Sei entrato così, in un giorno di maggio di non so più quale anno, nella mia vita senza che tu l’abbia mai sfiorata

I SASSI E LE NUVOLE

racconto

di

Elisabetta Bordieri

Una struggente passione non ricambiata diventa il perno attorno a cui ruotano i pensieri, le scelte, la vita di una donna innamorata. La sua quotidianità si trasforma in un’ossessione senza scampo, in un labirinto senza via d’uscita, come sono tutti gli amori assoluti.


Sei entrato così, in un giorno di maggio di non so più quale anno, nella mia vita senza che tu l’abbia mai sfiorata. Mai. Nemmeno con un pensiero. Nemmeno con un tormento.

Lo ricordo bene, ero a una festa. Ti ho visto. Da lontano. In mezzo a un mare di persone. Elegante e disinvolto, a tuo agio, ridevi e scherzavi. Sono rimasta lì imbambolata a fissarti per un po’. Il pizzetto appena imbiancato sosteneva un calice di bollicine che sostava a più riprese sulle tue labbra e io potevo vedere il chiaro liquido scendere verso la tua bocca e te sorseggiare e ingoiare con godimento. Cosa avrei dato per essere quel vino! Avevi poi quel modo seducente di passarti le mani tra i capelli, chinavi prima la testa da un lato, lievemente in avanti, solo a quel punto la mano arrivava in soccorso dei primi ciuffi biondi che iniziavano a perdere il controllo e a cadere giù, così le tue dita pronte si infilavano a incastro tra la chioma ribelle ricomponendola. Eri una vertigine che scavallava ogni fantasia. L’acquamarina dei tuoi occhi fluttuava con naturalezza tra i presenti. Poi ti sei voltato verso di me. Uno sguardo fugace, quasi incerto, forse addirittura casuale eppure così denso da perforare l’unica mia viscera ancora intatta. Mi si è conficcato dentro e l’ho sentito attecchire, mettere radici solide e profonde, germinare.

Poi ieri

«Puoi venire nel mio ufficio tra cinque minuti?»

Dopo qualche mese da quell’incontro, ce ne furono altri più o meno fortuiti, sempre tra amici e alla fine ci ritrovammo a lavorare insieme, per un caso devi aver creduto tu, mentre io ho fatto carte false per fare in modo che accadesse. Non hai grandi competenze mi hai fatto notare nel nostro primo colloquio conoscitivo, è vero ti ho risposto ma so parlare ai sassi e alle nuvole. Mi hai sorriso con sarcasmo e con una velata ironia mi hai sussurrato in confidenza ti rivelo che sassi e nuvole non rispondono. Così tu sei diventato il mio capo e io una tua impiegata tra mille, dandoci del tu con il dovuto riservato rispetto. Ancora oggi, dopo tutti questi anni, entrare nel tuo ufficio mi comporta un senso di disagio e di desiderio irrefrenabili. Nessuno dei due aspetti della mia coscienza ha mai avuto la meglio e io mi sono sempre ritrovata a fare da mediatrice uscendone regolarmente sconfitta. Cinque minuti non sarebbero bastati nemmeno questa volta a tentare una vittoria, così sono entrata nella fossa dei leoni con la solita aria di sufficienza e con un eccomi Francesco, dimmi pure scortese e distaccato, l’unico modo per tutelare i ventricoli affranti del mio cuore.

«Immagino tu sia a conoscenza della riunione dei giorni scorsi con tutti i Segretari Regionali. C’è bisogno di rafforzare alcune sedi che difettano di personale esperto e preparato per cui ci sono degli spostamenti da fare, diciamo così. Alcuni enti bilaterali ci hanno chiesto supporto in questo senso e tu sai che la regolazione del mercato del lavoro passa attraverso la promozione di una occupazione regolare e di qualità. Quindi per andare incontro all’intermediazione tra domanda e offerta, per programmare le attività formative e determinare le modalità di attuazione della formazione professionale in azienda, occorre sviluppare e soprattutto integrare alcune posizioni nelle sedi di riferimento. Naturalmente il Segretario Generale è a conoscenza del progetto. In altre parole… ma che c’è? Ti senti bene?»

