Accertatomi che nessuno aveva sentito i topi tranne i gatti e me, rimasi nello studio fino al mattino a riflettere profondamente, cercando di ricordare ogni particolare delle leggende che riguardavano il castello.

Nel pomeriggio dormii un poco nell’unica poltrona comoda che, nonostante i piani di ristrutturazione medievale, non mi ero sentito di abolire e che si trovava in biblioteca; più tardi telefonai al capitano Norrys, che mi raggiunse e mi aiutò nell’esplorazione dei sotterranei. Non trovammo niente di anormale, ma non potemmo reprimere un brivido al pensiero che quei cunicoli erano stati costruiti da operai romani. Gli archi bassi e le colonne massicce parlavano di Roma, non delle goffe imitazioni fatte dai sassoni in ardore di latinità, ed esprimevano il severo e armonioso classicismo dell’età dei Cesari. Le pareti abbondavano di iscrizioni familiari agli archeologi che avevano più volte visitato il luogo: parole come “P. GETAE. PROP… TEMP… DONA…” e “L. PRAEC… VS… PONTIFI… ATYS…”Il riferimento ad Ati mi fece accapponare la pelle, perché avevo letto Catullo e sapevo qualcosa degli orribili riti del dio orientale, il cui culto era profondamente collegato a quello di Cibele. Alla luce delle lanterne Norrys ed io cercammo di interpretare i bizzarri disegni – quasi del tutto cancellati – che ornavano i rozzi blocchi di pietra che la maggior parte degli studiosi riteneva altari. Non riuscimmo a ricavarne nulla, ma ricordammo che un motivo ricorrente (una specie di sole coni raggi) era, secondo gli archeologi, di origine non romana e sembrava testimoniare che i sacerdoti di età imperiale avessero ereditato gli altari da un più antico tempio aborigeno edificato nello stesso luogo. Su uno dei blocchi c’erano macchie brune che mi insospettirono; la superficie del più grande, al centro della sala, recava tracce di fuoco o di utensili per appiccare il fuoco: probabilmente vi si bruciavano sacrifici.

Era questo lo spettacolo offerto dal sotterraneo davanti alla cui porta i gatti si erano scatenati, e in cui Norrys e io avevamo deciso di passare la notte. I domestici portarono giù due brande e ricevettero l’ordine di non preoccuparsi del comportamento notturno delle bestiole; Nigger-Man, dal canto suo, fu ammesso nel sotterraneo come aiuto e come compagno. Decidemmo di tener chiusa la grande porta di quercia che avevo ricostruito con apposite fessure per la ventilazione; compiuta questa operazione, ci ritirammo con le lanterne accese per vedere cosa sarebbe successo. Il sotterraneo scendeva indubbiamente a grande profondità sotto la casa, spingendosi nelle viscere della parete calcare ache sovrastava la valle.

Centinaia d’inspiegabili topi mi avevano preso di mira, su questo non avevo dubbi: ma perché? Impossibile trovare una risposta. La veglia si mescolò a sogni incerti e più di una volta ne fui scosso dai movimenti inquieti del gatto. I sogni non erano tranquillizzanti, ma orrendi come quelli che avevo avuto la notte prima. Vidi ancora una volta la caverna in penombra e il porcaro con le sue bestie pallide, abominevoli, che si rotolavano nella sporcizia e che ora sembravano più vicine, più chiare: tanto che potevo quasi studiarne i lineamenti. Lo feci, osservandone una in particolare, e mi svegliai con un urlo così terribile che Nigger-Man trasalì e il capitano Norrys – il quale non si era addormentato – scoppiò a ridere di cuore. Se avesse visto quel che mi aveva fatto gridare avrebbe riso forse di più… o dimeno. Io stesso riuscii a ricordare qualche particolare solo in seguito, perché l’orrore totale possiede la misericordiosa facoltà di paralizzare la memoria.

