Quando l’eros si confonde con l’agonia, la bellezza con l’annientamento.
IL FIATO DELLA MORTE
Redazione Inchiostronero
Nel cuore pulsante della prosa dannunziana, Il trionfo della morte si fa specchio di un’epoca sull’orlo del disfacimento. Questo saggio esplora la tensione tragica tra desiderio e annientamento, tra civiltà e decadenza, seguendo la discesa di Giorgio Aurispa in un abisso esistenziale dominato da eros, estetismo e morte. Un viaggio sensoriale e filosofico nell’opera più inquieta e profonda di Gabriele D’Annunzio
Civiltà, desiderio e disfacimento in Gabriele D’Annunzio: non è soltanto un insieme di temi, ma un triangolo simbolico che regge l’intera impalcatura ideologica ed estetica del Trionfo della morte. In D’Annunzio, la civiltà — intesa come costruzione storica, artistica, culturale — appare al tempo stesso come vertice sublime e come organismo malato. È l’esito grandioso e insieme decadente di un lungo processo che ha esaurito la sua linfa vitale. L’arte, l’intelletto, la raffinatezza, la sensualità non sono più strumenti di elevazione, ma segni terminali di un organismo che si consuma nel proprio splendore.
In questo scenario, il desiderio diventa la forza motrice che tiene in piedi l’individuo, ma anche la fiamma che lo brucia. È desiderio del corpo, dell’assoluto, dell’ebbrezza sensoriale. Ma anche desiderio impossibile, perché l’oggetto amato (Ippolita, il piacere, la bellezza) non è mai abbastanza. Da qui nasce la tensione tragica: il desiderio è inappagabile, e proprio per questo spinge verso il disfacimento, verso la morte, verso il nulla.
Il disfacimento, infine, è ciò che attraversa tutto: corpi, parole, identità, paesaggi. È la decomposizione morale e spirituale di un’epoca che ha perso ogni fede, anche quella nella propria grandezza. E in questo disfacimento, D’Annunzio non vede solo la fine, ma anche una strana, perturbante forma di bellezza.
«Ogni gioia un fremito d’agonia, ogni bellezza un segno d’estrema agonia.
Così, in D’Annunzio, questi tre elementi non si sommano: si inseguono, si fondono, si combattono. Sono le tre maschere di un’unica tragedia: quella dell’uomo moderno, sospeso tra l’estetica e il baratro.
«Ella si struggeva come una carne troppo viva, ardente, colma d’inquietudine.»
La trama come discesa
Il trionfo della morte è un romanzo dal passo lento e febbrile, che non corre verso una soluzione narrativa, ma scivola, precipita, come se fosse scritto non tanto per raccontare una storia, quanto per accompagnare un’anima nel suo sgretolamento. La trama si snoda infatti come una vera e propria discesa psichica, una caduta lucida e quasi compiaciuta nel cuore oscuro dell’essere.
Giorgio Aurispa, il protagonista, non agisce nel senso classico: subisce, oscilla, si lascia divorare dalle forze interne che lo abitano. È un intellettuale in crisi, logorato da un’educazione estetica troppo raffinata e da un’angoscia esistenziale che nessuna ideologia riesce più a placare. Fin dalle prime pagine si percepisce che il suo destino è segnato: Giorgio non cerca una via d’uscita, ma una via verso il fondo. Ogni evento del romanzo — la fuga con Ippolita, il soggiorno a Francavilla, il ritorno nella casa d’infanzia — non è che una tappa di questo itinerario verso l’annientamento, scandito con precisione quasi musicale.
«Tutto in lui era stanco e vano. Nulla più poteva salvarlo, perché nulla più desiderava con fede.»
La discesa è anche una forma di conoscenza. Giorgio si scopre, si interroga, si osserva crollare — e lo fa con uno sguardo lucido, quasi analitico. La sua non è follia irrazionale, ma autoanalisi estetizzante, nella quale ogni pensiero si fa specchio, ogni emozione rifrazione complessa di qualcosa che viene da più lontano: dalla cultura, dalla storia, dalla civiltà stessa.
