Il barile di Amontillado(1) (in inglese: The Cask of Amontillado o The Casque of Amontillado) è un racconto breve scritto da Edgar Allan Poe e pubblicato per la prima volta sul numero di novembre 1846 di Godey’s Lady’s Book.

La storia è probabilmente ambientata in una non identificata città italiana o comunque europea; anche l’anno non è specificato, per quanto alcuni riferimenti letterari spingano a collocarla fra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo; tema centrale è l’atroce vendetta che il narratore infligge ad un suo conoscente, colpevole di averlo insultato con qualche azione sconosciuta al lettore. Come in altri lavori di Poe, la trama si sviluppa intorno ad una persona che viene sepolta viva. Le vicende, come in altri racconti, sono narrate secondo la prospettiva dell’assassino.

fonte Wikipedia. 

 

 

Avevo sopportato come meglio avevo potuto le mille offese di Fortunato. Ma quando egli si spinse sino ad insultarmi giurai vendetta. Voi però che ben conoscete la natura del mio animo non immaginerete certo che io possa avere espresso alcuna minaccia. Mi sarei vendicato COL TEMPO; questo lo avevo ben stabilito, ma la determinazione stessa con la quale avevo deciso di agire precludeva ogni idea di rischio. Non soltanto dovevo punire, ma dovevo farlo senza riportarne danno. Un torto non è riparato, se la punizione ricade sul vendicatore; e rimane ugualmente inespiato, se il vendicatore non riesce a farsi riconoscere da colui che gli ha recato offesa.

Voglio fare chiaramente intendere che non ho dato modo a Fortunato né con parole né con gesti di dubitare della mia buona disposizione d’animo nei suoi riguardi. Continuai, com’era mia abitudine, a sorridergli, ed egli non si accorse mai che il mio sorriso ADESSO nasceva dal pensiero del suo prossimo annientamento.

Aveva un punto debole, questo Fortunato, benché per altri versi fosse uomo da incutere rispetto e persino paura. Egli si vantava di essere gran conoscitore di vini. Pochi italiani hanno il temperamento del vero VIRTUOSO: di solito il loro entusiasmo è adeguato al tempo e alle circostanze, e si affina soprattutto nell’imbrogliare i MILLIONAIRES inglesi o austriaci. In fatto di pittura e di gemme, Fortunato, come tutti i suoi compatrioti, era un ciarlatano; ma in quanto a vini vecchi se ne intendeva. Sotto questo riguardo io non differivo molto da lui; ero anch’io esperto di vini italiani, e ne compravo in grande quantità̀ ogni qualvolta mi era possibile.

Fu verso l’imbrunire, in una sera in cui il carnevale al suo colmo impazziva nelle sue estreme follie, che io incontrai il mio amico. Mi si avvicinò con eccessivo calore, poiché aveva bevuto moltissimo. Era travestito da buffone: indossava un abito aderente a strisce, e in capo aveva il caratteristico berretto conico ornato di campanelli. Fui tanto più felice di vederlo, in quanto non avevo affatto immaginato di potergli stringere la mano.

Gli dissi: – Mio caro Fortunato, che fortuna di incontrarti. Stai particolarmente bene, quest’oggi! Ma io ho ricevuto un barile di quel che passa col nome di Amontillado, e ho i miei dubbi.

– Come? – esclamò. – Amontillado? Un barile? Impossibile. E proprio nel mezzo del carnevale?

– Ho i miei dubbi, – replicai; – e sono stato tanto sciocco da pagare il prezzo che mi hanno chiesto senza consultarti in merito: ma non sono riuscito a trovarti, e avevo paura di perdere un buon affare.

– Amontillado!

– Ho i miei dubbi…

– Amontillado!

– … e vorrei diradarli. – Amontillado!

– Dal momento che sei impegnato, me ne andrò da Lucresi. Nessuno è più bravo di lui in fatto di giudizio critico. Lui saprà dirmi…

– Lucresi non sa distinguere l’Amontillado dallo Xeres.

– Eppure alcuni stupidi sostengono che il giudizio di Lucresi può stare a paragone del tuo.

– Su andiamo. – Dove?

– Nelle tue cantine.