Norrys mi svegliò di nuovo quando cominciarono i rumori. Stavo facendo lo stesso, orribile sogno, ma con un bonario scrollone egli m’invitò a prestare attenzione all’inquietudine dei gatti. Era veramente un pandemonio, perché oltre la porta in cima alle scale i felini miagolavano e grattavano con le unghie, mentre Nigger-Man, incurante dei compagni lasciati all’esterno, correva eccitato lungo il perimetro delle pareti di pietra al di là delle quali sentivo la stessa babele di topi che mi aveva disturbato la notte precedente. Provai un terrore acuto, perché mi trovavo di fronte ad anomalie che non si potevano spiegare in modo razionale. I topi (ammesso che non fossero il prodotto d’una specie di follia che condividevo con i gatti) si annidavano, e scorrazzavano, nelle mura romane che credevo composte di solidi blocchi di pietra. Certo, era possibile che in più di diciassette secoli l’azione dell’acqua avesse scavato una serie di gallerie che i roditori avevano provveduto a sfruttare, ma anche in questo caso l’orrore non diminuiva: se l’invasione era opera di animali vivi, come mai Norrys non li sentiva? Perché mi invitava ad ascoltare i gatti e si limitava a fare ipotesi vaghe e fantastiche sul motivo della loro inquietudine? Ero appena riuscito a spiegargli, più ragionevolmente che potevo, quello che mi sembrava di sentire, quando mi giunse alle orecchie l’ultima eco dei topi in marcia, sempre più immersi nelle viscere della terra e a tale lontananza dalle cantine del palazzo da dare l’impressione che tutta la parete di roccia brulicasse di animali.

Norrys non si mostrò scettico come avevo temuto ma sembrò profondamente commosso. Mi fece osservare che i gatti davanti alla porta non facevano più baccano, come se dessero i topi per dispersi; Nigger-Man, dal canto suo, continuava ad essere inquieto e grattava freneticamente intorno alla base del grande altare di pietra al centro della sala, più vicino al giaciglio di Norrys che al mio. A questo punto il mio terrore dell’ignoto era molto grande. Si era verificato qualcosa di straordinario e mi resi conto che lo stesso capitano Norrys – un uomo più giovane, più forte e presumibilmente più materialista – era impressionato quanto me, forse a causa della sua familiarità con le leggende locali. Ma per il momento non potevamo fare altro che guardare il vecchio gatto nero, il quale zampettava intorno all’altare con meno fervore di prima e ogni tanto mi guardava miagolando, con l’aria di quando vuole che gli faccia un piacere. Norrys prese una lampada vicino all’altare ed esaminò il punto dove si aggirava Nigger-Man, quindi si inginocchiò in silenzio e grattò i licheni accumulati da secoli che univano il rozzo blocco preromano al pavimento tassellato. Non trovò niente e stava per abbandonare ogni sforzo quando io notai un particolare insignificante che, pur non indicando nulla che non avessi già immaginato, mi fece trasalire.

Ne parlai a Norrys e osservammo il quasi impercettibile fenomeno con l’intensità di chi ha appena fatto una scoperta affascinante e in qualche modo attesa. Tutto si riduceva a questo: la fiamma della lampada vicino all’altare tremolava per una corrente d’aria che prima non aveva ricevuto, e che indubbiamente veniva dalla fessura fra il pavimento e l’altare dove Norrys aveva grattato i licheni.

Trascorremmo il resto della notte nel mio studio ben illuminato, discutendo con nervosismo su quello che ci conveniva fare. La scoperta che un nuovo sotterraneo, più profondo della più profonda galleria romana, correva sotto l’edificio maledetto (un sotterraneo di cui gli archeologi, per tre secoli, non avevano sospettato l’esistenza) sarebbe bastata a riempirci di agitazione anche senza le leggende diaboliche. Stando così le cose il fascino era duplice: e ci chiedemmo se fosse il caso di abbandonare l’ex-monastero per prudenza superstiziosa o se dovessimo soddisfare il nostro senso dell’avventura e addentrarci fra gli orrori che potevano celarsi nelle profondità sconosciute.

