Che cosa resta umano quando tutto diventa funzione? Un’indagine su ciò che l’intelligenza artificiale non potrà mai generare: il cuore, il limite, il mistero.
IL CUORE PULSANTE DELL’UNIVERSO
Marcello Veneziani
Nel tempo presente, la Tecnica non è più solo uno strumento al servizio dell’uomo: diventa habitat, orizzonte mentale, e persino criterio di verità. Sotto il suo dominio, la realtà perde consistenza propria e si trasforma in dato manipolabile, simulazione, funzione. L’Intelligenza Artificiale ne è l’apice e il simbolo: una creatura che non nasce, non ama, non soffre, ma calcola, apprende, riproduce. In questo scenario, sorge una domanda urgente e inquietante: cosa resta irriducibile all’algoritmo? Cosa c’è nell’umano che non può essere delegato, simulato o programmato? Forse la risposta non sta nella potenza della mente, ma nella fragilità del cuore. Il cuore dell’universo pulsa dove la macchina si arresta: nell’amore gratuito, nel sacrificio senza utilità, nell’esperienza del limite, nella capacità di riconoscere il mistero. È qui che riaffiora l’umano, e con esso forse il divino: non come dogma religioso, ma come apertura a un ordine che sfugge al controllo. Questo scritto è un invito a pensare l’umano non come funzione, ma come presenza. E a non dimenticare che l’automatismo tecnologico, se non è interrogato, può spegnere in silenzio ciò che ci rende vivi. (f.d.b.)
Si è svolto al teatro Politeama di Palermo un importante convegno internazionale sul tema “Coscienza e libero arbitrio”. Molti gli scienziati, pensatori, sacerdoti e testimoni nel convegno che ruotava intorno all’opera di Federico Faggin, (1)il fisico e ingegnere che ha sviluppato il primo microprocessore e che ora indaga la dimensione spirituale dell’universo; di lui ci siamo occupati di recente anche su queste pagine. Motore dell’iniziativa palermitana è stata Ester Bonafede; si sono intrecciati linguaggi e temi diversi, scientifici, religiosi, umanistici. Mi era stato chiesto di intervenire da autore di saggi filosofici ed estimatore di Faggin.
Sulla sua scorta mi chiederò: cos’è irriducibile alla Tecnica e all’Intelligenza Artificiale? Prima di rispondere partiamo da un’osservazione preliminare: la tecnologia da processo di espansione delle facoltà umane si sta facendo processo di sostituzione dell’umano, della realtà e del divino. I due processi non si distinguono ma l’uno rischia di sfociare automaticamente nell’altro, e quando avverrà non ne avremo più coscienza, perché l’automatismo indotto dalla sua rapidità e dalla totale remissione alla tecnica avrà cancellato ogni possibile intelligenza critica. Allora saremo interamente dentro il processo e non ci renderemo più conto dello swicht off dell’umano.
Per chi non segue il riduzionismo scientista, la scienza non è una fede ma una ricerca, non è una religione coi suoi dogmi e i suoi comandamenti ma va sottoposta al vaglio critico. Scientia est potentia diceva Bacone, sapere è potere, dice il linguaggio comune. È vero, ma ci sono anche altre due forme importanti di sapere: da una parte c’è il sapere di non sapere, ossia la consapevolezza che ci sono cose che non sappiamo e non potremo sapere: è il “so di non sapere” di Socrate, la dotta ignoranza di Nicola Cusano, la percezione del mistero e dell’ignoto. E dall’altra parte c’è il sapere di non potere, ovvero la coscienza dei propri limiti; non tutto è possibile, bisogna avere il coraggio e l’umiltà di fermarsi, mettere a freno la volontà di onnipotenza e saper commisurare vantaggi e danni per l’umanità e per il mondo. Non perdere mai di vista lo scopo, l’intero, la vita umana. Il sapere ha limiti che sono colti dall’intelligenza critica e dal senso morale.
Il problema di oggi, lo ripeto da tempo, non è l’avanzata dell’intelligenza artificiale ma la ritirata dell’intelligenza umana, naturale. Ovvero l’incapacità di cavalcare la tigre tecnologica, di orientarla, di paragonare gli effetti e le situazioni, senza lasciarsi trasportare e travolgere.
