Siamo lieti di annunciare finalmente l’uscita in mondovisione dell’atteso manifesto dell’idiota globale e nullafacente…

IL MANIFESTO DELL’IDIOTA GLOBALE


Siamo lieti di annunciare finalmente l’uscita in mondovisione dell’atteso manifesto dell’idiota globale e nullafacente che aspettavamo da anni. Si avvertiva la mancanza nonostante i ripetuti tentativi di versioni parziali. A scriverlo è un poeta e scrittore svedese, Gustav Sjoberg; il titolo è persino accattivante, “La fiorente materia del tutto” e il tema suggerito è invitante: “Sulla natura della poesia”. Ma non si parla solo di poesia, come vedrete, è una concezione del mondo che si offre al modico prezzo di 18 euro (in Italia lo pubblica Neri Pozza). Non mancano, oltre a citazioni dotte, anche esempi ed esemplari nostrani, di ogni tipo, a supporto del manifesto. Non scriverei di questo autore e di quest’opera se non trovassi espresso in sintesi globale e concentrata tutti gli elementi, i testimonial e i temi relativi a questo prezioso argomento, incluse le implicazioni politico-culturali, di cui vedremo.

Dunque la tesi principale, ma non l’unica, è la seguente: la poesia, come ogni arte e pensiero, non è opera di un singolo autore, anzi non è opera dell’uomo, ma è frutto del mondo intero, e dei suoi regni, animale, vegetale e minerale. Tutto è fluido, non ci sono più differenze né distinzioni di genere.

Quando diciamo mondo non diciamo dunque umanità ma qualunque essere vivente o semplicemente presente (pietre incluse). La Divina Commedia non è opera di Dante ma è frutto corale di animali, piante e sassi.

La tesi dello svedese è una libera interpretazione dell’intelletto possibile di Averroè, previo divorzio del commentatore arabo dal suo maldestro maestro, Aristotele.
Tutto, dal verme al corpo celeste, concorre all’opera; e per un poeta, dice Raoul Hausmann “il ventre è un organo molto più importante del cervello” (vero, se le sue opere sono defecazioni).

Ma questo è ancora niente. La grande rivoluzione che il profeta del mondo autogestito annuncia è l’abolizione del lavoro per fare un dispetto al capitale.

Il fine dell’essere umano, dice, è far niente (neanche darsi alla poesia, perché ci pensano le cipolle, i gechi e le rocce a produrla). C’è un’espressione ad hoc da tenere a mente: nichstun, letteralmente farniente. Nel nome, tenetevi forte, di “un’anarchia metamorfica”; ossia mutanti a piacere o a caso, senza aggiungere la doppia zeta, per dirla in linguaggio più greve e comprensibile. Bellissimo, ma come campa l’umanità, chi provvede ai servizi, a farci vivere, nutrire, vestire, ecc ecc.? Chi fa i mestieri? Ma che dettagli plebei, grezzi, irrilevanti… “Né gli dei né gli animali lavorano, per non parlare delle piante” e il fine della vita, anzi il lato bello, è “limitarsi a vegetare”. Un idealista.

Ma tutto questo ha una chiave ideologica, politico-culturale interessante. Il nemico da abbattere, la civiltà, la cultura umanistica, la poesia e l’arte, ha un nome preciso: è “la cultura di destra”. Tutto quello che ha fatto finora l’uomo, tutto quello che ha scritto, pensato, creduto, realizzato è colpa di questa maledetta “cultura di destra”. Viceversa la salvezza è rappresentata dal “comunismo cosmico” (conio di Otto Freundlich) che estende il comunismo ad animali, piante e minerali; siamo tutti uguali, uomini, bestie e cose.

“Una tale animalizzazione, vegetalizzazione e mineralizzazione è proprio quello che ci vuole per una scrittura che cerca di assestarsi al di là dell’umano”, così recita la bibbia dell’antiumanesimo.

