Essere nata mi costringeva a vivere. Così assurda era la realtà. Erano tanti quelli che forse l’avrebbero voluto, ma che non erano nati.

Una storia raccontata a due voci, quella di una madre e di una figlia. La prima è nata nel 1944, in una Lettonia distrutta dalla Seconda guerra mondiale, un luogo in cui fin da piccola è costretta a imparare a lottare per la sopravvivenza. Poi, sotto il regime comunista, diventerà una ginecologa, ma sarà sempre afflitta dalla depressione.

Un male cui la figlia, una bambina arrivata ma non voluta nel 1969 e a cui viene negato il latte materno, cercherà disperatamente di salvarla, mantenendo con lei un legame strettissimo. Una storia intima che si intreccia con 50 anni di trasformazioni del Paese, in continuo cammino per conquistare la vera libertà.

La trama del romanzo.

Il romanzo è ambientato nel periodo più cupo: parte dal 1944 quando, le truppe hitleriane – dopo tre anni di occupazione e incalzate dai russi – lasciano la Lettonia in mano all’Armata Rossa; il paese, già provato dall’occupazione nazista e dai suoi eccidi, si trova ad affrontare le purghe del regime staliniano e a vivere sotto un regime opprimente, che cerca in ogni modo di annientare l’identità nazionale.

Il romanzo inizia proprio dall’arrivo dei russi e si dipana fino al 1989, quando in televisione vengono mostrate le immagini della caduta del muro di Berlino. La storia delle protagoniste è narrata attraverso le due voci di madre e figlia, in un’alternanza di capitoli in prima persona; a loro si aggiunge un’altra presenza femminile, cardine su cui entrambe girano: la nonna. Tre generazioni che vivono sulla propria pelle gli avvenimenti storici e il clima opprimente della “russificazione”.

La madre, che è un medico, – nata nel 1944 – e la figlia – nata nel 1969 – hanno un rapporto quasi rovesciato, dove è più la figlia a prendersi cura della madre, che deve fare i conti con la sua incapacità di accettare questa forma di oppressione che le ha tolto la possibilità di perseguire le sue aspirazioni professionali, e che la fa vivere con la costante sensazione di essere chiusa in una gabbia.

 

Come inizia. 

 

Mia madre aspirò una boccata di fumo e per un istante

restammo sedute accanto alla tomba di Bambi.

Ma perché ha mangiato il suo bambino, le chiesi.

Forse voleva evitare che finisse in una gabbia, disse mia madre e mi abbracciò forte.

Non ricordo il 15 ottobre 1969. Non posso ricordarlo, anche se c’è chi sostiene di ricordare la propria nascita. È probabile che nella pancia di mia madre fossi nella giusta posizione, perché il parto fu naturale. Non troppo lungo né breve, con le contrazioni che alla fine si ripetevano ogni cinque minuti. Mia madre partorì all’età di venticinque anni, quindi giovane e in salute, anche se non del tutto in realtà, come si capì in seguito. Ricordo però, o forse l’immagino, la placida e dorata quiete di ottobre alternarsi ai presentimenti del lungo periodo di oscurità. Un mese di confine, almeno a queste latitudini, dove le stagioni si avvicendano e l’autunno a poco a poco si trasforma in inverno.

   Gli alberi dovevano avere perciò foglie dorate, che nel cortile del nostro edificio la custode spazzava fra le imprecazioni; era venuta insieme alla famiglia dal soleggiato Kirghizistan e per il suo lavoro altamente qualificato aveva ricevuto subito un appartamento al numero 20 di via Mičurin. La figlioletta dagli occhi a mandorla sedeva sul davanzale, trangugiava minestra di barbabietole e invitava allegramente a entrare in casa sua. Lo splendore anteguerra dell’appartamento che una famiglia di ebrei era stata costretta ad abbandonare nel 1941, quando la deportazione in Siberia aveva evitato loro di portare la stella gialla sulla schiena, un paio di mesi più tardi, nella Riga occupata dai nazisti, sottostava adesso al gusto estetico della kirghisa. Spessi tappeti coprivano il parquet, semi di girasole riempivano piatti di porcellana, mentre sul pianoforte erano sistemate delle sputacchiere. I tempi e le fedi si erano mescolati. E così in tutto l’edificio dove mi portarono allora, nell’appartamento numero 13, ben fasciata come una crisalide, secondo gli usi dell’epoca.