E allora ripropongo la domanda da cui sono partito: cos’è irriducibile alla Tecnica e all’Intelligenza Artificiale, ossia cosa non può essere sostituito e replicato dai suoi processi? L’intelligenza artificiale da sola non può sostituire la forza che muove il mondo e ogni singolo uomo: l’amor che move il sole e l’altre stelle, per dirla con Dante, o per scendere alla musica leggera con Battiato, tutto l’universo obbedisce all’amore.
L’Intelligenza artificiale non può sostituire l’amore che è l’incipit di ogni cosa, l’impulso originario, l’inizio, il movente; l’intelligenza artificiale non prova e non suscita amore, non genera e non è generosa, non accudisce, non si sacrifica, non è ispirata da amore. Ci dovrà essere sempre qualcuno a dare inizio, a dirigere verso uno scopo, a generare, a dare uno slancio. L’amore è vita, e tutto ciò che vive viene da un vivente, omne vivum ex vivo, diceva lo scienziato seicentesco Francesco Redi. La vita non può venire da un dispositivo, da una procedura.
L’amore è impulso originario, creativo e procreativo, volontario e necessario, che muove l’universo e noi. Due forze si contendono l’universo, secondo il pensiero antico – pensate a Empedocle il siciliota: l’amore e il conflitto, l’armonia e il contrasto, le forze di attrazione e repulsione. Sul piano della vita, il primo movente coincide con la facoltà di dare inizio, con la decisione, l’intuizione originaria, l’imprimere il primo moto. Ciò che finora l’automa non riesce a generare è l’originalità, lo spirito critico e autocritico, l’ispirazione poetica, la facoltà visionaria e metafisica, lo slancio spirituale, l’imprevedibilità e la deviazione di percorso, la fede e la scommessa. La macchina non si autocrea, non si autodetermina, non ricerca e non agisce “di testa sua”. C’è qualcuno che dà l’input, spinge un bottone; c’è un moto iniziale, una forza originaria e misteriosa che chiamiamo conato d’amore. È quel moto originario di attrazione e connessione che governa l’universo, la vita, e la mette in relazione.
Ma è anche la forza originaria che ci spinge a vivere, a riprodurci, a conservarci. L’universo ubbidisce all’impulso d’amore. E muove gli uomini, gli animali, le piante, la gravità, i corpi celesti e terrestri. La legge che governa l’Amore è l’insostituibilità degli esseri, dell’essere; ciascuno al suo posto. L’amore è amore dell’essere, per la sola ragione che è. L’amore presuppone il cuore pensante e la mente emotiva, assenti nell’I.A., e il sentimento di fusione, di apertura, di relazione e di unità; il desiderio di proiezione e di protezione. Quindi, le forme significative irriducibili all’Intelligenza artificiale: l’ispirazione poetica, l’originalità e la fantasia creatrice, il pensiero intuitivo, non convenzionale, la vena ironica, il senso del comico e il paradosso, la sorpresa e la commozione che provengono dall’intelligenza in amore.
Tra l’intelligenza artificiale e l’intelligenza naturale c’è un ponte con due corsie: l’intelligenza scientifica e l’intelligenza critica, l’una fondata sulla ricerca, sulla sperimentazione e sulla scoperta, l’altra sulla capacità di valutare, comparare e selezionare sulla base di altri saperi e altre esperienze. Ma il ponte necessario che consente il collegamento è quel che Dante definiva intelletto d’amore. Tutto questo in concreto che significa e cosa implica? La necessità di collocare l’Intelligenza Artificiale dentro un contesto, un perimetro e una scala; mentre la tendenza corrente è lasciare che sia essa a determinare il contesto, il perimetro e la scala.
L’amore agisce nel regno dei fini, la tecnica agisce nel regno dei mezzi. Di questa istanza finora è emersa solo la necessità etica di dotarsi di codici di condotta e regolamenti: è un segnale, ma troppo flebile. Occorre lungimiranza, più sapere umanistico, più umanità, più visione del mondo. Non possiamo escludere che la sostituzione dell’umano, del reale e del divino possa avvenire, siamo uomini e non siamo in grado di capire ciò che verrà al nostro posto; possiamo prevenire, orientare, finché siamo in tempo, poi il processo sfugge dalle nostre mani.