D’Annunzio costruisce così un protagonista negativo, un antieroe che si avvicina a figure dostoevskijane o tragicamente romantiche, ma con una peculiarità tutta moderna: Giorgio non lotta, ma scivola con eleganza verso la propria fine, come se anche l’autodistruzione fosse una forma di stile.
E se l’amore con Ippolita appare in principio come un rifugio, una possibilità di salvezza, si trasforma ben presto in un meccanismo claustrofobico, in un amplificatore del male di vivere. Il loro legame è il campo di battaglia tra la carne e lo spirito, tra la bellezza e l’orrore, tra l’eros e il thánatos.
«Ogni gesto dell’amata gli pareva presagio di una fine. Ogni carezza, un passo più vicino all’abisso.»
Il movimento del romanzo è dunque centrifugo: si parte da un’apparente quiete e si arriva, per gradi, a una frattura finale che è al tempo stesso fisica, psichica e simbolica. La morte — quella del titolo — non è solo evento, ma presenza che aleggia, che sussurra, che accompagna. Un fiato gelido che soffia dall’inizio alla fine, e che Giorgio, forse, ha sempre desiderato ascoltare.
Il culto del sensibile
D’Annunzio non descrive: officia. Ogni pagina del Trionfo della morte è un altare, ogni parola un’offerta sacrificale. Il romanzo non si limita a rappresentare il desiderio o la decadenza, li incarna, li fa respirare nella materia viva del linguaggio.
La scrittura dannunziana è corporea: pulsa, suda, trema. È parola che non serve a spiegare, ma a far sentire, a far vivere. Il lettore non è spettatore ma pelle, occhio, nervo. In questo senso, la letteratura si fa rito sensuale e religioso, nel quale l’autore è sacerdote, e la bellezza l’unico dio.
«Egli si sentiva come immerso in una luce sovrumana che lo consumava.»
Il culto del sensibile non è solo il piacere dell’estetica raffinata. È la trasfigurazione del reale. I gesti minimi — un profumo, un tessuto, un’ombra — diventano simboli, epifanie, scosse interiori. Ma non portano redenzione: portano inquietudine, vertigine. L’intensità percettiva si tramuta in smarrimento ontologico.
E così il romanzo si fa corpo anch’esso: un corpo testuale, con le sue trame, i suoi umori, le sue febbri. La parola si avvolge su sé stessa, si compiace della propria sensualità, fino a diventare barocco del dolore, eccesso del desiderio, simulacro del divino che non c’è più.
In questa logica, l’amore non è sentimento ma forma. E la bellezza non è fine, ma abisso lucente in cui precipitare.
«Tutto era bellezza; eppure, ogni cosa appariva sul punto di disfarsi sotto quella bellezza eccessiva.»
Il respiro della morte
La morte, nel Trionfo, non è una soluzione né un evento. È una presenza, una sorta di alito invisibile che si insinua nelle pieghe del paesaggio, nel ritmo dei pensieri, nei silenzi che separano una parola dall’altra. È qualcosa che non irrompe: aleggia. Si insinua come una bruma sottile, non urla, ma sussurra. E proprio per questo è più inquietante.
Nel ritorno di Giorgio Aurispa alle terre d’origine — l’Abruzzo, con le sue vette aspre, le processioni religiose, la fede popolare incrostata di superstizione — non c’è un richiamo consolatorio. Quel paesaggio non lo accoglie: lo osserva. Non offre senso, ma lo sfida. D’Annunzio dipinge la natura abruzzese non come madre, ma come testimone muta e arcaica, depositaria di una verità che Giorgio non riesce più a leggere.
«Egli guardava le cime lontane, come se da esse dovesse giungergli un responso antico, ma esse tacevano, eterne e impassibili.»
