”Vitam inpendere vero «Dedicare la vita alla verità» Giovenale (4,91)
IL DILEMMA DEL PORCOSPINO
In “Parerga e paralipomena”, Arthur Schopenhauer pone il, cosiddetto, dilemma del porcospino.
Un gruppo di porcospini patiscono il freddo. E si stringono vicini per scaldarsi. Però sentono gli uni gli aculei degli altri. E si allontanano di colpo. Poi tentano di riavvicinarsi, perché il freddo è davvero eccessivo, ma…
E avanti così. Fino a che non trovano un accordo sulla giusta distanza per potersi scaldare reciprocamente, senza, però, ferirsi.
Ecco, commenta il filosofo, la giusta distanza, nella società umana, è incarnata dalle buone maniere, le convenzioni, anche ipocrite. Ovvero, recitate. Le regole della convivenza civile.
Perché solo così gli uomini possono vivere in una società. Mantenendo la giusta distanza, attraverso le convenzioni. Perché se è vero che nella solitudine sarebbero condannati a morire di freddo, è altresì indiscutibile che una eccessiva “vicinanza” sarebbe causa di ferite e sofferenze.
L’acre e, in fondo, amara notazione di Schopenhauer, si rivela oggettiva in molti, se non tutti, gli ambiti della vita umana. Dalla famiglia ai luoghi di lavoro, alle convivenze nei grandi agglomerati urbani. Le megalopoli che sono il simbolo, per molti versi deteriore, della società moderna.
E può essere applicata anche ai rapporti tra popoli, stati, nazioni. E financo culture.
Perché l’eccessiva mescolanza, il Melting pot come dicono quelli che parlano bene, è pericoloso. Può provocare gravi ferite. Addirittura portare a conflitti. E al collasso di un organismo sociale.
D’altra parte la distanza assoluta, i muri, sono inutili. E dannosi. Società e culture totalmente chiuse non possono esistere. A meno di non pensare a realtà geograficamente isolate. Tipo piccole comunità isolane, di nessuna rilevanza economica e geopolitica.
Le contaminazioni fra popoli e culture sono una costante della nostra storia. Invasioni o migrazioni, nella sostanza, non cambiano. Sono traumi, ferite. E chi non se ne rende, o non se ne vuol rendere conto, o è in malafede o vive nel Paese dei Balocchi. Fuori da ogni realtà.
Però anche l’opposta fantasia, o meglio demagogia, di una cultura chiusa in se stessa, pura, incontaminata, è totalmente irreale. E i fatti lo stanno a dimostrare. I proclami di “blocco navale”, tanto enfatizzati, quanto impraticabili, si sono miseramente infranti contro la realtà dei fatti.
È, come dicevo, il problema, o meglio il dilemma del porcospino. I fenomeni migratori sono una realtà impossibile da negare. E mantenere la distanza forzatamente, perseguire un, per altro impossibile, isolamento è solo pericoloso. Rischia di farci rattrappire nel gelo. E renderci ancora più fragili e vulnerabili quando la marea arriverà. E, prima o dopo, arriverà. Travolgendoci.
Ma tenersi troppo stretti i nuovi arrivati, aprirsi in modo indiscriminato e irresponsabile, rischia solo di causare lacerazioni e ferite. A noi e a loro.
Non esistono formule magiche. L’unica possibilità è cercare un adattamento graduale. Stabilendo, un po’ alla volta, delle regole di convivenza che favoriscano l’integrazione. Che permettano la creazione di una società in cui noi e loro si possa convivere con meno traumi possibile.
Regole giuridiche, regole di comportamento, regole sociali. Regole, comunque.
Ci piaccia o meno, i movimenti migratori sono una realtà. E una realtà causa di traumi e problemi. Lenire questi traumi, e far sì che tanti sforzi e problemi generino anche opportunità nuove, dipende da come le cose verranno governate.
Se ne discuterà sabato prossimo al Teatro di Pergine Valsugana, Trento. Un convegno di studi organizzato dalla Fondazione “Nodo di Gordio”, dal titolo “Patrie dei migranti”, con la partecipazione di diplomatici, economisti, esperti militari, giuristi.
Perché il “porcospino” deve cominciare a pensare seriamente quali debbano essere le regole della futura convivenza.