Un racconto fantasmagorico su ciò che la mente può vaneggiare, favoreggiare su un calamaio contenente un inchiostro omicida

IL CALAMAIO


A vent’anni io e Marco decidemmo di mettere tutto da parte e dedicarci a visitare tutte le fiere di fumetti più importanti. A ventidue anni avevamo finito.

Come saprà chi ha partecipato, il tema medievale è quello dominante nella maggior parte di questi eventi, ed era anche quello che più ci affascinava: fu davanti a uno stand di oggetti antichi che io conobbi mia moglie, futura scrittrice di romanzi storici; e fu davanti a un duello di spada che io e Marco decidemmo di fare del Medioevo il nostro collante.

   “Ogni anno ci regaleremo degli oggetti di fattura medievale: alla fine della nostra vita avremo la più grande collezione del mondo”.

Ci regalammo tappeti, spade, scudi, oggetti di mobilio bizzarri, armature, mantelli e così via.

Arrivai al suo trentottesimo compleanno senza più idee. Le più ovvie erano andate, le meno ovvie mi sembrava che fossero pure loro scomparse, ed Internet pareva la biblioteca meno fornita del paesino più piccolo d’Italia. Non mi restava che darmi al caso: uscii di casa alla ricerca di mercatini di antiquariato.

Mi trovai davanti a un negozio conosciuto: era lo stesso in cui avevo comprato l’armadio per mia madre, che non sopportava di dover cambiare lo stile legnoso del suo appartamento per adattarsi al plasticume che si trovava in commercio. Non avevo realmente speranza di trovare qualcosa di antecedente al 1920, anche solo per lo stile, ma almeno un gancio che permettesse alla mia fantasia di prendere il volo.

Da quando c’ero stato l’ultima volta il negozio aveva cambiato completamente la fornitura: era passato da armadi e tavoli a oggetti più piccoli come tappeti, penne, vestiti, ditali, macchine da scrivere, da cucire, libri, riviste, fumetti, chiavi di ogni forma… mi fermai. Davanti a me c’era un’estesissima zona riservata a calamai d’epoca: ce n’erano di tutti i tipi, di tutte le forme, colori e incrostazioni. Pensai subito che con quella varietà chiunque ne avrebbe potuto trovare uno adatto alla propria personalità.

   “Belli, eh?… Me li ha venduti un ragazzino che liberava la casa del padre morto. Grande collezionista quell’uomo; dice che quando si è passati alla biro non ha retto lo shock e ha lasciato la moglie. Ogni giorno passava il tempo a pulirli, lucidarli e curarli. Ci scriveva pure.”

   “Lei sa se uno di questi potrebbe essere spacciato per fattura medievale? Magari questo?” 

   “Non so nemmeno se si usasse il calamaio nel Medioevo” disse l’uomo. La fattura mi piaceva: ramato, con dei gigli incisi a bassorilievo: l’avrei spacciato per un primo esemplare di rappresentazione di gigli francesi.

Comprai, impacchettai, e andai.

Una settimana dopo la festa ricevetti la tragica notizia della morte del mio migliore amico. Durante il compleanno stava bene: mangiava, rideva, scherzava, e niente in lui faceva presagire il funesto avvenimento.

Aveva iniziato a stare male, a detta della moglie, due giorni dopo l’evento, e tre giorni dopo era stata costretta a portarlo in ospedale, dove i medici hanno lottato contro il tempo per capire cosa avesse e come curarlo: il suo organismo pareva essere intossicato, le sue cellule morivano a velocità vertiginose; non riuscirono a constatare altro che colui che mi aveva accompagnato per il corso della mia vita mi lasciava per sempre.

Ma non finiva lì: la moglie, come me e come tutti, non accettava questa conclusione insensata: era stato avvelenato e voleva sapere da chi, da cosa e perché. Il funerale venne rimandato e il corpo sottoposto agli esami più attenti. Pagammo numerosi esperti per analizzare il caso e si arrivò ad una conclusione: allergia.