Qui si manifesta un altro strato simbolico del romanzo: il contrasto tra il tempo personale e il tempo mitico. Giorgio è l’uomo moderno, frammentato e precario, mentre il mondo che lo circonda — con i suoi rituali, le sue madonne, i suoi lutti secolari — è scandito da un tempo ciclico, immobile, imperturbabile. In questo scarto emerge l’impossibilità di redenzione: l’individuo non può tornare a un ordine che ha irrimediabilmente smarrito.
E così, mentre il protagonista cerca ancora risposte nei resti del sacro, la morte si fa strada come unica realtà stabile, definitiva, inevitabile. Ma non è una morte gloriosa, eroica, liberatoria: è un destino silenzioso, quasi banale nella sua sobrietà. Come un’eco che si perde nelle vallate, o una voce che affonda nella nebbia del non detto.
«La morte era là, nella luce del mattino, nei passi lenti dei contadini, nella pietra ruvida dei muri.»
Il gesto finale di Giorgio — l’omicidio-suicidio — non è allora un atto romantico né tragico, ma una resa lucida a ciò che ha sempre saputo. In quel momento, il “fiato della morte” diventa definitivo: non come una fine, ma come un riconoscimento. Come se il mondo stesso non potesse più tollerare la frattura dell’anima moderna e decidesse, silenziosamente, di richiuderla in sé.
Conclusione
Il trionfo della morte non è un romanzo da leggere: è un’esperienza da attraversare. Chi entra nel mondo di Giorgio Aurispa non trova risposte, né conforto, né slanci morali. Trova invece una verità obliqua, sottile, bruciante: la consapevolezza che l’uomo moderno, colto, disilluso, estetizzante, è un essere in bilico, troppo raffinato per credere ancora, troppo lucido per abbandonarsi, troppo stanco per ribellarsi davvero.
D’Annunzio non giudica: osserva. Sonda l’anima con uno sguardo quasi clinico, eppure profondamente poetico. Ci mostra come la bellezza assoluta, se non è radicata in un senso, diventa veleno, e come il desiderio, se non ha più oggetto né direzione, si consuma in sé stesso. È una tragedia senza catarsi: il trionfo della morte non è un evento improvviso, ma un processo lento e inesorabile, un lungo respiro che attraversa il testo dall’inizio alla fine.
«Tutto era già stato scritto. Egli non doveva far altro che compiere il gesto.»
E in questo gesto finale — lucido, glaciale, rituale — si chiude la parabola di un uomo e, simbolicamente, di un’intera civiltà. Una civiltà che, pur avendo toccato le vette del pensiero, dell’arte, del desiderio, non ha più la forza per sopportare se stessa. In questo senso, D’Annunzio non anticipa solo la fine di un’epoca letteraria: profetizza la crisi profonda dell’identità occidentale, che nel Novecento esploderà tra guerre, ideologie e nichilismi.
Il romanzo resta, così, un corpo febbrile e lucente, che pulsa ancora sotto gli occhi del lettore contemporaneo. Non perché offra certezze — ma perché, nel suo abisso estetico, riesce ancora a parlarci. Con voce alta, raffinata, e terribilmente umana.

Nota filologica:
Le citazioni tra caporali («…») provengono principalmente da Il trionfo della morte (1894) di Gabriele D’Annunzio. Alcune di esse sono riportate fedelmente dal testo, altre sono parafrasi o adattamenti stilistici costruiti su frasi originali, allo scopo di preservare il tono del saggio e l’efficacia espressiva. Il lettore interessato potrà ritrovare i passaggi in edizioni integrali del romanzo.
Bibliografia
- Gabriele D’Annunzio, Il trionfo della morte, Milano, Mondadori, 1990
- Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002
- Pietro Gibellini, D’Annunzio: il poeta e la morte, Venezia, Marsilio, 1994
- Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1972
- Giorgio Bárberi Squarotti, Il decadentismo italiano, Firenze, La Nuova Italia, 1980