La politica non si discute più: si fotografa. Nel grande fotoromanzo del potere, contano le pose, non le posizioni. E l’Europa? Un set fotografico ben illuminato, ma senza copione.
IL FOTOROMANZO DELLA POLITICA
Marcello Veneziani
Non è più la politica delle idee, dei contenuti o delle visioni a lungo termine, ma quella delle pose, delle cornici e dei flash. In un tempo dove la realtà si misura in immagini, anche il potere si riduce a un album fotografico da sfogliare: chi c’è e chi non c’è nella foto ufficiale, chi è al centro del gruppo e chi defilato, chi guarda e chi viene ignorato. Tutto si gioca nel campo visivo, come in un eterno fotoromanzo senza trama, dove l’importante non è ciò che si fa, ma come si appare. E se la politica diventa una fiction d’immagini, Giorgia Meloni ne è la protagonista indiscussa: sempre in scena, perfettamente ritratta, mai fuori fuoco. Ma dietro questi scatti studiati — nei vertici internazionali, nei consessi europei, nei summit globali — si cela una verità inquietante: l’immagine ha divorato il contenuto, la forma ha soffocato la sostanza. L’Unione Europea, più che un progetto politico, appare come un collage di facce e sorrisi diplomatici, un set permanente per foto di gruppo in cui si celebra l’unità solo attraverso la messa in scena. In questo gioco di figurine patinate, la democrazia si trasforma in una lotteria di percezioni. E la verità? Non più da cercare nei programmi o nei dibattiti, ma da decifrare nei dettagli di uno scatto: uno sguardo sfuggente, una mano non stretta, un posto a tavola. Il resto è dietrologia, fantasie da commentatori, o semplice decorazione. Siamo passati dal teatro della politica al suo fotoromanzo — con meno pathos e nessuna parola vera. (f.d.b.)
Stiamo giocando con le figurine. Provate per un momento a silenziare le polemiche correnti e a osservare il terreno di contesa su cui si affrontano governativi e oppositori, mass media favorevoli e contrari, non solo su questioni interne ma direi soprattutto internazionali. Anche nei vertici internazionali è tutta una battaglia a colpi di fotografie: chi sta con chi, chi c’è e chi non c’è nella foto, come è collocata rispetto agli altri e nel gruppo, in foto o nel breve filmato; che umore esprime la sua faccia e la sua postura, come è vista e considerata dagli altri, la guardano oppure non se la filano. Ho usato volutamente il pronome femminile perché la protagonista principale di questa classifica fotografica, almeno da noi, è lei, Giorgia Meloni, reginetta dei fotoromanzi politici.

Ma il fotoromanzo è in fondo l’unica prova dell’esistenza dell’Unione Europea, che è una posa di gruppo prima che una storia comune e un progetto condiviso. Quel che conta è la foto col tavolo, o quella di gruppo in piedi. I contenuti non contano, né potremmo mai saperli, perché l’epoca delle immagini non rende tutto trasparente, visibile e comprensibile a prima vista ma al contrario: vela i contenuti con l’immagine e offre alla gente una copertina che è poi una copertura, getta in pasto un’icona, e poi tocca agli esegeti, ai dietrologi, ai fantasisti arguire cosa si saranno detti e quale sia la verità che viene fuori da quell’immagine, inerpicandosi avventatamente oltre le apparenze.
La foto è la fisica del potere, il resto è tutta metafisica, e in questo caso metafisica vuol dire congettura, maldicenza, pettegolezzo, un ‘si dice’ elevato ad analisi. Vedi la foto dei Volenterosi con l’assenza di Meloni e i suoi nemici deducono esultanti che è stata esclusa, è isolata, non conta niente. Poi la vedi al centro della foto tra l’America e l’Europa, una persona che si è fatta Oceano Atlantico, tra le sponde Vance e la sponda von Der Leyen, e i suoi fan vedono la prova evidente della sua centralità geopolitica, che in realtà è una centralità fotografica, e notano nei suoi occhi sprizzare felicità e successo, una pioggia di stelline scendono dai suoi occhi, per la precisione cinquantuno dalla parte degli States e ventisette da quella dell’Europa.
Così la giudicano di secondo piano appena nelle foto di gruppo va in seconda fila; ma è difficile che questo avvenga, e non solo perché l’Italia conta e lei è cazzutella, fotogenica e briosa ma per ragioni di statura: i diversamente alti come lei, per dirla nel linguaggio corretto, stanno per forza in prima fila nella foto di gruppo. Vale dall’asilo in poi. Poi la vedi baciarsi in foto o in video con mezzo mondo, abbracciarsi, fraternizzare, sorridere complice e confidenziale coi potenti della terra, tutti sempre più alti di lei, come i papaveri della canzone di Nilla Pizzi – “Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti e tu sei piccolina” – e la trovi simpatica e vezzosa come una puffetta, tra tanti Gargamella divenuti all’occasione amici, benevoli, cortesi; al punto da inginocchiarsi al suo arrivo a Tirana come ha fatto il gigantesco Edi Rama con un’espressione del volto e del corpo che sembra dire: “vieni piccolina, amore di papà, vieni tra le mie braccia”.
