La pace ha assunto per gli esseri umani la forma di un ideale da realizzare sia individualmente che collettivamente

IL DILEMMA DELLA PACE. UNA RIFLESSIONE ATTRAVERSO ROUSSEAU E KANT

Se la pace nella Storia si innesta sul terreno della convivenza, un suo ingrediente fondamentale è rappresentato senza dubbio dalle esperienze intellettuali di quegli uomini che seppero tradurre l’innato e utopico desiderio di una concordia morale e politica tra i popoli, in una concreta esigenza razionale per le future generazioni di europei.


Fin dall’antichità, la pace ha assunto per gli esseri umani la forma di un ideale da realizzare sia sul piano individuale che su quello collettivo.

A gettare le basi di questa ricerca è stato il pensiero greco, sistematizzando l’aspirazione alla concordia tra gli uomini come il riflesso condizionato di uno sforzo morale condiviso dalla polis. Già Platone nel IV secolo a.C. insisteva su questo percorso interpretando la lotta interiore come il segno di una contesa tra diverse facoltà poste dinanzi al terribile evento della scelta. Tre istanze – la ragione, la parte irascibile e quella concupiscibile – si attivano ogni volta che la nostra attenzione è sollecitata da uno stimolo esterno, esponendo l’armonia interiore dell’anima, e di rimando anche quella della comunità politica, al rischio del caos. Per i greci la pace era, dunque, una questione di equilibrio che chiamava in causa la risolutezza dell’animo umano di fronte al pericolo. La cessazione delle ostilità e la risoluzione del conflitto dipendevano dalla tempra della volontà capace di resistere al richiamo seducente del desiderio, pena la resa incondizionata della ragione.

Tuttavia, il pensiero greco ci ha tramandato anche un’altra importante intuizione sulla sfuggente natura della pace; ovvero che la realizzazione di questa situazione tra gli uomini all’interno del mondo è sempre in perenne contrapposizione con il suo opposto, la guerra. Ogni discorso sulla pace non può prescindere dal proprio correlato logico e fattuale che è la guerra: tertium non datur. Questa constatazione spiega tra l’altro perché la storia del pensiero politico si sia intestardita a formulare moltissime definizioni di guerra mantenendo sullo sfondo un solo significato della pace interpretata principalmente in senso “negativo” come assenza della prima.

La tradizione speculativa tardo antica e medievale ha ripreso costantemente questa intuizione, declinando l’essenza della pace nei modi di una capacità propria di ciascun individuo di attraversare i contrasti interiori lottando contro la tirannia delle passioni. Da questa verità di ragione, gli uomini hanno tratto una verità di fatto spiazzante: bandire la guerra dal mondo nell’attesa di vedere realizzata l’epifania di una pace universale è una speranza destinata ad essere frustata a causa dell’impossibilità di sottrarsi alla pressione di pensieri che turbando letteralmente la quiete dell’animo, propiziano il conflitto. Come aveva intuito già Eraclito, il conflitto è la ragione seminale del mondo; la vita degli uomini ne è affetta sin dalla nascita e se questo cessa, muore anche quella. In quest’ottica interpretativa della pace quale dilemma e al tempo stesso ideale da realizzare nella Storia s’inseriscono gli ambiziosi progetti filosofici per una “pace perpetua”. Sebbene siano fioriti nel secolo delle utopie par excellance, il Settecento, questi tentativi di costruire un vincolo morale e politico tra le nazioni europee hanno rappresentato il manifesto programmatico per la costruzione di un ordine sovranazionale che fosse in grado di porre il vecchio continente al riparo dalla guerra perenne.

 

 

La lezione di Rousseau

Jean Jacques Rousseau.