   “Cosa dite? Non era allergico a niente, e di certo non abbiamo cambiato dieta così, senza accorgercene.”

   “Le allergie non sono solo ai cibi. È possibile che abbia toccato qualcosa di insolito?”

E via a chiamare i chimici per analizzare l’inchiostro del calamaio; esami ed esami e infine la risposta: era velenoso, un tipo di inchiostro che non si usava più da anni per le sue proprietà venefiche.

Non sto neanche a dire che effetto mi fece la notizia di aver ucciso il mio migliore amico; basti che per un mese sognai calamai pronti a tutto per avere la loro vendetta, e il resto della storia parlerà.

Il povero venditore di antiquariato venne arrestato per aver venduto sostanze illegali sotto forma di normale inchiostro; che lui non ne fosse a conoscenza conta poco: avrebbe dovuto fare le sue ricerche.

Preso da sconforto e così pieno di sensi di colpa da non sapere neanche più verso chi fossero indirizzati, andai a trovarlo in carcere per chiedergli scusa per come si era sviluppata la situazione.

   “Se c’è qualcuno che deve essere punito di certo non è lei, che è così bravo e gentile e non ha peccato in altro che in eccessiva fiducia”.

   “Mai fidarsi, mai fidarsi. L’avrei dovuto capire anni fa che l’unico obbligo che mi lega alle persone è la gentilezza, che di fidarmi non me l’ha mai chiesto nessuno… tranne mia moglie: e guarda com’è finita”.

   “Vorrei poter rimediare”.

   “No, no! Ho sbagliato e per colpa mia una persona è morta. Solo una cosa ti chiedo: vai in negozio e liberati di tutti quei dannati calamai.”

   

Mi munii di buste, pinze e guanti (che non volevo fare la stessa fine del mio amico) e andai al negozio.

Mentre mi avvicinavo mi sentii prendere da un vago sconforto, che divenne sempre più concreto con il diminuire della distanza dalla porta; il mio primo pensiero fu che mi stavo comportando da classico criminale che torna sul luogo del delitto; supposizione che veniva confermata anche dalla novella attrazione che mi nasceva in petto: è così che si sentono gli assassini?

L’insegna mi invitava, cupa e antica, ad ignorare il negozio e la promessa fatta, e andare avanti. “Casa di Mario” mi rimbombava in testa come il cattivo presagio che avrei dovuto percepire quel giorno. Casa di Mario, Cala di Maio, Calamaio, calamaio. Era tutto scritto: potevo capirlo, potevo arrivarci. Cos’era alla fine un calamaio se non un contenitore di un liquido nero, un liquido di morte? E se quella scritta, come allora, stava cercando di dirmi qualcosa?

No, avevo fatto una promessa e andava mantenuta, qualunque ne fosse il prezzo, e anche avessi avuto ragione sarebbe andato bene perché meritavo una punizione.

Entrai nel buio.

Usai la torcia per farmi strada fra gli oggetti, ma inciampai comunque tre volte prima di imparare a guardarmi tra i piedi. Camminai lento come un corteo funebre: non riuscivo a togliermi dalla testa l’insegna, il destino, la nostra capacità di controllarlo cogliendo i segnali… cala, maio, calamaio, i calamai. Erano lì, pronti ad essere presi e portati via. Catone avrebbe avuto quello stesso aspetto se avesse deciso di aspettare. La vista di tanta forza d’animo in degli oggetti mi turbò ulteriormente, volevo scappare, ma non potei.

La polizia mi stava dietro, puntandomi le armi al petto.

Qualcuno mi aveva visto entrare nel negozio e aveva pensato fossi un ladro.

   “Mi è stato chiesto dal signor Mario di venire qui per buttare i cala… i calamai; non volevo rubare niente.”

   “Questo lo vedremo.”, e fui portato in centrale per fare i dovuti accertamenti.

