Intellettuale vuol dire tutto e niente…

IL MESTIERE INGRATO DELL’INTELLETTUALE

di Marcello Veneziani


Al festival nazionale di Economia e Cultura, a Viterbo, mi è stata chiesta una lectio sul “mestiere ingrato dell’intellettuale”. Tema insidioso, sul filo della derisione e del vittimismo. Si può dubitare che quello di intellettuale sia un mestiere, ma che sia diventato ingrato mi pare evidente. Magari comodo, sempre meglio che lavorare, ma ingrato. Gli intellettuali hanno avuto un ruolo cruciale per quasi un secolo, fino agli anni Settanta del Novecento ma sono oggi una categoria marginale, ornamentale, malvista e mal sopportata. Doppiamente ingrata e malvista è poi la condizione di chi non solo è intellettuale ma lo è pure sul versante opposto a quello in cui canonicamente siedono gli intellettuali. E tre volte ingrata è la posizione di chi sul versante sbagliato resta battitore libero, fuori da ogni affiliazione ai poteri, anche della sua “parte”. Ma allora te la vai a cercare, direte e aggiungerete: ma se è un mestiere così ingrato perché non cambiare mestiere? La risposta più semplice è che non saprebbe fare altro, e questa è da un verso la confessione di un limite, di un’incapacità, ma dall’altra non può farne a meno perché ne va della sua vita, della sua “vocazione”; lo ritiene un suo compito. La missione del dotto, diceva Fichte. Niente di eroico, per carità, lo fa per indole e attitudine, non per spirito di servizio e sacrificio.

Sgombriamo però un equivoco preliminare sulla definizione. Intellettuale vuol dire tutto e niente, non è uno stato civile, una qualifica, una mansione; è una definizione generica come dottore, che può essere un medico, un qualunque laureato, una persona di qualche considerazione; va bene se ti appella così un posteggiatore, ma non dice niente. Ognuno sia definito per quel che fa realmente: docente, scrittore, pensatore, comico, giornalista, studioso di un campo specifico, artista, attore, regista, giocoliere, arrampicatore. E ognuno sia giudicato non per la categoria generale d’appartenenza ma per i suoi frutti specifici: le sue opere, i suoi risultati, le sue ricerche.

Il sottinteso della definizione d’intellettuale era il suo risvolto politico, il suo impegno civile, il suo riferimento ideologico; altrimenti si può definire letterato, erudito, artista, studioso. La sua attività è collocata a cavallo tra cultura e politica.
In generale ogni volta che gli intellettuali fondano un partito, una conventicola, una cupola o un club di amichetti il loro ruolo si svilisce, perde qualità e intelligenza. Anche perché il collettivo abbassa il livello dei singoli. “In ogni minoranza intelligente c’è una maggioranza di imbecilli”, notava Andrè Malraux da indigeno nel paese degli intellettuali.
Se l’intellettuale usa un linguaggio oscuro e incomprensibile, non è acume e profondità ma vanità e vacuità: vuol fare il fenomeno ma rivela la sua fuffa. All’intelligenza si addice la chiarezza, lo sforzo di rendersi chiaro il più possibile. La Claritas è la Charitas dell’intellettuale: cercare di farsi capire è rispettare gli altri, soprattutto se non si parla agli addetti.

Cosa è venuto dopo il tramonto delle ideologie? L’unica tendenza emersa negli ultimi decenni e che assume un ruolo dominante è l’ideologia woke,(1) tra cancellazione delle differenze ed esaltazione dei diversi, negazione del reale e rifiuto del naturale. Quel che un tempo si chiamava egemonia intellettuale oggi è il mainstream, tendenza generale a cui conformarsi per non finire ai margini o fuori dal gioco. L’intellettuale collettivo – che era un soggetto politico, il partito-principe secondo Gramsci – cede il posto alla casta, alla cupola, alla cappa, entità sovrastanti in cui il potere prevale sul pensiero e il conformismo sullo spirito critico. La militanza di ieri si fa allineamento e amichettismo.

Le ideologie del passato erano conflittuali, lottavano per affermarsi; ed elaboravano le loro teorie in rapporto alla prassi e in opposizione a un antagonista. Il mainstream, invece, non richiede elaborazioni e nemmeno competizioni, è un adeguarsi a tendenze sovrastanti e canoni prestabiliti; l’avversario è semplicemente da escludere a priori, non merita confutazione.

Così il ruolo dell’intellettuale è reso del tutto superfluo: non cerca vie, non propone chiavi di lettura, non semina dubbi; ma può sopravvivere come custode dello stabile, addetto al rispetto del regolamento condominiale e nei piani più alti funzionario al controllo e alla vigilanza democratica, antifascista, progressista.

Le parole ingannano. Mainstream allude a un flusso, una corrente, e invece si tratta di acqua stagnante; woke vuol dire sveglio e invece è una forma di sonnambulismo intellettuale, che atrofizza il senso critico; la cancel culture non è cultura della cancellazione ma il suo contrario, cancellazione della cultura; e il politically correct non è il pensiero corretto ma il pensiero corrotto, viziato da una negazione della realtà, della storia, della natura. Tutto questo frasario invertito produce un modello prefabbricato, che non ha più bisogno di un pensiero e dunque di un’elaborazione, ma di un nuovo bigottismo.

L’intellettuale vive così tra l’isolamento nella sua dimensione puramente soggettiva e l’adeguamento ai canoni prescritti.

Dunque, non c’è più posto per coloro che chiamiamo intellettuali?

Ferma restando la diffidenza sulla definizione, i veri intellettuali superano la selezione degli equivoci prima indicati; saltano gli steccati. Intellettuale è colui che esprime una visione del mondo, si assume un ruolo di guida o di maestro, pur consapevole dei suoi limiti, si pone come testimone del suo tempo in relazione al passato, al futuro e all’eterno, e va alla ricerca della verità sapendo che non l’avrà mai in tasca ma riuscirà almeno a cogliere alcuni lati del vero. Non si aspetta doni e vantaggi per la sua opera, e nemmeno riconoscenza, al più riconoscimento. Se è un mestiere ingrato mette in conto l’ingratitudine. Quante volta deve armarsi di pazienza e superare lo sconforto, che deriva dalla solitudine e dall’incomprensione, la vanità dello sforzo. Sarà socialmente inutile ma affronta temi necessari, che danno senso, destino e dignità alla vita. E anche bellezza e conoscenza. Tutto il suo compito si svolge sul cammino tra libertà e verità. Per affrontare quel cammino deve superare lo scoramento e munirsi del coraggio di essere libero e di dire la verità. Ma coraggio, come scoramento, deriva da cuore; sarà davvero coraggioso se prenderà a cuore quel che pensa, che dice e che fa. Se tu ami davvero qualcosa, avrai il coraggio di sostenerla, nonostante le avversità. Alla fine, è una questione di coraggio correre l’avventura del sapere nel rapporto con la vita. Intellettuali, ci vuole coraggio e amor del vero.

La Verità – 14 giugno 2024
La Verità – 13 ottobre 2024

 

 

 

 

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(1)

 

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