   Ogni tanto faccio un sogno dal quale mi sveglio con una sensazione di nausea. Sono stretta al seno di mia madre e cerco di succhiarlo. Il seno è grande, pieno di latte, ma non riesco a cavarne niente. Non vedo mia madre, lei non mi aiuta e io lotto da sola col suo seno. Ma all’improvviso ce la faccio, e scorre nella mia bocca un liquido amaro, disgustoso, che quasi mi soffoca, finché mi sveglio bruscamente con i conati di vomito.

   Quant’è strano essere esclusi a questo modo. E da qualcosa di così naturale, elevato, bello e celebrato nei secoli. Una madre sta allattando un bambino. Il suo viso è illuminato, gli occhi osservano quel miracolo di Dio che sta fra le sue braccia. Gli occhi del bambino la guardano indifesi e pieni di fiducia, le voci della natura s’intrecciano, il latte che scorre dal seno della madre è l’acqua della vita che il bambino beve, e il legame fraloro è infinito ed eterno.

   Mia madre era una giovane dottoressa, quindi doveva sapere che alla bambina il suo latte avrebbe potuto fare più male che bene. Come spiegare altrimenti la sua scomparsa da casa, subito dopo il parto? Mancò per cinque giorni e tornò con i seni doloranti, dove il latte si era prosciugato.

   La madre di mia madre, disperata, mi nutrì per due giorni a camomilla. Poi andò al centro di distribuzione del latte, dove una dottoressa sospettosa la insultò in russo, chiamò mia madre “troia”, ma rilasciò comunque il permesso di venire a prendere una miscela di latte per nutrire la bambina.

   Durante i vent’anni che passai insieme a mia madre non potei chiederle perché mi avesse strappata, neonata inerme, dal suo seno. Non potevo perché non lo sapevo ancora. Ed era forse una domanda inappropriata, perché la vita mi portò invece a farle da madre.

***

Non ricordo il 22 ottobre 1944. Ma posso immaginarlo – Riga è stata appena liberata dalle truppe hitleriane. Le finestre della clinica ostetrica sono in frantumi per le esplosioni delle bombe, dentro è umido e freddo, le donne che hanno appena partorito si avvolgono inermi nelle lenzuola insanguinate. Le infermiere esauste bevono qualcosa di forte e avvolgono in fagotti i bambini appena nati e morti. Dilaga un’epidemia che tutti chiamano febbre tifoide. Si sentono pianti e lamenti, le bombe fischiano nell’aria e dalle finestre entra un odore acre di bruciato. Mia madre mi ha portato via di nascosto dalla stanza dei neonati, mi ha legato stretta a sé. Il suo latte sprizza nel mio naso. Un miscuglio di muco, latte e sangue esce ora dal mio nasino. Boccheggio e respiro, boccheggio e respiro.

   E poi, all’improvviso, tutto è silenzio e pace. Un cavallino tira un carro da Riga a Babīte, lungo la strada immersa nel sole d’autunno. Mio padre si ferma diverse volte, perché mia madre possa allattarmi. Non boccheggio più, respiro con calma e succhio avidamente il latte di mia madre. Nel distretto forestale di Babīte abbiamo una bella casa, i mobili però sono pochi, non c’è nemmeno una culla, e mia madre mi mette a dormire in una grande valigia.

   Ogni mattina mio padre ispeziona i giovani abeti. Tutto va avanti così fino a Natale, quando al distretto forestale arriva un camion pieno di soldati che urlano in una lingua incomprensibile per mia madre e mio padre. I soldati balzano giù dal camion e cominciano a tagliare i giovani abeti. Mio padre corre fuori, dopo aver chiuso mia madre nella stanza sul retro. Qui lei mi ha nascosto in una valigia alla quale aveva fatto in precedenza dei fori perché potessi respirare. Mio padre grida – bastardi, bastardi! – e cerca di proteggere gli abeti. Viene picchiato a sangue e scaraventato nel camion insieme agli abetirecisi. Un gruppo di soldati imprecando irrompe in casa, bussa a tutte le porte. Mia madre è nell’armadio, dentro la stanza chiusa a chiave, e trattiene il respiro. Sulle ginocchia ha la valigia nella quale io invece respiro. Il rumore è spaventoso, stanno demolendo la casa. Finalmente tutto tace e si sente solo il rombo del camion che si allontana.