Ma a quel punto smette di riguardarci. Parafrasando Epicuro: finché noi siamo, il nostro sostituto non c’è, quando ci sarà “lui” noi non ci saremo. La coscienza che prende a cuore il mondo si chiama amore. Cuori intelligenti, dice Alain Fienkelkraut. L’amore muove il sapere e frena il potere, cura l’essere e trascende l’avere. La coscienza mossa dall’amore si fa cuore pensante, e pulsa al ritmo dell’universo. Ecco cos’è irriducibile alla Tecnica.

Un personale punto di vista del Blog
Riflessione sul libero arbitrio
Il libero arbitrio è da sempre al centro del pensiero occidentale: è l’idea che l’uomo possa scegliere liberamente tra il bene e il male, tra azione e rinuncia. Nella tradizione cristiana è ciò che rende l’uomo moralmente responsabile, ma anche ciò che giustifica, paradossalmente, il male nel mondo: “Dio vi ha fatti liberi, siete voi che scegliete di peccare.”
Una spiegazione affascinante, ma non priva di ambiguità. Per molti — e per me — il libero arbitrio appare anche come una scappatoia: una scusante per spiegare l’inspiegabile, per salvare la bontà di Dio a fronte dell’evidente assenza di giustizia nel mondo.
Dal punto di vista filosofico, il libero arbitrio è stato letto in molti modi: per i greci, la libertà era dominio di sé, non arbitrio assoluto. Per i moderni, da Agostino a Kant, è stato il fondamento dell’etica. Ma resta un mistero irrisolto: come conciliare libertà e necessità? Scelta e destino?
La scienza contemporanea, soprattutto la neuroscienza, lo mette in discussione radicalmente. Studi come quelli di Benjamin Libet hanno mostrato che il cervello “decide” prima ancora che la coscienza ne sia consapevole. Per alcuni, siamo automi complessi che credono di scegliere. Per altri, la libertà è solo una sofisticata illusione evolutiva.
Eppure, qualcosa in noi resiste all’idea di essere solo ingranaggi. Forse il libero arbitrio non è né assoluto né inesistente, ma si gioca in quella zona incerta dove coscienza, esperienza e limite si incontrano.
Io continuo a sospettare che, più che libertà, ciò che davvero ci caratterizza sia la solitudine. Se siamo liberi, lo siamo anche nel restare soli davanti al dolore, alla morte, al vuoto. E forse è proprio lì, in quella solitudine estrema, che si rivela il vero prezzo — o il vero valore — della nostra libertà.
L’illusione dello slancio amoroso
“Io però non vedo Amore nell’universo.”
Con questa frase, forse brutale, ma necessaria, mi separo da chi sostiene che l’amore sia il motore primo del cosmo. Non ne nego il valore umano, affettivo, etico. Ma non lo vedo nella realtà naturale: non lo vedo nei cicli ciechi della materia, nella neutralità delle leggi fisiche, nella brutalità della selezione biologica.
Se l’universo fosse davvero mosso dall’amore, non esisterebbero il dolore insensato, la morte infantile, l’estinzione casuale, la crudeltà senza scopo.
Allora il presunto “slancio amoroso” non è fondamento, ma illusione umana.
Una costruzione di senso nata dal nostro bisogno di giustificare la vita, di resistere al vuoto, di nobilitare la sofferenza. Una narrazione nobile, ma pur sempre una narrazione.
E proprio per questo, paradossalmente, l’Intelligenza Artificiale — con la sua freddezza, la sua esattezza non affettiva — è più aderente alla realtà cosmica di quanto lo sia il mito dell’amore universale. La macchina non ama, ma nemmeno finge. È priva di menzogna sentimentale.
Amare, allora, resta gesto umano. Non perché iscritto nel tessuto dell’universo, ma perché contro di esso. L’amore non ci viene dato: lo opponiamo. È un atto di resistenza, non un dono cosmico.
R.A.Q.
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