– No, amico mio; non abuserò certo della tua cortesia. Capisco che sei impegnato. Lucresi…

– Io non ho nessun impegno; andiamo.

– No, caro. Qui non si tratta d’impegno, ma del brutto raffreddore di cui mi accorgo sei afflitto. Le mie cantine sono umidissime: sono tutte incrostate di salnitro.

– E andiamo lo stesso, che importa? Il mio raffreddore è una sciocchezza. Amontillado? Ti hanno imbrogliato; e in quanto a Lucresi ti ripeto che non è capace di distinguere lo Xeres dall’Amontillado.

Così dicendo, Fortunato si impadronì del mio braccio e io, dopo essermi coperto il volto con una maschera di seta ed essermi avvolto in un ROCHELAURE, acconsentii che mi sospingesse verso il mio PALAZZO.

I servi non erano in casa; si erano tutti eclissati a festeggiare il carnevale. Avevo detto loro che non sarei rientrato sino al mattino seguente, e avevo dato ordini espliciti affinché non si muovessero di casa. Sapevo perfettamente che questi ordini sarebbero appunto serviti ad assicurare la loro scomparsa immediata e totalitaria non appena avessi voltato la schiena.

Tolsi dai loro sostegni due torce, e dandone una a Fortunato lo condussi attraverso numerose fughe di stanze sino all’arcata che portava alle cantine.

Mi avviai per una lunga scala a chiocciola, raccomandandogli di essere cauto nel seguirmi. Giungemmo alla fine ai piedi della scala, e insieme ci soffermammo sul pavimento umido delle catacombe dei Montresor.

Il passo del mio amico era malfermo, e i campanelli del suo berretto tinnivano mentre egli avanzava barcollando. – Il barile, – disse.

– É più in là, – risposi, – ma osserva il lavoro di ragnatele bianche che riluce sulle pareti di queste caverne.

Si volse verso di me e mi fissò negli occhi con due orbite da cui stillava il liquido malsano dell’intossicazione.

– Salnitro? – mi chiese infine.

– Salnitro, – replicai. – Da quanto tempo hai quella tosse?

– Uch! uch! uch! Uch! uch! uck! Uch! uch! uch! Uch! uch! uch! Uch! uch! uch!

Per vari minuti il mio povero amico non fu in grado di rispondermi.

– Non è nulla. – disse infine.

– Su, – insistetti in tono deciso, – torniamo indietro; la tua salute è preziosa. Tu sei ricco, rispettato, ammirato, amato; sei felice come lo ero io un tempo. Tu sei un uomo di cui il mondo sentirebbe la mancanza. Di me invece non si cura nessuno. Torniamo indietro: staresti male e io non posso assumermi questa responsabilità. D’altronde c’è Lucresi…

– Basta, – m’interruppe Fortunato; – la tosse è una sciocchezza; non mi ammazzerà di sicuro. Non si muore di tosse.

– Certo… certo, – risposi; – e d’altronde non ho intenzione di spaventarti inutilmente… Ma vorrei che tu usassi tutte le cautele necessarie. Un sorso di questo Medoc ti proteggerà dall’umidità.

Così dicendo, feci saltare il collo di una bottiglia che insieme a una lunga fila di sue compagne giaceva in mezzo alla muffa.

– Bevi, – dissi presentandogli il vino. Egli lo portò alle labbra con un ghigno. Poi fece una pausa e mi salutò con un cenno amichevole, mentre i suoi campanelli tinnivano.

– Bevo, – disse, – ai sepolti che riposano intorno a noi.

– E io bevo alla tua lunga vita.

Egli mi prese nuovamente per il braccio e insieme proseguimmo.

– Questi sotterranei sono molto vasti, – osservò.

– I Montresor, – risposi, – erano una famiglia grande e numerosa.

– Ho dimenticato il tuo stemma gentilizio.

– Enorme piede umano d’oro, in campo azzurro. Il piede schiaccia un serpente rampante i cui denti sono conficcati nel calcagno.

– E il mio motto?

– NEMO ME IMPUNE LACESSIT. – Bello! – osservò.