   Verso il mattino mia madre sguscia fuori dall’armadio. Mi allatta, mi lega a sé, si copre bene e s’incammina a piedi in direzione di Riga. Soltanto verso sera arriviamo in via Tomsons, che presto si chiamerà via Mičurin, nell’appartamento numero 13. Mia madre è sfinita, ma prima deve riparare in qualche modo i vetri infranti dalle bombe aeree, o congeleremo entrambe.

***

Non so come mia madre e mia nonna avessero deciso di archiviare la storia della sua scomparsa. Comunque non se ne parlò mai. Durante la mia infanzia il profumo del latte materno fu sostituito da quell’odore di medicine e disinfettanti che, come una nuvola, circondava sempre mia madre quando tornava a casa dopo un’estenuante notte di guardia alla clinica ostetrica, o quando cercava di recuperare il sonno perduto nelle lunghe ore di veglia. La sua borsetta era piena di pillole, fialette e oggetti di metallo nei quali in seguito, confrontandoli con quelli visti nell’enciclopedia medica, riconobbi vari strumenti ginecologici per me spaventosi. Sembrava un mondo piuttosto terribile quello in cui a un certo punto, seguendo i propri istinti materni, ogni donna sarebbe stata inevitabilmente trascinata. Se succedeva che di notte mia madre fosse a casa, allora sedeva sveglia alla luce della lampada, fumando e bevendo caffè, china su una montagna di libri ed enciclopedie mediche. Sulla sua scrivania c’erano foglietti con appunti e disegni di uteri, ovaie, pelvi e vagine, visti da varie angolature.

   Mia madre non conosceva altro mondo e chiudeva dimostrativamente la porta quando nella stanza accanto si accendeva il televisore sul telegiornale russo, Vremja, e sul farfugliante Leonid Il’ič Brežnev. E non leggeva nemmeno il quotidiano “Rīgas Balss”, “La voce di Riga”, per il quale la gente faceva un’interminabile fila, all’angolo di via Gor’kij, fin dalle cinque del pomeriggio. Lunga quanto la coda di mezzogiorno davanti al negozio di carne e latte, dove di tanto in tanto “buttavano fuori” qualcosa per la folla. Salame o salsicce, per esempio, o burro già confezionato, di cui era consentito comprare appena mezzo chilo. Anche di questo mia madre non sapeva nulla. Ma accanto alle montagne di testi medici c’era, letto a metà, Moby Dickdi Herman Melville. Il desiderio folle di afferrare la parte sfuggente della propria vita.

   Non ho memoria di un qualche contatto fisico con mia madre, ma ricordo la sua coscia trafitta dagli aghi, dove si esercitava a fare iniezioni sulla propria carne. Laricordo a letto con le labbra bluastre, la prima volta che sovradosò qualche farmaco, forse per fare un esperimento medico, ricordo la sua vestaglia con l’odore della medicina amara che le avevano dato prima di portarla in ospedale. E ricordo il corridoio della clinica ostetrica, dove avevo il permesso di aspettarla alla fine del turno di notte. Poi ce ne andavamo alla caffetteria di via Aloja e ordinavamo zuppa soljanka e salsicce kupāti, e al caffè lei aggiungeva un po’ di caffeina che versava da una fiala. Ricordo ancora come la nostra viuzza apparisse congelata nel tempo, come un’immagine ritagliata da un’altra epoca e incollata sul presente. Era scomparsa la gente elegante che andava all’ippodromo a vedere le corse dei cavalli, proprio là dietro l’angolo. Al loro posto altre persone si affrettavano verso casa o al lavoro, a testa bassa, proiettate verso il comunismo, con le reticelle per la spesa da cui spuntavano pagnotte e bottiglie di kefir con i tappi verde brillante, e i pacchetti di biancheria avvolti in carta grigia e legati da un sottile spago marrone.

***

Erano passati almeno nove anni dal taglio dei giovani abeti. Ero un’alunna modello e partecipavo alle attività della scuola. Con una grande lettera M nella mano stavo accanto ai compagni, componendo insieme a loro la scritta in russo: Mi za mir! Difendiamo la pace! Ogni mattina c’era pronto per me il grembiulino stirato, portavo i capelli raccolti in trecce lungo la schiena o annodati a pretzel dietro le orecchie. Mia madre mi voleva bene e aveva cura di me. Un giorno un uomo alto e dall’aspetto gentile comparve a casa nostra. Sarà il tuo patrigno, disse mia madre. La sera, quando lui se ne andò, per la prima volta la vidi piangere. Sedeva nella nostra lunga e stretta cucina, affacciata sul cortile, un odore di zucca marinata veniva dalla pentola sopra i fornelli. E allora mia madre cominciò a raccontare.