Il contributo del pedagogista ginevrino alla riflessione sul complesso tema della pace trova spunto dall’incarico da lui assunto per volontà di M.me Dupin di cui era segretario a Parigi, affinché riordinasse le carte dell’abate Saint Pierre in suo possesso per prepararne una nuova edizione.  L’opera di riorganizzazione di quegli appunti porterà alla pubblicazione di una serie di saggi noti come Ecrits sur l’abbé de Saint-Pierre terminati da Rousseau nel 1759 e composti dall’Estratto dal progetto di pace perpetua del signor abate di Saint Pierre e dal Giudizio sul progetto di pace perpetua. Dal commento del ginevrino agli scritti dell’abate emerge una posizione netta è inequivocabile nei confronti della guerra. Per il filosofo il conflitto armato è il volto peggiore assunto dal diritto del più forte; espressione del desiderio di un singolo uomo, la guerra è destinata a diventare la rovina della moltitudine dei cittadini di uno stato, i quali pur rimanendo estranei alle cause del conflitto sono costretti a prendervi parte imbracciando le armi per soddisfare la vanità e la sete di potere altrui.  Per evitare una situazione di conflitto permanente tra gli stati, la proposta avanzata dall’abbate Saint Pierre nei suoi manoscritti prevedeva la creazione di un governo sovranazionale che trascendesse la sovranità dei singoli monarchi, designando l’avvento di una futura Repubblica europea. Posizione, questa, giudicata positivamente da Rousseau, il quale coglie nell’assetto di un’Europa così concepita, la volontà da parte dell’abbate di aspirare alla realizzazione di una Repubblica della pace cristiana in virtù dei fondamenti ideologici e della tradizione storico culturale condivisa dai singoli Stati. Nell’incipit dell’Estratto, Rousseau motiva la sua approvazione al modello dell’abate di Saint Pierre con queste parole: «Mai progetto più grande, più bello e più utile ha occupato lo spirito umano, di quello di una pace perpetua e universale fra tutti i popoli dell’Europa; e mai un autore ha più meritato l’attenzione del pubblico, di colui che propone un sistema per mettere in esecuzione tale progetto». Tuttavia, l’attuazione della pace presuppone come momento essenziale il superamento degli ostacoli che sorgono nelle relazioni tra i singoli Stati; soltanto così sarà possibile sperare nel consenso dei sovrani verso una Repubblica europea. Su questo punto, nel Giudizio, Rousseau osserva che: «I vantaggi che risulterebbero dalla sua esecuzione per ogni principe, per ogni popolo e per l’Europa tutta, sono immensi, evidenti, incontestabili; non vi è nulla di più solido e di più esatto dei ragionamenti con cui l’autore li afferma. Realizzare la sua Repubblica europea anche per un solo giorno sarebbe sufficiente a farla durare in eterno, a tal punto ciascuno troverebbe confermato dall’esperienza, nel bene comune, il suo personale interesse». E tuttavia, la realizzabilità di un tale progetto trova la più insormontabile delle resistenze proprio nello spirito di conservazione dei sovrani, i quali ambiscono a conservare il loro potere intatto nello stato dove essi regnano. A causa di questo grande ostacolo, osserva Rousseau, una volta calata nel piano del realismo politico la prospettiva avanzata dall’abate rimane un progetto saggio e «non chimerico», ma difficilmente attuabile. «Per realizzarlo sarebbe infatti necessario che la somma degli interessi particolari non prevalesse sull’interesse generale, e che ciascuno potesse vedere nel bene di tutti il bene maggiore sperabile per sé stesso» (Giudizio, 153).

Per Rousseau ciò che rende il progetto dell’abate utopico nel senso costruttivo del termine è un eccesso di buona fede; l’errore del chierico è stato quello di aver creduto ingenuamente che l’interesse dei singoli regnanti potesse coesistere se non addirittura conciliarsi con l’interesse generale. Affinché il superiore legame vigente fra gli Stati europei propiziato dal Saint Pierre divenga garante oltre che, politicamente, della pace, culturalmente, anche delle peculiarità di ciascun popolo, è infatti necessario realizzare un modello istituzionale e politico tra quegli stati nei quali vige il principio di rappresentanza e la divisione dei poteri. Con questo appunto critico Rousseau individua incidentalmente un grande e complesso problema destinato a dominare la storia contemporanea: il rapporto fra l’uno e i molti, il tutto e le sue parti, proiettato nell’arena degli attori internazionali. Ravvisando nelle intuizioni dell’abate di Saint Pierre un anelito cosmopolita di eccezionale portata per il futuro della pace tra i popoli europei, il ginevrino anticipa la necessità che si giunga un giorno alla fondazione di un’istituzione etico-giuridica sovranazionale in cui «ognuno fosse libero come prima», inserendosi nel percorso tracciato da Kant nella sua celebra opera Per la Pace Perpetua.

La prospettiva kantiana per una Pace Perpetua

Immanuel Kant (1724-1804)