Mentre aspettavo sentivo gli sguardi di tutti addosso, come avessi ucciso qualcuno: avevo ucciso qualcuno, ma come facevano a saperlo? Si vedeva dal mio viso? Ero marchiato a vita? Non potevo trattenermi dal pensare che avrei dovuto ascoltare il presagio: cala maio, calamaio: morte, sfortuna, disperazione.

Ci vollero poche ore per tirarmi fuori, e mi diedero infine il permesso firmato per andare al negozio per fare quello che dovevo senza essere disturbato.

Pieno di paura e confusione, decisi di aspettare il giorno seguente per rimettermi al lavoro. Ma il giorno dopo ancora pensavo a Casa di Mario, al calamaio e tutte le sventure che vi erano collegate ed era evidente che avrei dovuto seguire l’istinto e non rimettere più piede nel negozio, ma cosa avrei raccontato al gentile proprietario del negozio? Dovevo in qualche modo espiare le mie colpe, così andai.

Torcia in mano, sacca, guanti, permesso: il negozio era tetro come il fondo del mare: i tavoli come scogli, le penne come alghe, la polvere i pesci che vagano verso la fine.

Eccomi finalmente davanti ai calamai; tenendoli d’occhio feci un passo. Tutto si era fermato intorno a me: la polvere non si muoveva più, la luce aveva smesso di passare per essere sostituita da lava bollente che mi riempiva occhi e cervello; un dolore insopportabile mi era partito dal piede, salito sulla gamba, e aveva toccato tutti i nervi. Urlai, e mi feci sentire da qualcuno in strada che venne ad aiutarmi.

Per una trappola per topi, restai in ospedale per due settimane.

Perché non avevo seguito il consiglio del calamaio, avevo rischiato di perdere un piede.

Non avevo intenzione di rischiare ancora: io e i calamai avevamo chiuso.

Tornai a casa deciso a cambiare vita. Mia moglie mi aspettava preoccupata e speranzosa.

   “Ora che stai meglio, tesoro, vedi l’insensatezza di quei discorsi sul destino che ti parla? Anche ti parlasse, lo farebbe comunque per avere quello che vuole, non ha senso cercare di capirlo.”

   “Ti prego, non ricominciare. Tre volte sono entrato in quel negozio e per tre volte è finita male: c’è qualcosa di ambiguo nel calamaio, ed io non ho intenzione di approfondire la questione. Io e i calamai abbiamo chiuso.”

   “Va bene. Però stasera ti porto a cena fuori, così ti distrai da queste sciagure e ti diverti un po’.”

Andammo in un ristorante con specialità di mare. Lei era vestita di bianco, bellissima e rassicurante. La notte calava sul nostro tavolo mentre si accendevano le luci soffuse. Era un posto sofisticato, con i camerieri vestiti da pinguini con tanto di schiena dritta e tovagliolo sul braccio. Chiedemmo di sorprenderci, neanche toccammo il menù, e la serata iniziò con una bottiglia di Franciacorta Millesimato, le bollicine, soprattutto se dal perlage finissimo, sono perfette per esaltare i primi con i frutti di mare, gamberi, scampi, aragoste, astici, granchi e canocchie. Ridevamo e scherzavamo, si stava bene.

   “Ricordi quando mi hai portato le rose a casa ma c’era solo mio padre a riceverle?”

   “Cos’è che mi aveva detto?…  Ah, i ragazzi d’oggi non sanno proprio portare rispetto agli adulti. Avrei preferito del vino, così mi fai sentire una donnicciola. Poi si ferma e fa però grazie, è un bel pensiero. E io non ho avuto il coraggio di contraddirlo.”

   “Sei stato dolcissimo. Peccato che mia madre ne era allergica e le abbiamo dovute buttare.”

    “Da lì mi sono dato ai peluche.”

   “Nel giro di un anno non avevo più posto dove dormire.”

   “Li hai ancora?… A parte quelli che hai portato da noi.”

   “Sono tutti al sicuro nello scantinato di casa mia. Alcuni mia sorella li ha dati ai figli per giocarci.”

    «Li hai tenuti proprio tutti?”

