”A quel tempo c’era una povertà. Una cenere. Una miseria scaturita dal sangue che bisognava nascondere
IL MONDO COME VILLAGGIO POTËMKIN
Se c’è una verità nota a chiunque – e proprio per questo inconfessabile – è che l’orizzonte della finzione è oramai divenuto l’unico paradigma di vita credibile. Lì fuori c’è chi, senza una meta precisa, credendosi uno spirito libero, vaga come un naufrago alla ricerca del presumibilmente vero, dell’autentico, del primordiale. Uno qualunque, uno comunque, qualsiasi cosa: purché sia qualcosa di utile ad alleviare il dolore che questa ferita nella coscienza arreca sul corpo indifeso, dopo che quest’ultimo ha fatto sua, per troppo tempo, la menzogna. Alcuni di questi li sappiamo smarriti alla ricerca di un’oasi ideale. Bisognosi d’amore e di effimere folgorazioni. Di contatto. Di un silenzio infuocato che difficilmente riesce nell’intento di purificare quei piccoli residui di animalità latente che ancora per poco ci accompagneranno.
Poi, di ritorno da queste effimere escursioni alla ricerca dell’idillio, tutto, come in un lampo, ritorna presso la sua integrale alterità. Nella fase di accettazione del mondo come messa in scena della finzione come verità. Dove ‘fare la propria parte’ è come recitarla. Consapevolmente. Ovunque. Continuamente: senza volere, senza pensare. Esattamente come accadeva nei villaggi Potëmkin nella Russia del 1787: poiché è il mondo, tutto il mondo, che oggi appare come una gigantesca messa in scena della non-volontà. Quella di tutti e di nessuno, perché tutti e nessuno, ora più che mai, sono la stessa cosa.
A quel tempo c’era una povertà. Una cenere. Una miseria scaturita dal sangue che bisognava nascondere. Lo sguardo opaco di un’Imperatrice che in lontananza scrutava quelle costruzioni fittizie, pretendendo di crederle vere. E poi quello obbediente, timido e freddo, dei sudditi chiamati a recitare il ruolo di contadini felici, messi lì per compiacerla. Come in un continuo assecondare: dal momento che tutti sapevano, a partire dal Palazzo, che niente di tutto ciò che i suoi occhi vedevano, era vero.
Alcuni storici danno per buona l’ipotesi che questa storia sia, in verità, una leggenda. Ma, tuttavia, è noto come il potere negli anni abbia usato e abusato di simili ‘costruzioni’ per plasmare l’opinione delle masse e, in fine, dirottare la storia verso sentieri a esso sempre più congeniali: quelli che tutt’ora conducono indisturbati dentro foreste dove nessuna verità alberga. Dove fiorisce menzogna per distruggere e creare mondi costantemente appesi sul filo fragile della dissoluzione.
Gran parte di esse sono state i pilastri fondanti di duemila anni di storia. Cemento che gli eventi (altre menzogne) hanno corroso nel tempo a fatica. In molte abitiamo ancora. Ne abbiamo strenuamente difeso la paternità, il perimetro, la memoria, l’utilità. E in mille sofisticate varianti, sono giunte fin qui, dando vita a ciò che noi oggi chiamiamo postmodernità: il più grande di tutti i villaggi Potëmkin. La religione come intercessione tra il terreno e l’incorporeo, la scienza come strumento di preservazione della vita, la mano invisibile del mercato, il progresso come mezzo di raggiungimento di un grado superiore di benessere e uguaglianza, la politica come res publica, la democrazia come esercizio di sovranità popolare e i mass media come spazio di vedute eterogenee, dibattito e informazione pluralista: sono tutte costruzioni a cui noi crediamo ancora. Quinte di cartapesta di un sontuoso teatro, la cui luce nasconde presagi di tenebra che un attimo solo convertirà in storia.
Sono elucubrazioni che solo l’interiorità può dilaniare. Poiché si può mentire al corpo solo con un altro corpo. Con un simbolo che inganna un altro simbolo. Ma l’interiorità è l’occhio ermetico che scruta oltre. Che ne riconosce la natura specchiata attraverso l’intuizione. E l’intuizione è coscienza. Eterna crisalide dove sta racchiuso il canto muto della verità più vera tra le verità. Lì, solo lì, ci confidiamo appena con il nostro sé. E liberiamo questo canto che improvvisamente si fa Dio in una sola voce e dissolve lembo a lembo ogni inganno, ogni artificio, ogni costruzione: in una rotazione continua, senza inizio e senza fine.
Ma è solo un transitare effimero che dura il tempo di un istante. Fuori di noi tutto è come in quel villaggio. Noi siamo quel villaggio: non crediamo a niente, ma fingiamo di credere a tutto. E come quelle comparse, siamo consapevolmente partecipi di questa gigantesca riformulazione, come lo siamo già stati altre volte in passato: ora solo sempre più passivi, ora solo sempre più silenziosi.
Il vero, o il perseguimento del presumibilmente vero, non ha più nessuna importanza. Irrita le nostre coscienze. Pesa come un macigno sulle nostre teste grevi. Mortifica. L’unica cosa che pare abbia importanza è mistificare la mistificazione del già mistificato. L’unica che conta, invece, è crederci. O fare finta di. Ed è per questo, solo per questo, che ora lasciamo libera una forza impegnata a cancellare le tracce di un passato autentico che all’inizio fu principio, a contraffare-esiliare libri, pensieri e parole: per rendere meno dolorosa la verità che appartiene a questa menzogna. Per fare della tabula rasa il terreno fertile dove concimare l’inganno.
E ora che per gli ingegneri del domani è già tempo di edificare nuove costruzioni, ora che la finzione è sempre più evidente e l’artificio è messo duramente a lavoro per assemblare simulacri senza precedenti, nelle strade scorgiamo facilmente i palesi segni dell’ottundimento. Della resa. Della paura alitata sui vetri delle case. Dell’accondiscendenza che plasma l’etere e diventa un tutt’uno con le cose. E nella inevitabile collisione con il nulla conclamato dei sensi, l’interiorità – rimasta per troppo tempo inascoltata – punisce. Cerchia col vuoto la vita, facendo sentire lo spirito inadatto al tempo che va e al tempo che viene: dal momento che in un tale contesto essa non trova più spazio e nemmeno una dignitosa possibilità di rivalsa. Tutto quello che sa – e che forse ha sempre saputo – è che da questo punto in avanti sta per finire una storia: quella dell’umano troppo umano che è in noi.
Che sostanzialmente sta per dissolversi il tempio di ossa e di carne che fin qui gli è stata dimora. Sono l’esilio e la condanna di una forma di vita che agisce e pensa secondo la sua forza più vera: quella che non ha linguaggio, ma che si muove al di là e al di qua del linguaggio. Con la sola forza che è impulso, che è azione. La volontà. La forza di volontà. Questo è infatti quello che ci manca: la volontà d’intendere e di volere. Nient’altro che la volontà.
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Ma un abbraccio crepuscolare ha raggiunto anche il cielo: è notte lì fuori. E in questa notte è certo che nessuno di quei naufraghi alla ricerca del presumibilmente vero, è più in grado di distinguere il vero o falso nelle folgorazioni: poiché anche quei puntini luminosi che vediamo nel pulviscolo, un tempo conosciuti come stelle, ora si fondono insieme a un disciplinato oscillare di una flotta di satelliti che colonizzano e confondono. Si tratta di altre costruzioni. Sofisticati villaggi che solo l’interiorità del cosmo, un giorno, forse, sarà capace di abbattere.
Giancarlo Cutrona è un regista, documentarista, poeta, attivista culturale. Uno di quegli intellettuali lucidi e coraggiosi di cui il nostro tempo ha gran bisogno. Lo ringraziamo per averci messo a disposizione questo splendido testo e consigliamo di visitare il suo sito giancarlocutrona.com
Ionoblog / Fotografie: Gregor Sailer