   Bimba mia, cara bimba mia. Hanno portato via il tuo paparino perché proteggeva gli abetini. Proteggeva gli abetini, ma che bisogno aveva di farlo? Se non fosse corso fuori e non avesse gridato “bastardi!” sarebbe ancora qui con noi. Ma amava il bosco, i suoi piccoli abeti ed è corso fuori. L’hanno picchiato, l’hanno portato via, io l’ho cercato per tre giorni e alla fine l’ho trovato alla stazione di Šķirotava, rinchiuso. Era pieno di ferite, debolissimo, attraverso le sbarre mi ha preso la mano e me l’ha stretta forte, poi è arrivata una guardia e col calcio del fucile ha colpito la sua mano e un po’ anche la mia. In seguito non ho saputo più niente di lui. Non un segno, non una parola. Finché qualcuno ha portato da lontano la notizia che era morto. Sono passati già cinque anni. Bimba mia, il tuo papà è morto.

   Non ricordo nessuna emozione. Ricordo la voce strozzata della mamma e il fatto che chiamasse tutto al diminutivo: bimba, paparino, abetini. Mi piaceva il mio bel patrigno, non ricordavo mio padre e non avrei nemmeno potuto ricordarlo.

   Finché un pomeriggio, vicino al chiosco poco lontano dalla scuola, dove si trovava il distributore di acqua gasata dal quale era categoricamente proibito bere anche se era quello che più si voleva fare, un uomo piuttosto alto e robusto mi avvicinò e disse di essere mio padre. Fuggii di corsa, a perdifiato, arrivai a casa gridando e piangendo e trovai mia madre, pallida come un cencio. Non era morto. Era ritornato.

***

Non ricordo che mia madre mi abbia mai accompagnato a scuola o aspettato alla fine delle lezioni. Lo faceva sempre il suo patrigno, che l’aveva adottata. Insieme prendevamo via Gor’kij, un venticello leggero portava da via Barbusse un aroma di cioccolata e luppolo. Prometteva pace e casa. C’era solo questo breve tragitto, una strisciolina di tempo nella vastità della storia. Da qualche parte, lontano, in un punto irraggiungibile della terra, qualcuno aveva disertato per non andare in Vietnam e si precludeva la possibilità di partecipare alla vita della classe media americana e alla sua cultura, che condannava i figli dei fiori, la droga e il rock’n’roll. Da qualche parte, lontano, qualcuno riposava sotto terra, nelle distese siberiane, e qualcun altro scontava la sua pena come “nemico del popolo”. Qualcuno invece era tornato, per tacere e sopportare giorno dopo giorno la sua sorte. Da qualche parte, più vicino, qualcuno faceva vita alternativa, leggeva samizdat, beveva e sognava il libero Occidente che palpitava nell’aria come un’illusione, oltre la cortina di ferro. Ma qui la gente faceva una vita normale. Si alzava, lavorava, andava a dormire. Si innamorava, metteva al mondo figli, viveva, moriva.

   Io non avevo paura né degli americani né della bomba atomica né tantomeno dello zio Sam. Avevo paura di mia madre. A volte s’impossessava di lei una forza quasi satanica, che s’irradiava all’esterno annientando ogni cosa, soprattutto l’amore di chi le era più vicino. In quei momenti odiava sua madre, ma ancor più detestava suo padre e l’essere venuta al mondo. Si chiudeva in bagno, gridava, i suoi gemiti riempivano il lungo corridoio facendomi tremare fin dentro le mie ossa di bambina. Come un interminabile tunnel oscuro in cui la luce dell’esistenza si era mutata in un terribile vortice di distruzione che spazzava via ogni desiderio di vita. Era un’invettiva contro sofferenze per me incomprensibili e contro l’ingiustizia del destino.

   Di rado questi momenti di oscurità cedevano il posto a qualche attimo di luce. Eccoci nella grande stanza con la finestra aperta, da cui entrano odori di cibo e strilli di bambini. Su un grande foglio di carta mia madre disegna con le matite colorate la nascita di un bambino. Io le sto seduta in grembo e non ho paura. Per prima cosa disegna un bambino sorridente nella pancia della mamma, poi la testa che fa capolino fra le sue gambe, e la smorfia sulla sua faccina racconta il dolore e le cose spaventose che lo aspettano qui. Poi disegna una mamma e un bambino legati da un cordone ombelicale, le mani unite, come se ballassero allegramente. Poi delle forbici che tagliano il cordone. E infine la mamma che tiene in braccio il suo neonato e lo guarda con occhi teneri ma anche spaventati. Io seguo i movimenti della mano e le linee tracciate dalla matita. La mano è piccola e bianca, le unghie spezzate, la pelle secca e ruvida per via del talco che si deve spargere nei guanti da medico. Sono seduta in grembo a lei e non ho paura, mi chino e premo la guancia sulla sua mano.