Per la Pace perpetua è un’opera di carattere fortemente illuministico che il filosofo di Königsberg stese in un anno particolare per le sorti del continente europeo, la pace di Basilea del 1795 tra Francia, Prussia e Assia-Kassel. Con quel trattato Guglielmo II di Prussia rinunciò alla riva sinistra del Reno pur di avere mano libera in Polonia, riconoscendo lo stato rivoluzionario francese per il quale Kant nutriva indubbie simpatie. Il filosofo prussiano interpretò l’arrivo della pace nello scacchiere europeo sconvolto dalle guerre contro la Francia rivoluzionaria come una manifestazione, seppur tardiva, dell’ottimismo della ragione. Da seguace della Riforma protestante, Kant scorgeva nel macello della Storia la conferma della presenza radicale del male nell’umanità. «Da un legno storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può costruire nulla di perfettamente diritto» (Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico). Tuttavia, anche se l’uomo di per sé stesso, spontaneamente, era portato al male, esisteva uno strumento in grado di rallentare questa deriva e nella migliore delle situazioni, arrestarla: lo Stato. Attraverso la società civile, gli individui riuscivano a porre un freno al loro egoismo e rilanciavano la realizzazione dei fini morali. Sulla linea di quanto teorizzato da Hobbes e da Rousseau, anche l’autore della Critica della Ragion Pura concepiva lo Stato come frutto di un patto fra gli individui, di un contratto. A questa rappresentazione dello Stato, Kant faceva seguire un’importante considerazione sulla funzione del diritto come elemento imprescindibile alla buona riuscita del primo; spesso avvertito come una coazione da parte degli uomini, il diritto diveniva per gli individui ragionevoli una cosa propria, utile anche a loro stessi. A rendere questa operazione percorribile era la ragionevolezza attraverso la quale l’individuo imparava ad apprezzare il valore morale e politico del diritto ampliando il raggio della propria azione in sicurezza. Per Kant, la finalità morale dell’uomo era la creazione di un’istituzione secondo ragione quale convergenza di storia e natura verso la realizzazione del diritto.

Nel suo progetto per la Pace perpetua Kant riproponeva questo schema adattandolo al livello degli Stati: così come gli individui si sono accordati fra di loro e hanno raggiunto la pace attraverso lo Stato, allo stesso modo le nazioni in quanto «individui in grande» dovranno accordarsi fra loro in una federazione per raggiungere la pace. Tuttavia, il principale punto di debolezza alla realizzazione della pace perpetua è rappresentato dal problema del diritto positivo internazionale così come questo è stato teorizzato dai giusnaturalisti, lo jus gentium. Deputato a neutralizzare il bellum omnium contra omnes tra Stati, il diritto internazionale deriva la sua cogenza da patti stipulati fra nazioni in forza della loro sovranità. Ma gli organismi statali hanno già una loro sovranità che esercitano sui cittadini e non sono disposti a rinunciarvi per sottomettersi a un’autorità superiore. Da quanto appena detto emerge che nella sua parzialità e provvisorietà, lo jus gentium rappresenta per gli Stati ciò che il diritto privato è per i singoli individui. Vincolato alla volontà particolare degli stati sovrani, lo jus gentium è per Kant nient’altro che jus belli, ma può e deve essere superato sulla base dell’analogia sempre valida tra uomini e stati: proprio come questi hanno rinunciato alla loro libertà selvaggia in nome della società civile, anche quelli possono uscire dallo stato di guerra, abbandonando l’impervio percorso del diritto internazionale positivo per instradarsi sul sicuro cammino dello jus cosmopoliticum.

Subordinando la prassi alla teoria, il dover essere all’essere, il discorso kantiano sulla pace perpetua si muove quindi nella prospettiva metafisica di un diritto razionale dei popoli in cui lo Stato, insidiato dalle medesime inclinazioni fenomeniche degli uomini, riesce ad incontrare l’idea della ragione nella realizzazione della repubblica come alternativa al dispotismo. Nell’architettonica della Pace perpetua, l’uomo è chiamato ad agire come se la ragione potesse sempre trionfare; in tal senso, per Kant l’incertezza e l’accidentalità che avvolgono il cammino della pace non rappresentano un limite, quanto piuttosto la consapevolezza che il trionfo della moralità nelle relazioni internazionali è teoricamente realizzabile in ogni momento della Storia. Come Rousseau, anche Kant aveva criticato le conclusioni alle quali era approdato il giusnaturalismo, ma a differenza del ginevrino, il filosofo prussiano era andato oltre il mero afflato cosmopolitico, riconoscendo alla prospettiva della pace perpetua la nobile funzione di ideale regolativo della ragione. Il progetto kantiano riflette limpidamente l’idea dell’uomo quale creatura sospesa tra due realtà: la natura e la ragione; in quest’ottica, il richiamo alla guerra appartiene al primo mondo mentre la realizzazione di un’unione politica e morale tra Stati rappresenta l’ardimento metafisico e fenomenico che trae la propria forza dal secondo. A quasi duecentotrent’anni dalla prima pubblicazione del progetto kantiano, la lezione morale e politica che il padre del criticismo volle consegnare all’Europa è più viva che mai: la ragion pura pratica dà i suoi imperativi, ma spetta all’umanità scegliere gli argini in grado di contenere le tendenze egoistiche che insidiando lo spirito dei popoli europei verso il progresso e la cultura della pace.

Tommaso Di Caprio

 

 

 

 

 

 

 

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