Il vino gli scintillava negli occhi e i campanelli tinnivano. Anche la mia fantasia si era riscaldata col Medoc. Eravamo passati lungo sterminate pareti di scheletri ammonticchiati, mescolati a barilozzi e a botti enormi, sin entro i più riposti recessi delle catacombe. Qui sostai di nuovo, e questa volta mi avventurai sino a stringere Fortunato per il braccio, al disopra del gomito.

– Guarda! – dissi, – il salnitro aumenta. Si distende sulle pareti come muschio. Siamo al disotto del letto del fiume. Le gocce di umidità scendono scivolando in mezzo alle ossa. Su, torna indietro prima che sia troppo tardi.

La tua tosse…

– Non è nulla, – protestò; – andiamo avanti. Prima però voglio un altro sorso di Medoc.

Stappai una bottiglia di De Grave e gliela tesi. La vuotò d’un fiato. I suoi occhi luccicavano di un bagliore selvaggio. Rise e buttò la bottiglia in alto con un gesto che non compresi. Lo guardai stupito. Egli ripeté il gesto: un movimento grottesco.

– Non capisci? – mi disse.

– No, – risposi.

– Allora tu non fai parte della confraternita.

– Come sarebbe a dire?

– Non sei massone?

– Certo, certo, – dissi, – certo!

– Tu? Impossibile! Tu massone?

– Certo, – ripetei.

– Un segno, – disse, – dammi un segno.

– Eccolo, – risposi, estraendo da sotto le pieghe del mio ROQUELAURE una cazzuola.

– Tu hai voglia di scherzare, – esclamò arretrando di alcuni passi. – Ma andiamo avanti: voglio assaggiare l’Amontillado.

– Come vuoi, – dissi riponendo lo strumento sotto il mantello e offrendogli nuovamente il braccio. Egli vi si appoggiò pesantemente. Proseguimmo in cerca dell’Amontillado. Passammo lungo una fila di basse arcate, discendemmo, proseguimmo ancora, ridiscendemmo per giungere infine a una cripta profonda, nella quale l’atmosfera era talmente viziata che le nostre torce più che fiammeggiare fumigavano.

All’estremità di questa cripta se ne apriva un’altra meno spaziosa. Le sue pareti erano state tappezzate con resti umani, ammucchiati sino alla volta del sotterraneo, secondo l’usanza delle gradi catacombe parigine. Tre lati di questa cripta interna erano ancora ornati in questa guisa. Sulla quarta parete le ossa erano state raschiate via, e giacevano alla rinfusa sul terreno, formando in un punto un mucchio piuttosto alto. Attraverso questo muro così perforato in seguito allo spostamento delle ossa scorgemmo un’altra cripta o recesso ancora più interno, profondo circa un metro, largo novanta centimetri, alto sei metri all’incirca. Sembrava che non fosse stato costruito per alcuno scopo speciale, ma che costituisse semplicemente un intervallo tra i due colossali sostegni della volta delle catacombe, ed era rafforzato da uno dei loro muri perimetrali in solido granito.

Invano Fortunato, sollevando la sua torcia semispenta, tentò di spiare entro le profondità del recesso. Quella debole luce non ci permetteva di vederne la fine.

– Va avanti, – dissi; – lì dentro c’è l’Amontillado. In quanto a Lucresi…

– É un imbecille, – m’interruppe il mio amico avanzando con passo malfermo mentre io lo seguivo immediatamente alle calcagna. In un attimo raggiunse il termine della nicchia, e vedendosi fermato nel suo procedere dalla roccia, ristette attonito, come istupidito. Un attimo ancora e io lo avevo legato al granito. Alla sua superficie erano attaccate due catene di ferro, distanti l’una dall’altra in senso orizzontale circa sessanta centimetri. Da una di queste pendeva una breve catena, dall’altra un lucchetto. Bastarono pochi secondi a fargli girare le catene attorno alla vita e a saldarle. Era troppo intontito per opporre resistenza. Tolsi la chiave e mi allontanai di qualche passo.

– Fa scorrere la mano sopra il muro; – dissi, – è impossibile che tu non senta il salnitro. C’è veramente un’umidità SPAVENTEVOLE. Ancora una volta ti IMPLORO di tornare indietro. Non vuoi? Allora bisogna proprio che ti lasci, ma prima devo prestarti tutte le piccole attenzioni che ho il dovere di renderti.