***

Mia madre scelse di non guardare indietro. Sposò il mio patrigno, che mi adottò e mi amò come se fossi stata una figlia. Del mio vero padre non parlavamo mai. Mia madre non seppe mai nulla di tutte le volte in cui, nel corso degli anni, andai a trovarlo. Era malatissimo quando tornò dalla deportazione in Siberia, e viveva in condizioni disumane. Uno stanzino in un appartamento in coabitazione, perennemente umido e con il pavimento cosparso di giornali. Il più delle volte stava bevendo o era già ubriaco. Quand’era un po’ lucido ricordava il tempo in cui era studente all’Università della Lettonia, le sue ricerche scientifiche sull’afforestamento e la ripugnanza per le corporazioni studentesche. Ricordava che da piccolo la madre lo vestiva come un signorino e lo chiamava Žano. “Tu, figlia mia, hai sangue blu” mi diceva, perché suo padre non era affatto il calzolaio della città di Dobele che la madre aveva sposato, ma un barone tedesco. Proprio così. Mio padre era solamente uno di quella schiera silenziosa che non ha mai saputo adattarsi alla realtà sovietica, non ha aspettato di vedere la morte di Brežnev né quella di Andropov, neppure Gorbačëv e la via Baltica alla libertà…

   Vedendo le sue sofferenze fisiche decisi di diventare medico. Non sono certa di averlo amato. A volte mi faceva pena, a volte lo odiavo perché sentivo che il suo gene autodistruttivo si era radicato profondamente anche in me, sarebbe cresciuto nel tempo e si sarebbe rafforzato, e vedevo che mi avrebbe vinto, potevo oppormi quanto volevo ma mi avrebbe vinto.

  Ricordo bene il giorno in cui vidi mio padre morto. Una vicina dell’appartamento in coabitazione aprì la porta. Un’affabile signora ebrea che tante volte mi aveva offerto dolcetti ebraici, coperti di una glassa marrone e un po’ vischiosa. Mi abbracciò affettuosamente, stringendomi al morbido scialle lavorato all’uncinetto e singhiozzando piano. Poi mi prese per la mano e andammo nello stanzino di mio padre. Era là: smagrito, la bocca semiaperta, perché i coinquilini avevano forzato la porta solo il giorno dopo, quando ormai non respirava più.

   Sul divano macchiato e sotto di lui erano sparsi giornali con immagini di lavoratori sorridenti e volti incorniciati di membri del Politburo. Giaceva su pagine chepromettevano risultati quinquennali in un anno e celebravano la superiorità morale del popolo che costruiva il socialismo, pagine che invitavano a edificare città nuove in terre vergini, dov’erano sepolti migliaia di innocenti ignari della vera natura dei propri crimini, pagine che invitavano a invertire il corso dei fiumi, a trasformare le chiese in depositi di fertilizzanti e a distruggere l’eredità del passato contenuta nei libri e nelle opere d’arte.

   Giaceva là – uno dei tanti che si erano arresi in silenzio, morti in un angolo perché incapaci di lottare con l’epoca, incapaci di dimenticare, di conformarsi, di ingoiare le umiliazioni nella carne e nello spirito, la vergogna, il disonore, la delusione. Colpevole senza avere avuto colpa. Buttato in una discarica del tempo. Dev’essere finito in una fossa comune per senzatetto, ai margini della città. Mia madre non si interessò mai a lui e non seppe mai della sua morte. Proteggeva la sua nuova vita e cercava di proteggere anche me.

***

La nonna e il patrigno di mia madre erano per me i miei genitori. Mia madre era estranea alla nostra realtà familiare. Intorno a lei giravano tutte le nostre vite, organizzate per adattarsi a lei, strettamente legate e sempre dipendenti da lei. Dalle sue lotte fra angeli e demoni, che di tanto in tanto strappavano fuori dal tempo e dallo spazio la nostra vita quotidiana, trascinandoci in una lotta mitica fra bene e male e facendoci oscillare sul fragile confine tra la vita e la morte. Preoccupati la aspettavamo a casa e a volte tiravamo un sospiro di sollievo quando lei apriva la porta, senza sapere cosa ci avrebbe riservato il giorno successivo o la notte. Nessuno di noi sapeva qualcosa di preciso su mio padre. La nonna sosteneva che probabilmente si erano incontrati a una festa in campagna, a cui lei e sua sorella l’avevano costretta ad andare. O, per lo meno, dopo quella festa mia madre era rimasta incinta. Ma io fantasticavo sul loro primo incontro.