Quando venne il mattino avevamo raggiunto una decisione di compromesso: saremmo andati a Londra per raccogliere un gruppo di archeologi e uomini di scienza in grado di risolvere il mistero. Devo precisare che prima di abbandonare il sotterraneo avevamo cercato invano di muovere l’altare centrale, che ora sapevamo essere la soglia di nuovi e terrorizzanti abissi. Uomini più sapienti di noi avrebbero svelato il segreto di quella particolare via d’accesso.

Nei giorni seguenti il capitano Norrys e io sottoponemmo fatti, congetture ed episodi leggendari a cinque eminenti autorità, uomini che avrebbero osservato il segreto professionale nel caso di scoperte compromettenti per la mia famiglia. Per fortuna non sottovalutarono le nostre affermazioni, ma anzi si mostrarono interessati e comprensivi. Non è il caso di nominarli tutti, ma posso dire che uno di essi era Sir William Brinton, i cui scavi nella Troade avevano fatto sensazione nel mondo.

Quando prendemmo il treno per Anchester mi parve di essere sull’orlo di rivelazioni mostruose, sensazione rafforzata simbolicamente dall’aria abbattuta dei molti americani che incontrammo, in lutto per l’improvvisa morte del Presidente all’altro capo del mondo.

La sera del 7 agosto arrivammo ad Exham Priory, dove i domestici mi assicurarono che non era accaduto nulla di strano. I gatti, anche il vecchio Nigger-Man, erano rimasti tranquilli e in casa non era scattata una sola trappola. Poiché avremmo cominciato l’esplorazione il giorno seguente, sistemai i miei ospiti nelle migliori stanze e ci ritirammo. Io dormii come al solito nella camera della torre, con Nigger-Man ai miei piedi. Mi addormentai presto e feci sogni orribili: prima mi sembrò di essere a un banchetto romano dell’epoca di Trimalcione, dove qualcosa di abominevole veniva servito in un piatto coperto; poi venne l’incubo ricorrente del porcaro e delle orribili bestie nella caverna semi-illuminata.

Quando mi svegliai era giorno pieno e al piano di sotto risuonavano i rumori familiari della casa. I topi, vivi o spettrali che fossero, non mi avevano disturbato e Nigger-Man era ancora addormentato. Al piano inferiore regnava la stessa tranquillità: condizione che uno degli studiosi – un certo Thornton, specializzato in fenomeni psichici – attribuì assurdamente al fatto che ormai mi era stato mostrato ciò che determinate potenze volevano mostrarmi.

Eravamo pronti, e alle undici del mattino ci immergemmo nei sotterranei chiudendo la porta di legno alle nostre spalle: eravamo in sette, muniti di potenti lampade e attrezzi per scavare. Nigger-Man fu ammesso nel gruppo perché nessuno trovò da obiettare alla sua eccitabilità e qualcuno disse che avrebbe potuto aiutarci nel caso di eventuali apparizioni dei roditori. Ci soffermammo brevemente sulle iscrizioni romane e sui misteriosi disegni sugli altari, anche perché li conoscevamo e sapevamo quali erano le loro caratteristiche. L’attenzione maggiore fu dedicata all’altare centrale, che nel giro di un’ora Sir William Brinton riuscì a far inclinare all’indietro, tenendolo in equilibrio grazie a un non meglio identificato contrappeso. Ai nostri occhi si presentò uno spettacolo che ci avrebbe sopraffatti se non fossimo stati preparati. Attraverso un’apertura grossolanamente squadrata nel pavimento scendeva una rampa di gradini talmente consunti che al centro sembravano un piano inclinato o poco più; e su di essi, in disordine, erano sparpagliati macabri resti di ossa umane o semi-umane. Gli scheletri in qualche misura integri erano in posizioni tali da suggerire un vero e proprio terror panico e su tutti notammo le tracce di morsi di topi; i crani facevano pensare a individui poco lontani dalla condizione scimmiesca, primitivi o vittime del cretinismo. Sugli orribili gradini si apriva un corridoio a volta, in discesa, che sembrava scavato nella roccia e da cui proveniva una corrente d’aria. Non era il miasma improvviso che sale da una tomba appena aperta, ma anzi una brezza piuttosto fresca. Non ci fermammo a lungo e rabbrividendo cercammo di farci strada verso il basso. Fu allora che Sir William, esaminando le pareti del budello, fece la strana osservazione che a giudicare dalla direzione dei colpi di piccone il corridoio doveva essere stato scavato dal basso.