Anche le foto col Papa sono entrate in questo redditometro, vedere la faccia del papa e quella del suo interlocutore, intercettare dal labiale, assai difficile perché il papa ha labbra sottili. Cronometrare il nanosecondo dedicato a ciascuno, paragonarlo al tempo di Mattarella, che è l’unità di misura istituzionale. E vedere dove sono seduti i big al funerale del Papa uscente o all’investitura del Papa entrante, vicino a chi, e se si parlano, si sorridono, stanno a loro agio, al centro o ai margini della scena. La morfologia del potere assume una valenza estetica, da mimica facciale o da posa. Il carisma si è ridotto a un selfie.
Lo stesso vale per Macron o Zelensky – quanti punti vale una foto con lui? Un tempo tanti, ora assai di meno, anzi a volte è una penalità. E così le foto accostate di Putin e Trump per simulare le telefonate; difficile invece trovare in foto un’espressione diversa in Xi JinPing, si può usare sempre la stessa o del decennio prima.
Un tempo c’erano i simboli politici, e contavano molto, oggi non ci sono più simboli e nell’epoca delle leadership personali, l’unico simbolo è la foto. Si fa politica a colpi di foto, larga parte delle analisi o dei like e dislike che imperversano nel tribunale permanente dei social, dipendono proprio dalla foto, dalla mimica, dai ciuffi e dalle stazze, dal modo di atteggiarsi e di sorridere. È l’immagine che precede il giudizio, anzi lo sorregge e perfino lo sostituisce, surrogando ogni contenuto. Poi tutto quello che succede dietro le quinte, tutti i colloqui telefonici e de visu, a immagini spente, non ci riguarda. Ma il photoshop non riguarda solo la politica. A Napoli, ad esempio, un giovane artista, Jr, ha coperto il Duomo con le foto di 606 napoletani. Lo ha fatto anche su altri monumenti nel mondo e si potrebbe definire fotopopulismo, il precursore è stato Oliviero Toscani. Ma il messaggio è che la religione non è il legame con Dio, tramite i Santi, la Madonna e i sacerdoti, ma è il legame di ciascuno con la gente. I veri titolari e destinatari della fede sono i fedeli stessi, un po’ come l’audience in tv; e invece no, la facciata nuda del Duomo ci rappresenta tutti, le 606 facce che la coprono rappresentano solo 606 persone. I simboli veri trascendono i singoli individui, e non sono mortali.

Insomma siamo tornati a giocare con le figurine, quelle altrui le chiamiamo figuracce; quelle belle, invece, fanno punteggio sul pallottoliere dei sondaggi. Ma oltre questo aspetto di facciata, questo ritorno all’infanzia e all’ingenuo affidarsi alle facce e alle faccette, c’è qualcosa di importante da capire. Come il voto non decreta l’esistenza di un popolo sovrano, perché poi tra il voto e le pressioni che lo precedono, le alleanze che lo seguono, le interpretazioni che si danno per non dire dei brogli e delle regole che vengono adottate a vantaggio di alcuni e contro altri, corre un oceano, altro che la sovranità popolare. Così le foto ti danno la parvenza del potere come una casa di vetro, una glasnost avrebbe detto Gorbaciov; ma più vedi la politica in foto e in video e meno la capisci, meno sai dove sta realmente andando, dove si nasconde l’Arcana Imperii e chi e cosa di fatto decide. Il potere è impenetrabile anche se ci illude di farsi vistoso, alla portata di tutti, magari partecipando anche a un torneo internazionale di Tennis o visitando paesi tra ali di folla e saluti di due secondi con singoli cittadini. Alla fine ti accorgi che il potere è ancora quello spettacolo di magnificenza, munificenza e di potenza, come al tempo dei re. E il suo principale messaggio al popolo è la sua apparizione, la sua messa in scena.
Le monarchie, incluso il pontificato, erano regimi di alta visibilità, oggi diremmo regimi fotografici, video-immagini ad usum populi. Festa, fotina e forca. Ma i simboli, i riti, le liturgie non erano solo orpelli decorativi bensì veri e propri messaggi, esercizi di potestà e di consenso, espressioni vive di legami condivisi. Perfino Machiavelli teneva in alta considerazione l’apparire oltre l’essere: sembrare vale più di essere, in molti casi.
Il senso di frustrazione, invece, ti sopraggiunge se oltre le immagini ti chiedi: si, va bene, ma cosa sta facendo al potere, come sta cambiando la vita pubblica con questo o quel regnante? Oltre la forma qual è il contenuto? E lì ti assale un sospetto di raggiro e messinscena quando ti accorgi che sotto la foto, dietro l’immagine, c’è poco e niente, non c’è un atto rilevante, un fatto significativo, una gran riforma, un’opera di cui parlare. Solo apparenza, facciata, fuffa, sorrisi e cartoni. Allora ti viene un’altra idea: che la politica non decida ma insceni, non si mette all’opera ma si mette in posa. Insomma, è tutta una questione di figurine.