   Come si erano conosciuti?

   Mescolando all’acqua il caffè solubile, nella piccola cucina della casetta di sua zia, mia madre ascolta la radiolina che annuncia gracchiando un giorno di gennaio – quale? – del 1969. Uno di quei mattini in cui, arrivata in campagna, cerca di leggere in fretta e imprimersi nella mente le idiozie del comunismo scientifico, mentre il resto del tempo lo dedica a questioni di medicina e all’origine della vita, e di tanto in tanto legge copie clandestine delle opere di Boris Pasternak e Jean-Paul Sartre. In un modo o nell’altro diventerà medico e scienziata. Al momento riesce a destreggiarsi con il sistema ufficiale negli studi e a procurarsi nel frattempo conoscenze totalmente diverse e proibite. La madre e la zia sono preoccupate per lei. È capace di passare intere giornate chiusa nella sua stanza a leggere libri. Ha già compiuto vent’anni, ma nessuno l’ha mai vista insieme a un ragazzo. È attraente? Sì, soprattutto ora che è dimagrita. Ossatura sottile, seni tondi e sodi. Capelli chiari che a volte decolora un po’. La pelle coperta di lentiggini, le mani piccole.

   Non bada molto all’abbigliamento. Anche all’università indossa spesso pantaloni ampi e comodi, malgrado gli sguardi perplessi e dubbiosi degli insegnanti e dei compagni. Le donne portano i pantaloni solo al sabato o se lavorano nel kolchoz. Altrimenti bisogna indossare una gonna fino alle ginocchia, o una minigonna discreta, se questa è la moda.

   Mentre la zia rigira in padella le patate per la colazione del marito mia madre beve il suo caffè amaro, guarda fuori dalla finestra e pensa alla gigantesca balena da cui è ossessionato il selvaggio capitano. Forse per lei metafora di un potente impulso dell’anima a cui non si può resistere, che ti incalza fino a spingerti in mare.

   Quella sera la madre e la zia le fanno indossare quasi a forza un abito che il loro fratello ha mandato dall’Inghilterra. La smetta di seppellirsi in quei libri e vada invece al circolo del paese, alla festa. Ci sarà un’orchestrina locale, ci saranno rinfreschi e, soprattutto, si ballerà. La sapientona di città si sfoghi a ballare con i ragazzi di campagna. Le due sorelle la accompagnano fino alla porta del circolo, se per caso non le venisse in mente di scappare.

   Quando apre la porta, quello che vede non assomiglia a niente di quanto ha mai visto prima. Sul palco un uomo canta, i suoi movimenti sono rigidi.

   …vanno le caravelle bianche, vanno, sulle onde del cielo scintillano, giorno e notte, scivolando nell’eternità…

Diverse coppie si aggirano nella sala. Alcune si cimentano in uno stile moderno, altre eseguono passi di valzer. Ragazze di campagna con torreggianti acconciature fatte in casa si accalcano intorno ai tavolini del buffet, lungo la parete. I ragazzi ciondolano sull’altro lato.

Continua a leggere… 

 

L’autrice.

 

Nora Ikstena.

Nata a Riga nel 1969, Nora Ikstena è una scrittrice e saggista molto nota e stimata in Lettonia e all’estero. Attiva nella vita politica e culturale del suo paese, è considerata fra le personalità più autorevoli della letteratura baltica contemporanea. Le sue opere – che comprendono romanzi, raccolte di racconti, favole e scritti biografici – sono tradotte in diverse lingue e hanno ricevuto numerosi riconoscimenti. Il latte della madre (Mātes piens), uscito nel 2015 e vincitore del Dzintars Sodums e del Premio dei lettori (Lielā Lasītāju Balva), le è valso un grande successo di critica e pubblico.

 

  • Il latte della madre
  • Nora Ikstena   
  • Traduttore: Margherita Carbonaro
  • Editore: Voland
  • Collana: Amazzoni
  • Anno edizione: 2018
  • Pagine: 188 p., Brossura

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