Ora devo essere molto attento e scegliere le parole. Dopo aver fatto qualche gradino fra le ossa mangiucchiate vedemmo una luce: nessuna “fosforescenza spettrale”, ma il normale chiarore del giorno che non poteva arrivare a quelle profondità se non attraverso ignote spaccature nella parete che sovrastava la valle. Non c’era da stupirsi che all’esterno nessuno le avesse notate, perché la valle era completamente disabitata e la parete così alta e ripida che solo un aeronauta sarebbe riuscito a esaminarne i particolari. Ancora pochi passi e il fiato quasi ci mancò per la sorpresa: lo dico letteralmente, perché Thornton, l’investigatore dell’occulto, svenne fra le braccia dell’uomo che lo seguiva. Norrys, con il faccione bianco e stravolto, emise un grido inarticolato e io sussultai o feci un versaccio, coprendomi gli occhi. L’uomo alle mie spalle (l’unico del gruppo più anziano di me) farfugliò l’abusato “Buon Dio!” nella voce più fessa che abbia mai udito. Su sette uomini solo Sir William Brinton mantenne la sua compostezza, cosa ancor più notevole considerando che guidava il gruppo e dunque aveva visto la cosa per primo.

Era una caverna semi-illuminata di enorme altezza, tanto vasta che l’occhio non riusciva a vederne la fine; un mondo sotterraneo di mistero infinito e orribili suggestioni. C’erano edifici e altri resti architettonici: con uno sguardo atterrito vidi un fantastico intreccio di tumuli, un cerchio selvaggio di monoliti, un rudere romano dalla volta bassa, una rovina dei sassoni e un antico edificio inglese di legno… ma tutto questo era niente a confronto dell’orribile spettacolo offerto dalla semplice superficie della caverna. Per metri e metri intorno ai gradini si stendeva un folle miscuglio di ossa umane, o meglio ossa che sembravano umane come quelle sui gradini. Simili a un mare spumeggiante, alcune erano fracassate ma altre in tutto o in parte articolate fino a formare veri e propri scheletri; questi ultimi giacevano invariabilmente in posture allucinate, come se avessero tentato di allontanare un pericolo o di afferrare altri corpi con l’intento di divorarli. Quando il dottor Trask, l’antropologo, si chinò sugli scheletri per cercare di classificarli, scoprì che si trattava di incroci degeneri che sfidavano ogni collocazione. Una parte denotavano esseri che erano appartenuti a un livello evolutivo inferiore all’uomo di Piltdown, pur essendo senz’altro umani. Altri, ed erano la maggior parte, si ponevano su un gradino superiore, mentre alcuni erano senz’altro i crani di individui di piena e sviluppata sensibilità. Tutte le ossa recavano segni di morsi: per lo più di roditori, ma non mancavano quelli umani o quasi-umani. Mescolate alle altre c’erano piccole ossa di topi, membri caduti dell’esercito letale che aveva concluso l’antica epopea.