Chi pensa che sia il delirio di un poeta isolato si sbaglia. L’autore cita molti che la pensano come lui. Per esempio l’artista Gianfranco Barrucchello che nel 1973 lasciò Roma “spinto dal timore giustificato di una presa del potere dei fascisti” (cosa che notoriamente poi avvenne). Lui smise di fare arte e proclamò arte la coltivazione della patata, dice ammirato lo svedese, che spiega: il progetto è non distinguere più “la scrittura dalle patate”. Altro esempio virtuoso è tale Gillés Clement che libera i giardini dai recinti e sogna il giardino planetario. Un capolavoro di demenza creativa e virtuale. E Sjoberg chiosa: “la scrittura deve diventare un giardino planetario”, cioè globale e immaginario. O il caso della critica d’arte Carla Leonzi che portando a fondo la sua critica smise di fare critica d’arte e si dette al femminismo militante “per non essere complice con il mondo presente”. O ancora un altro italiano, Emilio Prini un artista che per ribellione non fa più arte, nelle mostre si limita ad andarsene in giro per le sale e discute con gli operai allestitori; nel 1971 presentò un manifesto di protesta tutto in bianco e con un gioco di parole che desta l’ammirazione dello svedese, cambia la parola mostra in mostro. Un genio. O tale Emilio Villa (tutti italiani questi geniacci) che scrisse poesie su pietre che poi all’istante gettò nel Tevere per denunciare la pietrificazione della scrittura. Il bello degli artisti ammirati da Sjoberg è che hanno smesso di essere artisti, lottano, coltivano patate, manifesti in bianco, gettano sassi, sognano impossibili giardini mondiali, smettendo di coltivare quelli reali, cessano di lavorare per non fare un favore al potere del capitale (chi li mantiene, mammà o il reddito di cittadinanza?). L’autore cita altri intellettuali, anzi mescola autori veri e seri con ridicoli venditori di fuffa.

Come vedete, non è il delirio solitario di un autore; c’è un mondo dietro questa idiozia globale, e c’è perfino una traduzione politica: comunismo cosmico contro cultura di destra. Da qui la gioia di aver finalmente scovato, dopo tanti indizi sparsi, l’atto di nascita dello Scemo Globale. Abbasso la poesia e il lavoro, viva la patata e il farniente.

 

 

 

(Panorama 38)

Libri Citati

 

 

La materia fiorente. Sulla natura della poesia Condividi

  • di Gustav Sjoberg (Autore)  Monica Ferrando (Traduttore)
  • Neri Pozza, 2022

 

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Descrizione

«Un altro modo di comprendere la materia sarebbe, approssimativamente, di trattarla come una produzione di infinite, innumerevoli forme entro un incessante movimento di decomposizione e composizione, dissoluzione e ricombinazione. Concepita in questo modo la materia non sarebbe più un substrato passivo su cui si debba intervenire con un lavoro formale, bensì, al contrario, una molteplicità di forme che genera se stessa e con cui combacerebbe.»

Chi ha detto che la materia è incapace di creare da sé la forma (o le forme)? D’accordo, è stato Aristotele, lo sappiamo. Ma cosa accadrebbe invece se, forzando il maestro di coloro che sanno, troncassimo il legame tra forma e arte perché «mediante un concetto di forma radicalmente altro diventerà possibile una distruzione dell’arte – e, in particolare della poesia – concepita come ambito autonomo, come sfera distinta dalla non-arte, dalla non-poesia oppure come sublime riflessione sull’esistenza. Non sarà che qui si compie una risoluzione dell’arte nella natura?» Non è alla scienza o alla negromanzia tecnologica faustiana che l’autore affida tale compito, ma alla poesia stessa, concepita – secondo un paradigma insieme antico e attualissimo – come la fiorente materia del tutto. Il libro di Sjöberg, scritto in originale con minuscole che aspirano al filo d’erba, ma grondante della rugiada dei grandi – l’autore cita dall’originale i classici italiani della naturalezza poetico-politica e simbolica della lingua, ancora al di là di ogni teologia politica: Dante, Bruno, Campanella (che ha tradotto nella sua lingua), senza dimenticare Folengo e Rabelais – mostra che sarà un passaggio “naturale” e invita a compierlo. A condizione che le differenze linguistiche dettate dai luoghi di appartenenza dei parlanti che li abitano, una volta riconosciute e valorizzate, escano dal labirinto dei simboli e delle culture e si lascino attraversare da un senso per la differenza simpatetico all’intelletto comune di Averroé, atto a pensare l’umano sotto un principio unico di permanente, immediata connessione. Consumata allora la babele dell’incomprensione tra popoli bellicosi, l’aiuola che ci fa tanto feroci troverà finalmente una sua pace, che sarà l’ordine mondiale del “giardino planetario” a garantire. Nel “comunismo cosmico” a esso promesso la forma inoperosa di giardinaggio sarà poetica. Trapianterà, al posto della poesia antropocentrica dedita a una decidua filologia, una sempre rifiorente “filologia naturale” in cui l’umano ridivenuto natura ritroverà alla fine quell’innocenza infantile che, forse, non si ricorderà più nemmeno di aver perso. (Monica Ferrando)

 

 

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