   “Tutti, anche la giraffa mezza mangiata da Bobby.”

   “Mi ci vorrebbe proprio un tuffo nel passato. Ti va se un giorno andiamo da tua sorella a pranzo?”

Arrivò il cameriere con due splendidi piatti di fritto misto.

   “Polpo, granchio e calamari fatti…” calamaro. Suonava orribilmente come calamaio, e anche lui era contenitore di nero in natura… però non erano la stessa cosa: cosa poteva succedere? Eravamo lì, in ristorante, con un sacco di gente e.… il cibo avvelenato, un pazzo con la pistola, il soffitto che crolla, il pavimento che cede, un incidente con una posata, trovarsi in mezzo a un litigio, a una tempesta, e poi come saremmo tornati a casa? Erano pensieri nati troppo spontaneamente per non essere frutto di un’influenza divina.

   “Tesoro, va tutto bene? Sei un po’ pallido.”

   “No, andiamocene.”

   “Cosa?”

Mi alzai e andai subito a pagare.

   “C’era qualcosa che non era di suo gradimento, signore? Non ha ancora toccato il piatto, se vuole possiamo cambiarglielo.”

Non si gioca col destino e già l’avevo imparato. Era tempo di andare e non mi sarei lasciato fermare da finte lusinghe diaboliche; il mio angelo custode aveva parlato.

Tornammo a casa in silenzio. Sofia era decisamente nervosa e io cercavo le parole per spiegarle la situazione. Lei doveva capirmi, doveva stare al mio fianco e assecondarmi, perché era l’unico modo in cui l’avrei potuta salvare: il destino parlava a me, ma se lei mi era accanto era anch’essa a rischio, e se mi avesse seguito avremmo potuto fare questo viaggio insieme.

   “Era necessario.”

   “Perché hai visto un calamaro in un ristorante di mare?”

   “Ci hanno portato proprio quello fra tutti i piatti possibili, dovrà pur significare qualcosa.”

   “Che vanno fieri del loro fritto misto? Chissà, non avremo mai occasione di assaggiarlo.”

   “Non capisci. Era per il tuo bene.”

Il giorno dopo mi mise davanti cinque giornali comprati quella mattina e il suo telefono sulle pagine delle notizie.

   “Sfoglia. Niente sul ristorante di ieri. Neanche un pettegolezzo sui social. Solo una recensione su TripAdvisor sulla spigola più buona che quei due inglesi avessero mai mangiato. Basta per convincerti che potevamo restare?”

   “Non capisci.”

   “Cosa non capisco?… Che hai avuto un trauma e soffri? Lo capisco e ti compatisco, ma non puoi lasciarti andare a queste sciocchezze. Sei più intelligente di così. Adesso ne hai anche le prove: c’era il calamaro e non è successo niente a nessuno.”

   “Tu stai bene?”

   “Certo che sto bene!”

    “È perché abbiamo lasciato il ristorante. Se fossimo rimasti sarebbe successo qualcosa; a noi e forse anche agli altri clienti.”

   “Ascoltati! Rinsavisci! Rovinerai il nostro matrimonio così.”

Mai fino a quel momento mi ero sentito più vicino alla fine. Il matrimonio era sempre stato per me il gancio che mi teneva ancorato alla realtà, alla vita: ora che era a rischio dovevo incominciare a riflettere seriamente sulle decisioni che avevo preso.

Il destino voleva qualcosa da me, e aveva fatto in modo di farmelo capire in diversi modi: ogni volta che andavo fuori strada lui si impegnava a riportarmi in pista: non capire quello che stava cercando di dirmi era da stupidi.

Eppure, lei era la persona più intelligente che conoscevo e mi stava dicendo che le mie convinzioni erano irrazionali, le mie decisioni da pazzi, i miei pensieri frutto di un trauma.

E tutti gli incidenti collegati al calamaio? Casualità, frutto del mio inconscio rimodellato.