Mi stupisce che i miei compagni ed io siamo sopravvissuti alle scoperte di quell’orribile giorno e che abbiamo conservato la nostra sanità di mente, perché né Hoffmann né Huysmans avrebbero potuto concepire una scena più folle e incredibile, più grottesca in senso gotico della caverna semi-illuminata in cui barcollavamo. Ogni passo era un inciampo in una nuova rivelazione, ma cercavamo (almeno per il momento) di non pensare agli avvenimenti che dovevano essere accaduti in quel posto trecento, mille, duemila o diecimila anni prima. Era l’anticamera dell’inferno, e il povero Thornton svenne di nuovo quando Trask gli disse che alcuni scheletri appartenevano a esseri che si erano trascinati nell’abisso a quattro zampe nel corso delle ultime venti generazioni o più. Orrore si aggiunse a orrore quando cominciammo a osservare i resti architettonici. I quadrupedi – con qualche occasionale compagno reclutato nella classe dei bipedi – erano stati tenuti in recinti di pietra dai quali erano riusciti a evadere in un ultimo delirio di fame e terrore dei topi. Inizialmente dovevano aver costituito un grosso gregge, ingrassato a quanto pareva con i grossolani vegetali i cui resti formavano una sorta di muffa velenosa in fondo a grandi contenitori di pietra più antichi di Roma.

Ora sapevo perché i miei antenati avevano tenuto orti così grandi… volesse il cielo che potessi dimenticarmene! Lo scopo per cui il gregge veniva ingrassato era evidente. Sir William, che stava con la torcia nel rudere romano, tradusse ad alta voce il rituale più macabro che abbia mai udito e ci rivelò la dieta del culto antidiluviano che i sacerdoti di Cibele avevano assimilato al loro. Norrys, pur essendo un soldato, non riusciva a reggersi in piedi quando emerse dall’edificio inglese. Era una macelleria e insieme una cucina, ma questo se l’era aspettato: tuttavia vedere in un posto simile strumenti familiari e leggere semplici graffiti nella nostra lingua, alcuni risalenti appena al 1610, era stato troppo. Io non ebbi la forza di entrarci, ma ricordai che solo la lama del mio antenato Walter de la Poer era riuscito a fermare le diaboliche attività che fervevano in quell’edificio. Trovai la forza, invece, di varcare la soglia della costruzione sassone, la cui porta di quercia era caduta. All’interno scoprii dieci terribili celle di pietra con le sbarre arrugginite; tre di esse custodivano ancora i loro occupanti, scheletri umani evoluti al dito d’uno dei quali trovai un anello con il sigillo della mia famiglia. Sir William scoprì una cripta con prigioni molto più antiche sotto la cappella romana, ma erano vuote. Sotto di esse correva un’altra cripta, piuttosto bassa e piena di casse dove le ossa erano sistemate in bell’ordine; su alcune erano incise formule terribili in latino, greco e nella lingua di Frigia. Nel frattempo il dottor Trask aveva scoperchiato uno dei tumuli preistorici e aveva portato alla luce crani poco più simili a quelli umani che a quelli dei gorilla, su cui erano incisi ideogrammi indescrivibili. Solo il mio gatto camminava indisturbato fra tanti orrori. Una volta lo vidi mostruosamente arcuato su una montagna d’ossa e mi chiesi quali segreti nascondessero i suoi occhi gialli. Ormai avevo afferrato, sia pur in piccola parte, le spaventose rivelazioni della caverna che il sogno mi aveva anticipato. Insieme agli altri mi volsi verso la parte scura dell’antro, quello in cui la luce non penetrava affatto. Non sapremo mai quali mondi infernali si spalancassero, invisibili, oltre il breve tratto che percorremmo, anche perché decidemmo che all’umanità non conviene svelare segreti del genere; ma dove arrivammo ce n’era abbastanza per annichilirci. Non eravamo avanzati dimolto che le torce mostrarono l’infinita successione di cunicoli maledetti in cui i topi avevano banchettato finché l’improvvisa scarsità