– L’Amontillado! – esclamò il mio amico, il quale non si era ancora riavuto

del suo stupore.

– Già, – dissi, – l’Amontillado.

Mentre proferivo queste parole presi ad affaccendarmi tra il mucchio d’ossa di cui ho già parlato. Le buttai da un canto e scoprii ben presto una certa quantità di pietra da costruzione e di cemento. Con questi materiali e con l’aiuto della mia cazzuola incominciai a murare energicamente l’entrata della nicchia. Avevo appena terminato di posare il primo strato di muratura che mi accorsi che l’ubriachezza di Fortunato era in gran parte sfumata. Il primo indice di ciò lo ebbi da un gemito sommesso che mi giunse dalla profondità del loculo. NON ERA il grido di un ubriaco. Seguì poi un silenzio lungo, ostinato. Posai il secondo strato, il terzo, il quarto; allora intesi le vibrazioni furibonde della catena. Quel rumore durò per parecchi minuti, durante i quali, per poterlo udire con maggiore soddisfazione, interruppi il mio lavoro e mi misi a sedere sulle ossa. Quando finalmente quel clangore di catene cessò, presi nuovamente in mano la cazzuola, e proseguii senza interruzioni il quinto, sesto e settimo livello. Il muro era ormai quasi a livello del mio petto. Sostai nuovamente, e tendendo la torcia al disopra dell’opera muraria gettai i suoi deboli raggi sulla figura rinchiusa.

Un succedersi di strilli violenti e acuti, prorompenti improvvisi dalla gola della forma incatenata parve gettarmi bruscamente all’indietro. Per un breve attimo esitai, tremai; sfoderando la mia spada presi a volteggiare tastoni con essa torno torno alla cripta, ma bastò un attimo di riflessione per rassicurarmi. Posai la mano sulla solida costruzione delle catacombe e mi sentii soddisfatto. Tornai ad avvicinarmi al muro, risposi alle urla dell’indemoniato. Le ripetei come un’eco, le aiutai, le superai in volume e in forza. Feci questo, e lo schiamazzatore si tacque.

Era ormai mezzanotte, e la mia opera stava per terminare. Avevo completato l’ottavo, il nono e il decimo strato. Avevo finita una parte dell’undicesimo e ultimo; non mi restava più da commettere e cementare che una sola pietra. Lottavo con il suo peso; la posai parzialmente nel suo posto designato. Ma ecco giungermi dalla nicchia un riso sommesso che mi fece rizzare i capelli in capo. A questo seguì una voce triste che ebbi difficoltà a riconoscere per quella del nobile Fortunato. La voce diceva:

– Ah! ah! ah! Ih! ih! ih! Gran bello scherzo davvero: una beffa magnifica. Ne faremo di risate a questo proposito al PALAZZO… Ih! ih! ih! A proposito del nostro vino… Ih! ih! ih!

– L’ Amontillado! – dissi.

– Ih! ih! ih! Ih! ih! ih!… Già l’Amontillado. Ma non si sta facendo tardi? Non ci staranno aspettando al PALAZZO, madonna Fortunato e gli altri? Andiamocene.

– Già, – dissi, – andiamocene.

– PER L’AMOR DI DIO, MONTRESOR!

– Già, – ripetei, – per l’amor di Dio! Ma attesi invano una risposta a queste parole. Divenni impaziente. Chiamai forte…

– Fortunato!

Nessuna risposta. Chiamai di nuovo… – Fortunato!

Ancora nessuna risposta. Infilai una torcia nel piccolo vano rimasto aperto e la lasciai cadere all’interno. Mi giunse in risposta soltanto un tintinnio di campanelli. Il mio cuore ebbe un brivido: era l’umidità delle catacombe che produceva in me quest’effetto. Mi affrettai a terminare la mia bisogna. A forza spinsi in sito l’ultima pietra e la cementai. Contro la nuova opera muraria rinnalzai l’antico contrafforte d’ossa.

Da mezzo secolo nessuna creatura mortale le ha più disturbate.

IN PACE REQUIESCANT.

 (1) Vino liquoroso, simile allo xeres, prodotto nelle città di Montilla e Moriles, nella Spagna meridionale.

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