La prima volta era stata un caso, la seconda prassi civile, la terza il mio inconscio che cercava di sabotarmi. I conti tornavano, ma non riuscivo a convincermene. Erano quelle sensazioni, così forti e repentine, che non potevano essere frutto di pazzia: la follia non si manifesta in questo modo, è più pungente e ti fa sentire come se avessi perso il controllo. Io il controllo ce l’avevo. Ero cosciente, stabile, in grado di prendere decisioni.

Tuttavia, lei era sempre stata più intelligente di me, ed era possibile che il suo ragionamento fosse più giusto del mio, per quanto entrambi frutto di lucidità.

Ma se io sono lucido allora non sono pazzo, e se non sono pazzo il suo ragionamento crolla.

Ha mai detto che non sono pazzo?

No, ha solo detto che sono ferito, e che non ragiono razionalmente.

Se fossi irrazionale non dovrei essere in grado di ragionare su quello da farsi, e invece sto ragionando molto attentamente sulla questione; mentre dovrei essere preso dagli impulsi e agire senza pensare sto pensando.

   “Ma le tue categorie sono deviate: i modelli che usi per ragionare non sono quelli logici ma quelli del sentimento.”

Questo è difficile da contraddire.

   “E la base stessa di tutto il tuo ragionamento è deviata: dare per scontato che esiste il destino; dire che sia così umano da volerti parlare; asserire senza ombra di dubbio che esista è da pazzi, e anche esistesse: agirebbe soltanto, non ti parlerebbe!”

Le sue parole erano lì, come stelle in cielo: esistevano, ma non per questo andavano toccate, non per questo potevano essere afferrate. E le mie, lì accanto come fiori appena sbocciati, erano belle quanto quelle, più accessibili, più facili da cogliere. La notte si dorme, il giorno si raccolgono i fiori. I fiori crescono anche grazie alla luce delle stelle, no? I fiori sono più completi delle stelle, autonome e narcisiste, no?

Ma non capivo perché lei dovesse ritenere la mia idea assurda da principio; non l’avevo neanche presa per vera da subito: avevo aspettato le prove, di saperne di più, ed esse erano arrivate, inconfutabili.

Il matrimonio valeva l’orgoglio?

Avrei fatto un tentativo, non volevo perderla.

A casa della sorella di Sofia stavamo passando una bella giornata. Il marito aveva cucinato per tutti uno dei suoi piatti speciali, e da quando avevo detto a mia moglie del mio nuovo proposito eravamo tornati in luna di miele, felici e spensierati. 

   “Quindi volevate frugare nello scantinato?”

   “Sì, pensavamo di andare alla ricerca di qualche ricordo perduto.”

   “Arrivate giusto in tempo, sapete? Stavamo giusto pensando di svuotarlo. Certo, ti avrei chiamato prima di buttare via le tue cose, ma comunque”

   “Come mai vi serve quello spazio?”

   “La verità è che stiamo avendo qualche difficoltà a mettere da parte i fondi per l’università di Cecilia, e pensavamo di costruirci una stanza e affittarla.”

   “Allora vi aiutiamo a sgomberare.”

Nel secondo pomeriggio andammo al piano di sotto, che nonostante la marea di roba era tenuto bene, tranne una ragnatela su una scatola all’angolo della stanza.

   “Sono i miei fogli dell’università!”

   “Vuoi tenerli?”

   “Ora guardo.”

Intanto io percorrevo la storia di quella famiglia completamente normale. I peluche erano tutti ammassati in due scatoloni enormi, testimoni di amore materno, paterno e romantico. I vestiti di tre vite erano riposti ordinatamente, unici dal futuro certo: la beneficenza. Libri, quaderni, scolastici e non, diari, orologi, occhiali, mobili… non avevano buttato niente finora. Era una mossa aggressiva: buttare il passato per fare spazio al futuro; buttare i ricordi dei genitori per investire negli studi della figlia.

Sofia era rannicchiata a leggere fogli da tutta la sera, mentre noi avevamo selezionato almeno la metà della roba da buttare e caricato in macchina quello che sarebbe andato a casa nostra.