di cibo non li aveva spinti ad assalire il gregge di creature flaccide e ad uscire dal castello, nello storico flagello che i contadini non sapevano dimenticare. Dio, cunicoli neri come la pece e colmi di ossa morsicate, fracassate e crani aperti! Abissi d’incubo strozzati dai resti di pitecantropi, celti, romani e inglesi per secoli e secoli! Nessuno poteva dire quanto fossero profondi, e alcuni erano pieni fino all’orlo… Altri, letteralmente senza fondo, si offrivano alle più sfrenate fantasticherie. Che ne era stato, mi chiesi, dei topi che durante la corsa cieca e famelica in quella specie di Tartaro erano precipitati in trappole del genere? Una volta il mio piede vacillò sul bordo di un orribile pozzo e fui preso da un panico indicibile; probabilmente ero rimasto indietro a riflettere, perché, a parte il grasso capitano Norrys, non vedevo nessun altro membro del gruppo. Mi sembrò di riconoscere un suono che saliva dalle profondità tenebrose e incommensurabili, vidi il mio fido gatto nero sfrecciarmi accanto come una divinità alata dell’Egitto e precipitarsi nell’abisso. Non mancò molto perché lo seguissi, e ormai non c’erano dubbi: quello che sentivamo era il trepestio antichissimo dei topi, sempre in cerca di nuovi orrori e intenzionati a guidarmi nelle fosse al centro della terra dove Nyarlathotep, il dio folle e senza volto, urla cieco nelle tenebre ed è accompagnato da due flautisti amorfi e idioti. La mia torcia si era spenta, ma continuavo a correre. Sentivo voci, urla, echi e soprattutto l’empio, insidioso trepestio; saliva lentamente in superficie, saliva come un gonfio cadavere che affiora alla superficie placida d’un fiume sotto infiniti ponti d’onice, un fiume destinato a sfociare nell’oceano nero. Qualcosa dentro di me batteva forte, qualcosa di morbido e leggero. Dovevano essere i topi, l’esercito vischioso, famelico, peloso che banchetta sui resti dei vivi e dei morti… Perché i topi non dovrebbero divorare un de la Poer, come i de la Poer divoravano carni proibite…? La guerra ha divorato mio figlio, maledizione… Gli Yankee hanno distrutto Carfax col fuoco, e il vecchio signor Delapore è morto col suo segreto… No, no, vi dico, non sono io il demone porcaro di quella grotta in penombra! Non è la faccia pasciuta di Edward Norrysche ho riconosciuto, in sogno, guardando l’essere biancastro! Chi ha detto che sono un de la Poer? Lui è sopravvissuto, mail mio ragazzo è morto…! Un Norrys deve godersi le terre dei de la Poer? È magia vudù, ecco cosa… Il serpente maculato… Maledetto Thornton, ti insegno io a svenire davanti agli atti della mia famiglia… Io t’ammazzo, vilissimo, ti fo vedere come si fa… oseresti resistermi? Magna Mater! Magna Mater!… Atys… Dia ad aghaidh’s ad aodanr.. agus bas dunach ort! Dhonas’s dholas ort, agus leatsa!… Ungl.. ungl… rrrlh… chchch…

Sono queste le parole che urlavo quando, tre ore dopo, mi trovarono accoccolato sul cadavere semidivorato del capitano Norrys, col mio gatto che minacciava di squarciarmi la gola con gli artigli. Hanno fatto saltare Exham Priory, hanno portato via Nigger-Man e mi hanno rinchiuso in questa stanza ad Hanwell, mormorando cose spaventose sulle mie esperienze ereditarie.

Thornton si trova nella cella accanto, ma non mi permettono di parlargli. Stanno cercando di occultare tutte le prove di ciò che è avvenuto nell’ex-monastero. Quando parlo del povero Norrys mi accusano di cose orribili, ma devono sapere che non sono stato io a farle. Devono sapere che sono stati i topi, i topi veloci e inafferrabili il cui trepestio non mi farà più dormire; i topi diabolici che continuano a precipitarsi dietro le pareti imbottite della cella e vogliono guidarmi verso orrori più grandi di quelli che ho mai conosciuto; i topi che essi non sentiranno mai: i topi, i topi nel muro.

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