Ricordo solo che la tua voce, già da qualche secondo, mi arrivava ovattata, con un suono a tratti metallico, come un robot con le pile scariche. Vedevo solo le labbra muoversi ad articolare parole collaterali e sorde. Non ci potevo credere che mi stessi parlando con quel tono che si riserva a una dipendente qualunque. Certo, lo sapevo bene, io sono sempre stata per te solo una persona qualunque. Rafforzare alcune sedi che difettano di personale. Mi stavi buttando via. Non conoscevo le motivazioni e nemmeno la destinazione ma non mi importava, sapevo solo a cosa sarei andata incontro e quale quadro mi si prospettava. Non sono riuscita a reprimere il malessere e l’unica via di fuga era non fare domande.

«Sì, tutto bene. Se non c’è altro io andrei.»

Poi oggi

Qui, di mattina, mi trascino per casa stordita di prosecco che scolo al posto del caffè, quel dannato prosecco che mi riporta a te, a quel primo giorno in cui i miei occhi si sono fusi con i tuoi. L’alcol entra dentro, lo sento mescolarsi con il sangue e scorrere più velocemente ma resto stranamente sobria. La sensazione di catturarti nelle mie vene mi fa sentire viva anche se alle spalle ho una notte infinita insonne trascorsa a pensare, a piangere, a devastarmi. Sono uscita dal tuo ufficio ieri senza salutarti, ho atteso la fine del mio turno di lavoro e mi sono messa in ferie forzate a maledirmi, a chiedermi come sia possibile, come sia stato possibile che tu non abbia mai avuto il desiderio di me, di portarmi a cena fuori, di parlarmi, di toccarmi. E così mi facevi sentire brutta e inadeguata. Giorni interi a contatto, viaggi e pranzi di lavoro dove ti meravigliavi che mangiassi poco senza mai intuire il macigno nel mio stomaco chiuso in un baratro di bugie e giustificazioni improvvisate perché pieno solo di te che mi toglievi la fame e il respiro. Docile e remissivo nei confronti di una moglie gelosa, di una figlia possessiva e di un improbabile dio, come non hai potuto sentire il prurito irritante delle consuetudini e mollare tutto anche fosse solo per un’ora? Tu, uomo intelligente e sottile, ti sei relegato dentro il ruolo di brava persona anche un po’ timida che non ha mai saputo vedere l’altrove. E il tuo altrove ero io. Improvvisamente capisco cosa devo fare. Scaravento la bottiglia vuota a terra, mi schiarisco la voce e prendo il telefono.

«Ciao Francesco, scusa se ti chiamo senza preavviso, forse ti disturbo e scusa soprattutto per ieri nel tuo ufficio, ma puoi immaginare la spiacevole sorpresa più che altro improvvisa. Possiamo parlarne con calma? Preferirei in zona neutra, diciamo così, a casa da me, se ti va, anche dopo il lavoro appena finisci. Perfetto, ti do l’indirizzo.»

Mi ritrovo quasi a ringraziare la precarietà che mi hai regalato e che dovrò affrontare, perché tra qualche ora saremo io e te da soli. Per la prima volta niente riunioni e niente gente intorno, solo noi due. Parleremo di argomenti ordinari e scontati inizialmente, poi ti offrirò un caffè, mi spiegherai per bene ogni dettaglio per il quale sei costretto a sbattermi fuori dall’azienda, che non dipende certo da te, di non prenderla sul personale, di vedere la cosa sotto un altro aspetto, che anzi si tratta di un valore aggiunto per la mia carriera, eccetera, eccetera, eccetera. Ti lascerò parlare, ti ascolterò. Ti dirò che ti capisco e che hai ragione e mi scuserò di nuovo per la mia reazione e anche per il caffè non troppo buono. Poi mi ringrazierai e ci saluteremo con una stretta di mano, dandoci appuntamento all’indomani per avviare la pratica di trasferimento, mi augurerai un in bocca al lupo per la mia vita futura e magari scherzeremo se la risposta adatta sia crepi il lupo o viva il lupo. Aggiungerai il solito banale a presto senza dare peso a un’espressione che indica la speranza o il desiderio di rivedersi. Fine della storia, fine del film.

Poi adesso

«Ciao permesso? Che posto strano per un’abitazione, sembra una specie di scantinato però sei riuscita quasi a renderlo un appartamento decente.»

Invece no, invece sarò io scrivere il finale. Tanto vale raccontarti tutto, ormai cosa ho da perdere? Ti rivelerò di quante innumerevoli volte ho fantasticato di poter insinuare le mie dita sotto la tua camicia a sfiorare la tua pelle fremendo esitante, di come abbia desiderato piano spogliarti fino a ritrovarmi strisciante e strusciata a te. E alla fine ti confesserò di tutte le altre volte in cui, consapevole, tornavo con i piedi per terra. Forse così capirai cosa significhi scavarsi dentro fino a combattere in un deserto di carezze tenendo il nulla stretto fra le mani, il nulla fatto delle tue mancanze e della tua indifferenza. O quanto possa valere quella gioia demoniaca di frantumare la corazza della realtà mandando a fanculo il destino, quello che ha deciso per me e che mi vuole senza te. Poi potrai anche licenziarmi e far saltare il mio trasferimento, pazienza, troverò altro.

Non faccio caso ai tuoi modi scortesi e sgarbati al mio invito a farti entrare.

 «Accomodati pure, sì scusa la confusione ma i lavori di ristrutturazione sono ancora in corso, Ascolta, prima che inizi tu, vorrei parlare io, se non ti spiace.»

Non so da quanto tempo ti sto parlando. Forse è questa lucida ebbrezza che mi permette di estraniarmi dal contingente e riempirti di parole. Ti vedo preso e attento e questo mi dà la carica di proseguire. Dimenticando di avere il mio capo di fronte, mi sto rivolgendo a te come a un amico, seduti sul mio divano. Sento l’agitazione salire. È meglio che aspetti un po’ prima di rivelarti i miei sentimenti. Intanto ho bisogno di tranquillizzarmi così mi alzo e metto su quella canzone, il sottofondo che accompagnava quel nostro primo incontro nel momento esatto in cui ti ho notato. L’ho sentita a ripetizione in questi anni, qualche volta anche in ufficio durante le pause, anche davanti a te che entravi e mi davi una qualsiasi comunicazione di lavoro. Una mania, un mantra, un’ossessione, una maledizione. Torno a sedermi accanto a te e ti impiatto qualche altro discorso sul mio passato, sul mio futuro, che dopotutto sono contenta di cambiare sede, che forse è un modo per crescere e altre stronzate buttate lì tanto per parlarti, tanto per prendere tempo. Intanto mi avvicino un po’ a te con movimenti e gesti che sembrano non voluti, calamitata dai tuoi occhi e dai tuoi capelli. Non ti muovi, forse perché non te ne sei nemmeno accorto. Sto per perdere il controllo e allora rischio e approccio un tentativo, un azzardo.

«Mi mancherà tutto di questi anni trascorsi qui, tutto del lavoro, tutto di te, Francesco. Mi mancherai, sì. Mi mancheresti anche se non ci fossimo mai conosciuti.»

Le nostre ginocchia si toccano e restano lì, ferme, congiunte, incollate. Continuo a parlare. Ora sei tu che ti avvicini ancora di più a me. Continuo a parlare. Le tue mani sfiorano impercettibilmente le mie. Continuo a parlare. Le tue braccia iniziano ad avvolgere le mie spalle. Continuo a parlare. La tua bocca si avvicina alla mia. Continuo a parlare. L’eccitazione mi ha avvolto e mi si appiccica addosso come miele. Guardami mi ordini.  Occhi negli occhi per un attimo. Poi improvvisamente ci ritroviamo nudi e avidi mentre ci scambiamo la crosta dell’anima e l’impalcatura delle membra. L’amore impossibile che stiamo facendo, tossico e assoluto, mi regalerà solo briciole lo so, ma che importa. Mentre mi baci e mi esplori mi chiedo se i posti o le cose abbiano memoria. Questa casa, questo divano si ricorderà dei nostri corpi? Ti lascio fare e mi lascio prendere senza opporre resistenza. Il tempo di un orgasmo rapido, il tuo, senza scia e senza scrupoli e ti ricomponi. Aspetto quel cenno di scusa per esserti dimenticato del mio. Cenno che non arriva. Inizio a rivestirmi anche io quando mi accorgo che, già con indosso giacca e cravatta, metti mano al portafoglio ed estrai alcune banconote che poggi sul tavolo. Non capisco. Ti chiedo spiegazioni di quel gesto.

«Che stai facendo, cosa sono quelle…»

Mi dici che hai fatto del buon sesso e che mi ringrazi, e di considerare quei soldi un semplice omaggio, una riconoscenza. Continuo a non capire. E tu non mi spieghi e non aggiungi altro. Mi lasci così augurandomi qualche banalità di circostanza per il mio futuro. Mi hai pagato. Mi hai preso per una puttana. Ma chi sei? Ma chi cazzo sei? Chi hai pagato? La donna che hai conosciuto anni prima a una festa oppure una tua collaboratrice? Non saprai mai che hai pagato una donna che ti ama. Sicuro di non essere ricattabile e che non mi metta a fare denunce, ti senti protetto dal tuo senso di onnipotenza e dallo stuolo dei tuoi avvocati. Mi chiedi un po’ d’acqua prima di andare via, che il sapore del mio umore ancora nella tua bocca inizia a diventare sgradevole. Mi chiedi poi se ho un po’ di bicarbonato perché quel gusto salato è fastidioso ma mi restituisce un sentore di pulizia mi dici.

«Sì, ce l’ho. Aspettami qui e poi vattene.»

Quel mio finto risentimento di rabbia non l’hai colto. Non era rabbia, infatti, e forse nemmeno disperazione. Non sto lì a dare un nome a quel mio dolore. Voglio solo mandarti via. Questo scantinato quasi decente è frequentato da topi che sfamo regolarmente, penso. E tu non sei che uno di loro. Non ho il bicarbonato ma vado di là in cucina e inizio a preparare la miscela per te. Cosa sarà mai farti provare un po’ di mal di pancia con un miscuglio incolore e inodore per topi in confronto al male che tu hai fatto provare a me? Aggiungo un po’ di sale per non destare sospetti, ti offro il bicchiere, tu bevi avidamente e poi aspetto di vederti varcare quella soglia e liberarmi di te come la peggiore delle tossine. Ma inizi a stare male subito. Come è possibile? Ho forse sbagliato le dosi? Volevo solo spaventarti e poi avresti dovuto avere qualche forte malessere rincasando con calma, non certo qui davanti a me. Cosa succede? Inizi a contorcerti preso da spasmi. Mi chiedi aiuto ma io non so cosa fare. Urli e ti accasci a terra. Sentiranno i vicini, mi preoccupo. Allora alzo la musica e la nostra canzone guaisce fino allo stremo. E poi ti blocchi di colpo. Il tutto sarà durato meno di un minuto. Devo chiamare un medico? Ma no, troppe complicazioni. Ti lascio qui a riflettere o a morire. Fatti tuoi. Te lo chiami da solo, ammesso che serva. Mi accerto che tutto sia a posto e sotto controllo, cancello le impronte, non si sa mai. Poi questa baracca non è nemmeno mia, ci vengo ogni tanto a salutare i topi per stanarli. Spiegarti ora perché non ti ho invitato a casa mia e perché abbia architettato il mio piano alternativo e tutti i possibili scenari a cosa servirebbe? Ora che sei qui sdraiato in terra immobile, che niente più mi lega a te?

«Sono una donna previdente, cosa credi.»

Lo dico a voce alta. Posso però dirti che qualche tecnicismo oculato l’ho imparato anche io alla fine per non sopperire all’inquietudine della ricerca perenne di te. Sai che ti dico? Me ne vado. Che strano effetto purificatorio fa la vita quando va avanti, non ti avverte e ti lascia indietro. Ti tramuta in un disegno e i disegni hanno questa immensa capacità di annullare la realtà. Disegnare te oggi è stato come bere un bicchier d’acqua. Sorrido divertita al mio geniale e allusivo pensiero e faccio per uscire quando mi sento stringere la caviglia. Non sei morto. Perdo l’equilibrio e cado. Mi insulti e mi colpisci con qualche arnese che devi aver trovato in terra. Ti restituisco il favore con graffi e morsi. Continuiamo così in una lotta brutale e impari, sto per soccombere. Poi lo vedo. Poco più in là, tra calcinacci e detriti, sotto un fatiscente tappeto c’è un rigonfiamento e alcune pietre fanno capolino. Non so come ma riesco a divincolarmi per un attimo dalla tua stretta e mi trascino fino a prenderne una, la più grande e con una forza brutale te la sbatto contro. Il primo colpo inferto va a segno proprio sulla tempia che mi offri senza volerlo. Continuo ripetutamente a colpire. Ma tu reagisci e mi attacchi di nuovo. Il sangue che forma delle chiazze irregolari sul pavimento con rivoli discontinui sarà mio o tuo? Mi resta ancora un filo di voce.

«Hai mai amato una cosa da matti, una cosa che ti tiene sveglio, che ti si accumula nel cervello e ti impedisce di dormire fino a rivelarsi mortale?»

 Per tutta risposta mi sputi addosso. Hai sprecato l’ultima possibilità di amarmi, di redenzione. Il sasso è ancora nelle mie mani e ora che lo guardo meglio ha una forma irregolare, come di una nuvola. Stremata e agonizzante ti guardo. Sorrido. Mi vedi sorridere. Ti rivelo io una cosa senza dirtela: rispondono, eccome se rispondono. Non avrò grandi competenze ma una cosa so farla proprio bene, parlare con i sassi e con le nuvole.

Elisabetta Bordieri

 

Elisabetta Bordieri nasce a Roma ma vive in Toscana tra colline e aironi, dentro una cartolina. Scrive racconti, genere che predilige perché è dentro l’essenzialità che si cela il limite del superfluo. Legge brani di poesia e prosa con letture sceniche e interpretative. Partecipa a corsi di laboratorio teatrale. Si allena lungo gli argini del fiume. E ancora.

 

 

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9 Commenti

  1. Andrea

    25 Luglio 2024 a 11:34

    Bello, liberata dalla schiavitù dell’amore disperato. Brava, come al solito, scrivi da “Dio”.
    E scusami ancora per il ritardo. Baci

    rispondere

  2. Elisabetta Bordieri

    8 Luglio 2024 a 12:33

    Il grazie di sempre alla redazione di Inchiostronero per ospitarmi e grazie ai lettori per leggermi e commentarmi.

    rispondere

  3. Maurizio

    4 Luglio 2024 a 18:59

    Duro come una sassata nello stomaco, leggero (quanto a piacere di lettura) come una nuvola. Il tuo stile ormai è una certezza, un cristallo prezioso dalle mille sfaccettature, tagliente come una punta di diamante e altrettanto limpido. Insomma, per dirla in due parole: questa tua ultima storia è un noir erotico “semplicemente perfetto”. Bravissima!

    rispondere

  4. Emiliano

    2 Luglio 2024 a 20:43

    Ormai sono un tuo assiduo lettore. Affascinante davvero. Bravissima!

    rispondere

  5. Alberto Maria Onori

    2 Luglio 2024 a 16:45

    Lo stile è quello, a me già noto, della scrittrice: nitido, pulito e curatissimo.
    Se possibile, rispetto al resto dei suoi scritti che ho potuto leggere, è ancora più scarno ed efficace. Ha un che di certe traduzioni (ottime) di Kafka.

    La trama è fatta di esperienze, di fatti e dati del suo reale che si intuiscono, si immaginano e rinviano a una dimensione ulteriore, una specie di secchio, di serbatoio, di cisterna di emozioni di cui si lascia trapelare gelosamente qualche frammento.

    Particolarmente interessante è la conduzione della trama su due piani temporali sovrapposti e intrecciati fra loro.

    Un romanzo liofilizzato, viene da chiedersi cosa ci fosse prima e come andrà a finire dopo. Speriamo che prima o poi Elisabetta trovi l’acqua che bisogna aggiungere.

    rispondere

  6. Giancarlo

    2 Luglio 2024 a 9:46

    Credo che questo racconto abbia una marcia in più. Perfetto dal punto di vista letterario, completo e stilisticamente senza neanche una sbavatura. Come sempre si arriva al finale del racconto con la curiosità del: E adesso chissà che fine gli aspetta ?????? Variopinte scene della nostra psiche che spesso interiorizza un sentimento non ricambiato e lo trasforma in ossessione. E’ una questione anche di chimica, non ci si attrae sempre, le dinamiche che accoppiano e ti portano ad essere un solo/a in due, almeno per me rimangono imperscrutabili. Non ne farei una colpa a nessuno. L’unico problema però rimane l’incontrollabile desiderio che caratterizza un rapporto a senso unico e che spinge tante persone a dire: Se non puoi essere mio , allora non sarai di nessuno e ti farò pagare tutto il dolore che questo mi comporta. Oltre c’è solo una profonda tristezza.

    rispondere

  7. Gianluca

    1 Luglio 2024 a 16:31

    Un altro “coglione” che fa la fine che merita! Brutto dirlo, ma il pathos della donna e le sofferenze a lei inferte per tutta la sua vita ci portano proprio a sperare in un finale così drammatico e liberatorio! Brava Eli, riesci anche stavolta a farci entrare nella psiche tormentata della protagonista e ad agire con lei!!

    rispondere

  8. Ilaria

    1 Luglio 2024 a 15:50

    Letto questo sarà bene prenderci il caffè al bar ! Impulsiva e passionale e con un giusto finale !
    Sempre bravissima

    rispondere

  9. Daniela

    30 Giugno 2024 a 16:06

    Pazzesco, vorticoso, angosciante. Si prende fiato solo alla fine. Scopo pienamente riuscito. Bravissima

    rispondere

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