Continuò a leggere anche durante il viaggio di ritorno.

   “Posso disturbarti?”

  “Certo… scusa”

   “Cosa leggi?”

   “Uno studio che avevo fatto all’università”

   “Su cosa?”

   “Mi sembra interessante; con le mie nuove conoscenze credo di poterlo rivisitare e pubblicare come nuovo.”

   “È un’ottima idea. Su cos’è?”

   “E se te lo dicessi quando ho finito, così ti sorprendo?”

   “Non ne so abbastanza di storia per potermene sorprendere. Perché non me lo vuoi dire?”

   “Ho paura della tua reazione.”

   “Su cos’è, Sofia?

   “Carlo Magno.”

Come un carillon i miei pensieri si diedero a un valzer sfrenato. Carlo Magno, imperatore. Carlo Magno, Carlo Mano, Cala maio, calamaio. Un Carlo Magno morto, trovato nello scantinato di ricordi destinati a morire, imperatore di un impero morto. Morto, che inizia come Magno, la fine di un periodo di grande splendore.

Lei, così intelligente, non sapeva che era questo che mi avrebbe detto il destino? Assurdo. Lei sapeva, sapeva e non diceva e non me l’avrebbe mai detto; anche ora non voleva dirmelo.

Tutti quei discorsi sul mio trauma, sulla mia pazzia, la mia irrazionalità… erano per proteggersi, ecco il perché.

   “Perché non parli?”

   “Come hai potuto mentirmi?”

   “In che senso? Io non ti ho mai mentito.”

   “Sapevi che era questo il finale. Sapevi che non eri tu la mia donna.”

   “Di che parli?”

   “Basta!”

La riportai a casa e preparai una valigia, poi me ne andai.

Firmammo le carte del divorzio in un silenzio pieno di incomprensioni e ci separammo senza una parola.

L’Impero del nostro matrimonio era finito, ed era giusto così: io non mi sarei più lasciato guidare da altro che dal destino, unico amico rimastomi.

I primi mesi senza lei furono difficili, soprattutto per la mia inettitudine nelle faccende domestiche. Ero in un vecchio appartamento al sesto piano, che mi avevano dato sporco come era stato lasciato dai precedenti inquilini. Provai a pulirlo come meglio potevo, ma non riuscivo mai ad ottenere un risultato ottimale.

La casa finì superficialmente pulita, ma continuava a puzzare; non importa quanto profumo io spruzzassi.

La cosa mi infastidì ogni giorno di più. Non sembrava una puzza normale, ma un odore di malattia pronto ad entrarmi nei polmoni e uccidermi dall’interno. Non ce la facevo più.

Chiamai una domestica e le chiesi di far sparire quell’odore, promettendole una paga doppia se ci fosse riuscita.

Intanto io andai in giro per lasciarle lo spazio per mettere a frutto i suoi anni di esperienza, ma i riferimenti ai calamai erano troppi per strada per poterli ignorare, così fui costretto a tornare all’appartamento.

   “Signore, io qui non posso fare.”

   “Perché no?”

   “Non è sporco, è topi.”

   “Topi?”

   “Nido topi. Lì.”

Dietro a un armadio che aveva spostato c’era un’enorme tana di topi, la cui entrata era segnata da un verde contorno di muffa.

   “Chiami disinfestazione”

   “Ha un numero?”

   “Ecco. Questo è buono. Che Lama io penso il migliore.”

Pagai, ringraziai e la congedai. La casa era comunque più pulita di prima, ma io rimasi con un peso nel cuore, che aumentava mentre componevo il numero. Cos’era?

Bip, bip… “questo è buono” bip, bip… “Che Lama io…” bip, pronto? Lama disinfestazioni” che Lama io, calama io, calamaio. bip. Dannazione, come avrei fatto con i maledetti topi adesso?

Un’altra ditta era fuori discussione con il dubbio che il blocco fosse proprio a quello, e non solo a quel Lama. E allora?

Andai al negozio e comprai nastro adesivo e cartone, con cui chiusi il buco come meglio potevo. Intanto mi rivolsi a un’agenzia immobiliare per cercare un nuovo appartamento.

Il sesto giorno di ricerca incessante incontrai la moglie di Marco, che mi offrì di andare a prendere un caffè.

   “Volevo dirti che non ce l’ho con te per quello che è successo. È stato un tragico incidente per cui nessuno ha realmente colpa.”

   “Lo so. Ma non posso fare a meno di sentirmi responsabile. Non dovrei neanche parlare con te.”

   “Puoi espiare la tua presunta colpa facendomi compagnia. Per favore, ne avrei proprio bisogno.”

   “Va bene”

   “Perché eri in agenzia?”

   “Topi in casa. Tu?”

   “Nuovo lavoro. In campagna.”

Ci incontrammo di nuovo e sempre più spesso.

   “Vieni in campagna con me? Avrei bisogno di una spalla”

   “Sì.”

Cambiai lavoro, città e vita. La campagna era fresca e i lavori fisici mi avevano dato la felicità. Avevo i polmoni pieni d’aria pura ed ero costantemente a un apice adrenalinico; il rapporto con Silvia mi aveva dato un’amica che mi capiva.

   “Sogno calamai quasi ogni giorno. A me parlano così.”

   “Così come?”

   “A seconda di quello che succede nel sogno capisco cosa fare e cosa non fare.”

Mettendo insieme le nostre conoscenze eravamo inarrestabili. Portammo presto l’azienda a un altro livello e ci internazionalizzammo nell’arco di un anno.

   “Ho bisogno che segui questo carico”, mi disse un giorno il capo, e mi mise in una nave verso l’America.

Il viaggio fu istruttivo. Stare solo per tanto tempo, con cibo e acqua da conservare e solo sale da respirare mi diede modo di pensare alla vita e a quello che mi aspettavo dal futuro, al senso della nostra esistenza terrena e al concetto di destino. Ormai non ero più un individuo autonomo: ero solo un fenomeno socioculturale guidato dai segni che mi venivano mandati, ed ero felice così. È sbagliato pensare che se non fossi stato non avrei potuto provare felicità, per il semplice fatto che il corpo umano è fatto per provare, ed io ero dentro al mio corpo come tutti voi fenomeni, solo che io ero consapevole del mio stato. C’era gente saggia a bordo, e di questo parlavo con loro.

Arrivati in America, la nave rallentò e si avvicinò al porto. Non vedevo persone diverse da quelle sulla nave da davvero tanto tempo, e i palazzi, le macchine e i rumori mi accecarono.

Andai a prua e sentii sotto di me qualcuno che urlava:

   “Cala l’ancora!”

Era… troppo poco? A cosa si riferiva? Veniva da sopra la nave, forse di questo si trattava: non salire più su una nave. Ma come avrei fatto a tornare a casa? In aereo, certo. E se mi stesse dicendo di non tornare più in Europa? Non potevo correre rischi.

No, invece era altro: era il mare il mio elemento. I calamari, il calare erano tutti segni che dovevo stare sulla nave.

Trovai lavoro su un’altro mercantile e iniziai a viaggiare fra Europa, America e Asia… trasportavo di tutto e vedevo solo acqua e acqua, e acqua.

Poi l’acqua divenne il pericolo. Il temporale. I pesci. Un calamaro gigante, bianco, mostruoso. La salvezza grazie ad un uomo in elicottero.

E allora capii che era l’aria a cui dovevo puntare: lo spazio. Devo evitare il calamaio; e come? Lo spazio. Lì niente mi ricordava il calamaio: stelle, sole, terra, tuta, astronave… nessuna parola che mi rimandasse al calamaio.

Mi addestrai e partii per la luna, dove restai e dove sono tutt’ora.

E tutto va alla grande.

Sara Conciatori

Carica ulteriori articoli correlati
Carica altro Sara Conciatori
Carica altro RACCONTI

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *