”«Ogni mattina Anita si accomoda alla Olivetti e digita digita digita. Le storie che deve trascrivere sono belle. Anita coi personaggi entra subito in confidenza. Tempo due racconti e le sembra di conoscerli da una vita.
«Alice Basso seduce e cattura grazie a originalità e freschezza»
la Repubblica – Silvana Mazzocchi
Italianizzare, è questo l’imperativo. Per Anita e Clara, ventenni torinesi, storpiare italianizzando le parole straniere è un piccolo gioco privato, perché il regime fascista è, nel 1935, ancora qualcosa su cui è possibile scherzare. L’atmosfera è nebulosa, ambigua, e tutto quello che si può fare è tenere gli occhi aperti e le antenne puntate per captare i segnali di una verità oscura e minacciosa, di cui si avverte l’invisibile presenza dietro la finta verità di splendore diffusa al cinegiornale.
Lo sente Clara, studiosa e intelligente, che vorrebbe poter leggere senza censure, farsi un’opinione con la propria testa ed esprimere le proprie idee. Lo sente Anita, bellissima e un po’ civettuola, che soffre le imposizioni e la mancanza di libertà. Ed è proprio un improvviso e inaspettato slancio di libertà ad indurre Anita, di fronte alla tanto anelata proposta di matrimonio da parte del fidanzato Corrado, a rispondere con una richiesta inusuale: lavorare, lavorare per sei mesi prima delle nozze. Proprio lei, che ha sempre pensato che un battito di ciglia e un sorriso fossero più utili di qualunque nozione, purtroppo anche quelle di stenografia. Proprio lei, che a scuola non ha mai mostrato interesse per le pagine scritte. Eppure, il destino e un po’ di furbizia porteranno Anita a trovare impiego proprio nel mondo dell’editoria: dattilografa per una rivista di racconti hard-boiled americani.
E così, trascrivendo con la propria Olivetti quelle storie di detective stropicciati, vicoli bui e bicchieri pieni di whisky (anzi: uischi), Anita capirà perché quelle storie piacciono tanto alla gente. Perché sono belle, innanzitutto. Perché a quei protagonisti un po’ malmessi ci si affeziona facilmente, con i loro problemi e le loro disgrazie in cui rispecchiare le proprie. Perché fanno ridere, mozzare il respiro, fantasticare, ma, soprattutto, accendono la voglia di investigare e stanare la polvere che si cela sotto il tappeto. Che è poi il motivo per cui esse danno tanto fastidio alle autorità, che cercano di italianizzarle e piegarle ai dettami del regime.
Anita si innamora così della lettura (e chissà, forse non solo di quella), in un percorso di crescita che potrebbe portarla lontano, a scoprire la forza di una storia e il bisogno che ha l’anima di trovare la propria voce, ribellandosi al silenzio. Alice Basso si dimostra ancora una volta abilissima nel miscelare umorismo, romanticismo e un soffio di mistero (data l’esilità, definirla trama gialla mi pare fin eccessivo), avvolgendo il tutto in un contesto storico che offre tantissimi spunti, sul ruolo femminile, la libertà di pensiero, la difficoltà di aprire gli occhi su verità scomode e il coraggio che serve per raccontare quel che si è visto. Si tratta di intrattenimento, intrattenimento che strizza innegabilmente l’occhio alle vendite, ma a renderla una lettura accattivante e piacevolissima è l’inconfondibile tocco di grazia e freschezza, capace di regalare un sapore speciale alle pagine, lasciando all’ultima riga il desiderio di proseguire oltre.
Posso solo immaginare quanto sia difficile per un autore abbandonare un personaggio che ti ha regalato popolarità e successo, ma in questa storia ho ritrovato una vitalità e un entusiasmo che quelle della famosa ghostwriter Vani Sarca avevano a mio avviso ormai perduto. Quindi, per quel poco che conta il mio giudizio: benvenuta Anita, aspetto già la tua prossima avventura!
La trama del romanzo
«Ogni mattina Anita si accomoda alla Olivetti e digita digita digita. Le storie che deve trascrivere sono belle. Anita coi personaggi entra subito in confidenza. Tempo due racconti e le sembra di conoscerli da una vita. In ogni storia il protagonista di turno si ritrova in un agguato, in una sparatoria, in una rissa. E Anita ormai lo sa che il personaggio ne uscirà intero, o perlomeno con buone prospettive di ripresa, perché sono racconti seriali, giusto? Mica lo fai crepare, il protagonista che deve tornare ancora e ancora, ci arriverebbe anche un cretino; eppure a ogni lama di coltello che balugina nel buio di un vicolo, a ogni sguardo nero dell’occhio cavo della canna di una pistola, a ogni sagoma minacciosa che si staglia contro la porta di una bisca, Anita trasale e digita più in fretta per vedere come andrà a finire.»
Il suono metallico dei tasti risuona nella stanza. Seduta alla sua scrivania, Anita batte a macchina le storie della popolare rivista Saturnalia: racconti gialli americani, in cui detective dai lunghi cappotti, tra una sparatoria e l’altra, hanno sempre un bicchiere di whisky tra le mani. Nulla di più lontano dal suo mondo. Eppure le pagine di Hammett e Chandler, tradotte dall’affascinante scrittore Sebastiano Satta Ascona, le stanno facendo scoprire il potere delle parole. Anita ha sempre diffidato dei giornali e anche dei libri, che da anni ormai non fanno che compiacere il regime. Ma queste sono storie nuove, diverse, piene di verità. Se Anita si trova ora a fare la dattilografa la colpa è solo la sua. Perché poteva accettare la proposta del suo amato fidanzato Corrado, come avrebbe fatto qualsiasi altra giovane donna del 1935, invece di pronunciare quelle parole totalmente inaspettate: ti sposo ma voglio prima lavorare. E ora si trova con quella macchina da scrivere davanti in compagnia di racconti che però così male non sono, anzi, sembra quasi che le stiano insegnando qualcosa. Forse per questo, quando un’anziana donna viene arrestata perché afferma che un eroe di guerra è in realtà un assassino, Anita è l’unica a crederle. Ma come rendere giustizia a qualcuno in tempi in cui di giusto non c’è niente? Quelli non sono anni in cui dare spazio ad una visione obiettiva della realtà. Il fascismo è in piena espansione. Il cattivo non viene quasi mai sconfitto. Anita deve trovare tutto il coraggio che ha e l’intuizione che le hanno insegnato i suoi amici detective per indagare e scoprire quanto la letteratura possa fare per renderci liberi.
Tutto quello che passa dalla penna di Alice Basso risplende di unicità e stile. Dopo aver creato Vani Sarca, uno dei personaggi più amati degli ultimi anni dai lettori e dalla stampa, l’autrice torna con una nuova protagonista indimenticabile: combattiva, tenace, acuta, sognatrice. Sullo sfondo di una Torino in cui si sentono i primi afflati del fascismo, una storia in cui i gialli non sono solo libri ma maestri di vita.
Come inizia
1.
IL GIARDINO DELL’EDEN
In pratica il quadro è questo.
È la fine del pomeriggio del primo vero sabato d’estate. Torino pullula di persone felici di trovarsi all’aperto, la luce è una colata d’oro e i portici di piazza Statuto, per contrasto, sono freschi di ombra azzurrina. Nel bar – anzi, nella mescita – sotto i portici, lato sinistro, la radio sta trasmettendo uno dei cinque radiogiornali quotidiani, e siccome oggi fa caldo e le porte sono aperte le parole arrivano fin dentro la Tabaccheria Bo, che confina con il bar. Con voce stentorea e nasale, il lettore del radiogiornale sta informando i cittadini che questa mattina, 8 giugno 1935, a Cagliari, il Duce ha tenuto un focoso discorso in difesa della politica italiana in Africa e contro i pregiudizi degli inglesi, i quali si guardassero loro prima di criticare altre potenze coloniali come l’Italia (questa la sostanza del discorso, anche se il radiogiornale ovviamente usa ben altro registro). I toni sono accesi, il lessico elevato e altisonante.
L’omino che sta acquistando delle sigarette al bancone della Tabaccheria Bo ode tutto questo, ma non una singola parola ha speranza di imprimersi nel suo cervello, giacché questo si trova interamente occupato a gestire la visione di un paio di seni.
I seni in questione appartengono ad Anita Bo, la figlia di Ottavio, il proprietario della tabaccheria, e di Mariele, nata Giraudo, sua moglie e aiutante di bottega. I due coniugi, peraltro, sono presenti in tabaccheria: Ottavio, poggiato coi grassi gomiti sul bancone di legno scuro, sta controllando il registro dei crediti, come sempre a fine giornata − l’omino sarà l’ultimo cliente prima della chiusura; Mariele sta scrostando il bilancino del sale. C’è anche un’altra persona nella tabaccheria, ossia Clara, l’amica di Anita, che la sta aspettando accanto alla porta, osservando la scena e ridendosela sotto i baffi. E poi ci sono naturalmente Anita e l’omino.
«Signor Pirotto, io gliele do le sue Moresca, ma è sicuro? Sicuro sicuro?»
Anita agita la confezione di sigarette davanti al proprio seno destro, rivestito dal camice ma ugualmente intuibile. L’omino di certo lo sta intuendo benissimo.
«Io capisco che le sue sigarette Moresca le piacciano proprio tanto, signor Pirotto, sa? Le acquista qui da noi da almeno un anno, due volte a settimana. Ah, sì, sì, lei magari pensa che io possa non farci caso, con tutti i clienti che passano, e invece… Due volte a settimana lei viene qui da noi a spendere ben una lira e cinquanta per una di queste confezioni. Sono le sue vecchie amiche, le sue inseparabili compagne. E però.»
La boccuccia di Anita si storce in una smorfia di rammarico. È una bella boccuccia, di quelle che non avrebbero bisogno di rossetto (ma che comunque ha del rossetto). L’omino è quasi tentato di sollevare lo sguardo dai seni. Quasi.
«E però», ripete Anita, «io so anche, signor Pirotto, mi scusi tantissimo l’impertinenza, che sua moglie ne ha abbastanza dell’odore di fumo stantio in casa. Ne parla ogni volta che viene qui a comprare il sapone da bucato: dice che quest’ultimo inverno di fumate a finestre chiuse ha colmato la misura, che la puzza le appesta le tende, i divani, i tappeti, i centrini, le federe, il copriletto, i paralumi e la carta da parati, e la fa tossire e le serra la gola eccetera eccetera. Che sia il modo della sua signora di suggerire un rinnovo degli arredi? Non lo so e non è affar mio; ma io mi preoccupo per lei, signor Pirotto, che per colpa mia che le vendo le sigarette mi va a litigare a casa! Quindi… con permesso, oggi vorrei proporle un piccolo esperimento.»
Ora agita una seconda confezione di carta morbida davanti al proprio seno sinistro.
«Fumare meno ma fumare meglio: passare alle Giubek, che son più buone, lo sanno tutti, infatti son quelle che vanno per la maggiore. Non le dico mica di smettere, sia chiaro: che uomo è, un uomo che non fuma? E poi i dottori dicono che fa bene, che tiene la gola bella calda e tutto il resto. Però l’aroma sarebbe migliore e le sigarette sarebbero meno, ma più soddisfacenti. E sua moglie le sarebbe di certo grata per l’impegno… Di sicuro io, al suo posto, lo sarei.»
E sbatte le ciglia, ciglia lunghe su occhioni scuri che non avrebbero bisogno di ombretto (ma che comunque hanno dell’ombretto).
L’omino reprime (male) un sussulto.
«Oltretutto, costano solo poco poco di più: appena una lira e settanta centesimi. Allora, signor Pirotto: cosa preferisce?»
Mano destra su, mano sinistra un po’ più su. L’omino non ha più scuse per guardarle il davanzale. Da dietro l’involto di velina, occhioni e boccuccia di Anita sorridono incoraggianti.
«Prendo le Giubek», dice l’omino. Anita si complimenta con lui con entusiasmo, l’omino paga e, con un certo rammarico, saluta e se ne va.
Clara aspetta che la porta si sia chiusa con un ding! della campanella, poi finalmente può ridere. «Sei una strega. È evidente che visto che gli piaceranno di più non riuscirà a ridurre un bel niente, e tornerà a comprare sempre due volte a settimana dieci sigarette ma a una lira e settanta.» Anita annuisce connonchalance (anzi, nonscialanza) e rimette le Moresca sullo scaffale, allegra come un fringuello.
«Non c’è dubbio che quando c’è Anita in tabaccheria gli affari vadano meglio», borbotta Ottavio, il naso a tubero affondato nel registro. «Peccato che la signorina si degni di venirci ad aiutare solo quando ne ha voglia.»
«Quante storie. Se vi faccio vendere il doppio posso venire la metà del tempo», cinguetta sua figlia, sbottonandosi il camice. Sotto, compare un vestitino a fiori. I fiori sarebbero margherite, ma il terreno su cui poggiano è tutto una curva, una collina e un avvallamento, come il signor Pirotto potrebbe ben testimoniare, a giudicare dall’attenzione con cui l’ha esaminato, dunque in certi punti le margherite sembrano nontiscordardimé, in altri gerbere e girasoli. Il giardino dell’Eden doveva avere più o meno quell’aspetto.
«Peccato che poi qualcuno che è tanto bravo a vendere faccia delle scempiaggini come lavare il bilancino e poi scordarsi di asciugarlo. Adesso è tutto incrostato di sale e pezzi di velina», bofonchia Mariele dandoci di straccio. Sotto le sue manacce, che quanto a dimensioni e maniere non hanno nulla da invidiare a quelle del marito, il bilancino sembra preoccupato.
«Uh, quante storie di nuovo!» Anita si sventaglia con le mani mentre cerca il soprabito. «Fa caldo, oggi. Posso fare un bagno?»
«No.» Sempre Mariele. «Il bagno solo la domenica mattina. Fosse per te non faremmo che sprecare acqua. Credi che i soldi piovano dal cielo?»
«No, ma l’acqua sì!» trilla la voce di Anita dalla porticina del retrobottega, nel quale s’è già infilata nel frattempo.
Mariele alza gli occhi dal bilancino. «Ti ha fregata», ridacchia Ottavio.
Anita si riaffaccia dal retrobottega, il soprabito piegato sul braccio. In tre secondi, s’è spazzolata i capelli e ravvivata il rossetto. «Allora io e Clara andiamo solo su in casa un momento a mangiare qualcosa e poi usciamo. Vieni, Clara!»
«Non potete aspettare dieci minuti, che finiamo di chiudere qui, e cenare sedute a tavola con noi come tutte le persone perbene?» sbuffa Mariele. «Pure tuo fratello arriva fra poco e ho promesso di fargli le patate con la toma.»
«Ma no, mamma, vuoi che siamo le uniche ragazze di Torino a perderci l’adunata? E io voglio anche fare la passeggiata lunga!»
Mariele emette un brontolio da pentola sul fuoco. Sembra un po’ un mastino. Suona un po’ come un mastino. Come abbia fatto una ragazza così sinuosa come Anita a venir fuori da una madre che pare un mastino, nell’aspetto e nel sonoro, nonché da un padre che ha la forma precisa di un tino da mosto, è tutto un mistero.
«Allora ferma lì.» Mariele molla il bilancino al suo crostoso destino, si ficca una mano in tasca e ne estrae una manciata di spille da balia.
Anita fa la faccia di chi sperava di scamparla. «Che zucche, mamma.»
«Anita, le parole!»
«Veramente lo dice anche Renzo nei Promessi sposi», obietta Clara, che sta continuando a godersi la scena come al cinematografo.
«E tu non darle corda!» sbotta Mariele.
Dopodiché si piazza di fronte alla figlia e la squadra da capo a piedi.
Anita sospira, poi poggia il soprabito sul banco e si mette in posizione come sa: le braccia sollevate ad angolo retto, le gambe dritte e unite, il viso levato al cielo con espressione da martire, questo più per tacita polemica che altro.
Tic!, tic!, tic! Le mani di Mariele fissano le spille su Anita in modo da chiuderle la scollatura del vestito, bloccarle la cintura così che non le segni troppo il girovita, e poi anche – ma questo non prima di avere fatto cenno a Clara di controllare che nessuno stia passando fuori dalla porta a vetri – agganciarle la gonna all’orlo inferiore dei mutandoni (d’inverno, alle calze di maglina) perché non si sollevi più dello stretto necessario per camminare.
«Ma fasciami direttamente tutta da capo a piedi come una mummia e risparmiati questa trafila ogni volta», ironizza Anita.
«Forse farei bene, sì», bofonchia Mariele. Dall’espressione, potrebbe stare valutandolo sul serio. Quello, o una cintura di castità.
Tuttavia, negli occhi di Anita c’è una strana lucetta sorniona. Clara le lancia un’occhiata interrogativa: Anita sembra meno indispettita del solito dal Rituale delle Spille. Anita si accorge che Clara s’è accorta, e le rifila un velocissimo occhiolino. Ha decisamente qualcosa in mente. Clara incrocia le braccia e si appoggia allo stipite della porta come chi già pregusta un colpo di scena. Stasera lo spettacolo sta andando alla grande.
«…E comunque, mammina», insinua infatti Anita, «io la spilla alla scollatura stasera la toglierei.»
«Come no, proprio stasera che vai a vedere i bersaglieri. Che faccia di tolla.»
«No, mamma: proprio stasera che vado a vedere i bersaglieri con il figlio dei Leone.»
Mariele si impettisce all’istante come una vela gonfiata dal vento, della quale ha peraltro la forma. Suo marito solleva la facciona dal registro.
«Il figlio dei Leone? Corrado Leone, dei Leone degli alimentari? Quindi vi frequentate davvero», deduce Ottavio, che sarà un ottimo bottegaio ma nelle faccende interpersonali non è che sia questo fulmine – d’altra parte, ha sposato Mariele.
«Eccome», sogghigna Anita, sempre più trionfante. «E, se le mie intuizioni sono esatte, da stasera potremmo, uhm, frequentarci in modo più ufficiale.»
Mariele fa un saltino. Piccolo, ma solo perché più di tanto non riesce. «Stai dicendo che credi che il Leone…» Abbassa di colpo la voce, lancia uno sguardo alla porta, che sia ancora ben chiusa; Clara, che è sempre appoggiata allo stipite a godersi la scena, spinge la maniglia per farle segno che per essere chiusa è chiusa e di andare pure avanti, che vuole vedere come va a finire. «…Che credi che il Leone potrebbe chiederti di fidanzarvi?»
Anita alza le spalle e fa un sospiro vago, a significare chissà.
Mariele elabora per cinque secondi, in evidente stato di preinfarto.
Poi si riavvicina ad Anita e le sgancia due spille su quattro.
(Quelle sotto la gonna le lascia.)
Per Anita è abbastanza. Emette un gridolino di vittoria, abbranca il soprabito con una mano e Clara con l’altra, e con un «Ci vediamo per le dieci!» sparisce con l’amica lungo i portici di piazza Statuto.
2.
SIATE SVEGLIE, SIATE UNITE
Come si diceva, è un bel sabato sera, quello dell’8 giugno del 1935 a Torino. Le finestre sono aperte a far entrare il tepore, dalle case vengono rumori di piatti rigovernati, le carrozze a cavalli fanno risuonare le vie del Quadrilatero di cloppiti clop rotondi come ciottoli. Anita e Clara, sottobraccio, costeggiano il parcheggio delle vetture di piazza, tutte lucide e verdi e nere come le mosche d’oro, quelle che si dice che portino fortuna. Qualche autista saluta le ragazze con un cenno del capo, mica perché le prenda per delle potenziali clienti – figuriamoci, due tote giovani così: per quelle macchine là ci vogliono i soldi – ma perché, be’, sono due ragazze giovani a passeggio ed è estate per tutti, anche per i torinesi. Dal canto loro, le ragazze alzano il mento e tirano dritto, che va bene perché è il modo in cui tutti si aspettano che reagiscano due ragazze a modo (anche se Anita proprio non ce la fa a non sorridere un pochino).
«Non è che vogliamo andarci in macchina a vedere i bersaglieri, vero?» chiede a Clara giusto per verifica.
«Mah, no. E poi non abbiamo i soldi», risponde Clara.
«Ma mica pagando», si indigna Anita.
Clara le fa un sorrisetto.
Anita le fa un sorrisetto.
Sia Anita che Clara sanno benissimo che ad Anita basterebbe sbattere le ciglia davanti a uno di quei vetturini adolescenti col pomo d’Adamo che gli esplode dal colletto troppo stretto per la stagione, e al di là del Po ci arriverebbero in macchina.
«Nah, preferisco camminare», dice Clara.
«Peccato», sospira Anita. «Potevo anche farmi passare per una vera appassionata d’auto. Corrado non fa che parlarmi della Balilla 508 Spider che si comprerà appena suo padre gliene darà il permesso, e so dire carburatore e cambio a tre marce e cilindrata e freni a tamburo.»
«Non hai proprio ritegno, vero?» chiede Clara deliziata.
«Lo sai come la penso», sorride Anita a mento alto, guardando davanti a sé. «Lo sanno tutti che noi ragazze belle siamo delle oche senza cervello. Tanto vale imparare a farlo fruttare.»
E Clara annuisce perché sì che lo sa, come la pensa Anita. Lo sa dai tempi della scuola.
Anita e Clara sono state compagne di banco al Maria Laetitia, uno dei noiosissimi istituti femminili professionali a indirizzo commerciale di Torino. A metterle una a fianco all’altra, non la sorte ma la professoressa di dattilografia.
Perché? All’epoca a scuola se l’erano chiesto tutti, loro due in primis. Ispirazione? Esempio? Sadismo? Un po’ di sadismo doveva esserci entrato di sicuro. Già allora, bastava guardarle vicine. Clara: brava in tutto, riservata, efficiente e, povera stella, brutta come un due novembre, con la silhouette di uno di quei secchi cilindrici del carbone e il naso dei pugili lenti. Anita, invece: pessimain tutte le materie, irrequieta come una lucertola e più selvatica di un gatto di strada, ma – tanto per rimanere sulle metafore zoologiche – sveglia come un furetto e graziosa come un capriolo. Nate complementari, fatte per non capirsi. Che la professoressa Fiorio avesse sperato che l’influsso di Clara giovasse ad Anita? Che avesse voluto far pagare ad Anita la sua indisciplina affiancandole la sua nemesi?
La verità era che, semplicemente, la professoressa Fiorio ci aveva visto lungo. Clara e Anita non solo si erano capite eccome, ma si erano capite al volo. Tempo un mese e avevano iniziato a venire a scuola più volentieri di prima, per il puro gusto di vedersi, e poi addirittura a girare sempre assieme. «Come fate ad andar così d’accordo?!» aveva esclamato una volta la custode della scuola, riportandole in classe dalla Fiorio per i colletti dopo aver sedato una lite nei corridoi (Anita aveva fatto scappare due ragazze per difendere Clara, e la custode che era intervenuta a sgridarla se l’era dovuta vedere con Clara che a quel punto era accorsa, lei, in difesa di Anita).
«Già, come facciamo?» aveva chiesto Anita a Clara, divertita, non appena la custode se n’era andata sbuffando. Di fianco a lei, in piedi accanto alla cattedra, nell’aula ormai vuota dopo l’ultima campanella, Clara le aveva fatto segno di starsene brava e composta; però un po’ aveva ridacchiato anche lei.
«È abbastanza plausibile, in verità», aveva spiegato la Fiorio. «Guardate qua. Vi faccio pure lo schemino.» S’era tirata davanti un foglio e una penna. «Al giorno d’oggi, alle signorine perbene della vostra età, come s’insegna che devono essere?»
Senza aspettare risposta aveva scritto, al centro:
Carine
Obbedienti
Già, avevano annuito Anita e Clara. Carine per fare figli belli. Obbedienti per fare mariti felici.
«Be’, io di certo non sono obbediente», aveva detto Anita con un’alzata di spalle.
«E io di certo non sono carina», aveva ridacchiato Clara, peraltro senza sembrarne minimamente rammaricata.
Candida non si era scomposta né aveva cercato di obiettare nulla. «Ma sapete cosa siete, tutte e due?» E aveva scritto, più in basso, un po’ staccato:
Intelligenti
«Tu» – e aveva indicato Anita – «sei una furbacchiona. Hai già capito che con quegli occhioni e quel sorriso riesci a far fare a chiunque quello che vuoi. E anche che ti viene ancora meglio se ti fai passare per sciocchina.» E intanto aveva tirato una riga su carine.
Anita aveva tentato, giusto per un mezzo secondo di prammatica, di fingersi scandalizzata ma, ehi, la Fiorio era la Fiorio. Così aveva dato di gomito a Clara come se si fosse appena beccata un complimento.
«Ma anche tu sei una furbacchiona», aveva aggiunto la Fiorio, indicando Clara, e intanto tirando una riga anche su obbedienti. «Tu hai capito che facendo tanto la brava ragazza modesta, che studia e fa il suo dovere, ti puoi ritagliare la tua libertà, per esempio di leggere e studiare quello che vuoi, e tutti ti lasciano in pace.»
«…a parte le ragazze che ce l’hanno con me perché sono la migliore amica di Anita», aveva fatto notare Clara, lusingata anche lei.
Candida aveva concesso l’eccezione con un cenno del capo. «Quello che voglio dire è che siete le studentesse più in gamba che ho.» Anita aveva aperto la bocca per far notare che i suoi voti facevano pena, ma Candida l’aveva zittita in corsa, con un cenno della mano. «Non ho detto le più brave, ma le più in gamba. Siete le uniche fra tutte le allieve di questa scuola che abbiano capito come trovarsi la loro libertà. Per questo vi ho messe vicine: vi dovete coltivare a vicenda. Siate autonome, siate sveglie e siate unite. E la prossima volta che qualche compagna viene a dire a te» – indicando Anita – «che ti porti dietro lei per farti passare i compiti, o a te» – indicando Clara – «che stai appresso a lei per prenderti i suoi spasimanti scartati…»
«…veniamo a dirlo a lei?» aveva concluso Anita.
«No, ve la cavate da sole, perché il mondo oggi è una giungla per delle ragazze, e dovete imparare a badare a voi stesse.»
Anita e Clara se n’erano andate euforiche, sibilandosi a vicenda «Il mondo è una giungla!» e saltellando nelle loro uniformi (mentre Candida, a onor del vero, urlava dietro ad Anita che comunque trasferire un po’ di quell’intelligenza anche al rendimento scolastico non avrebbe fatto schifo).
Poi le scuole erano finite, i mesi e gli anni trascorsi, Clara era andata a fare la dattilografa alla Reale Mutua e Anita ad aiutare i genitori con la tabaccheria. Ma avevano continuato a frequentarsi e a uscire insieme, e sono in giro assieme stasera, che hanno vent’anni, è sabato e a Torino è esploso giugno.
Arrivano in piazza Castello e guardano su.
«Niente», dice Clara. «Non riesco ancora ad abituarmi.»
«Per forza, santa polenta, è proprio brutta forte», dice Anita.
Clara le dà di gomito nelle costole. «Parla piano, che stasera sono tutti in giro.»
«Certo, questi costruiscono un obbrobrio e poi quella che deve stare zitta sono io.»
È che la Torre Littoria, effettivamente, fa schifo. Nuova nuova, contro il cielo ancora chiaro, svetta sulla piazza elegante come una pigna di mattoni su una tavola apparecchiata. Una ciminiera sopra Versailles. Architettura razionalista, l’hanno chiamata: cosa ci sia di razionale nel deturpare così una bella piazza, i torinesi se lo stanno ancora chiedendo.
«“Il dito del Duce”», cita Clara. È così che i torinesi l’hanno subito ribattezzata. «Mah. Dicono che anche la Torre Eiffel all’inizio non piacesse ai parigini.» Continua a scrutarla come se sperasse di farci il callo, come quando a furia di respirare un odoraccio finisce che non lo senti più.
Anita scuote il capo. «Gli astigiani stanno peggio, mi sa. L’altro giorno è passata in negozio la Prisconi, che ha la sorella che vive lì. Dice che nella piazza grande stanno finendo una Casa del Fascio praticamente identica a questa torre, ma peggio: con sotto due padiglioni rotondi, che le danno proprio quella forma là.»
«Non ho capito: che forma?»
Anita si avvicina al suo orecchio e le sussurra qualcosa, Clara si tappa la bocca con la mano e sibila «Iiih!».
«Almeno a noi del Duce è toccato solo il dito», sussurra Anita.
Il peggior attacco di ridarola della serata.
Che poi. Ridono, ridono, ma la verità è che fanno battute su cose che non conoscono per niente. Perché sono due ragazze di buona famiglia, di vent’anni, nel 1935: sarebbe a dire che sono più innocenti di due goccioline d’acquasanta scivolate dal bordo di un fonte battesimale sull’ala di una colomba bianca allevata a ramoscelli d’ulivo. Però una delle due probabilmente sta per fidanzarsi, stasera, e c’è questa corrente elettrica che crepita attorno a entrambe, quest’aura di promesse nuove e adulte che vibra loro intorno, come quando fa molto caldo e anche l’aria freme che sembra che non veda l’ora di qualcosa.
Sono ancora in piena crisi di riso quando una voce purtroppo familiare le interrompe come una secchiata di ghiaccio.
«Oh, le signorine! Siamo di buonumore, stasera?»
Le ragazze si girano, gli ultimi singulti che si spengono a mezz’aria. Ecco, e ti pareva: li nomini, li evochi. Sono comparsi, come due spettri dal nulla, due tizi in nero. Uno è un pischello che sembra il fratellino di Anita, ma è grosso il doppio e a giudicare dalla postura sembra molto preoccupato che il suo torace sembri il più vasto possibile sotto la camicia di orbace. L’altro è un panzone baffuto e nel quartiere lo conoscono tutti: è Sauro Bonatti, il fiduciario del gruppo rionale del fascio.
Clara è la prima a trasformare gli strascichi di riso in una tossettina nervosa. Non che abbiano fatto nulla di male, ma sono state appena beccate a sghignazzare contemplando la nuova torre di cui il fascio è tanto fiero. È una cosa sulla quale, ultimamente, le autorità tendono a essere suscettibili.
Le ragazze si scambiano una fugacissima occhiata.
Quella di Clara vuol dire “stai buona, fai il santissimo piacere”.
Quella di Anita vuol dire “che zucche”.
Quella di Clara vuol dire anche molto altro, in verità. Le occhiate fra due persone che si conoscono da un millennio possono concentrare intere concioni in un secondo. Clara sta dicendo ad Anita, tramite sopracciglia, palpebre e muscoli perioculari, che sa che Anita è uno spirito libero, il più libero che conosca, e che sa bene che, se c’è una cosa che Anita proprio non sopporta, sono questi tizi che sbucano da tutte le parti per dirle in continuazione cosa deve fare, di cosa deve preoccuparsi, come deve vivere.
I suoi genitori, per esempio – sua madre in particolare.
I professori a scuola.
E anche, da quando è diventata abbastanza grande da fare caso alla loro esistenza, le autorità fasciste.
L’occhiata di Anita continua a risponderle, soltanto e semplicemente, “che zucche”. Ma si vela anche di un esasperatissimo “e va bene, farò la brava”.
«Signorine», dice Bonatti, accigliato, «mi compiaccio che due cittadine siano tanto ilari, vuol dire che sono cittadine felici. I vostri genitori stanno bene?»
«Sì, signore», dice Anita, abbassando lo sguardo. Clara sbircia Anita con la coda dell’occhio e intanto fa come lei, china la testa come una studentessa redarguita alla cattedra.
«Molto bene. Portate loro i miei saluti. Sono certo che vi avranno insegnato anche a mantenere un contegno dignitoso in luogo pubblico.»
«Le chiedo… vi chiedo scusa», dice Anita. I fascisti preferiscono il voi. Dicono che il lei è frivolo e irrispettoso. «Stavamo chiacchierando e ci siamo lasciate andare.» Sbatte le ciglia. È l’innocenza in forma umana. Umana e tanto tanto carina.
Bonatti fa un cenno del capo, parca concessione di perdono. Glielo si legge in faccia: in questo momento si vede nei panni di un genitore inflessibile, in dovere di insegnare l’educazione alle figlie della sua madrepatria, tutto fiero di avere appena impartito una lezione di sobrietà. Poi queste sono ragazze del suo quartiere, la dattilografa e la tabaccaia, le vede in giro da quando erano alte così: insomma, è suo indiscutibile diritto vigilare sulla loro condotta.
Fortunatamente in faccia gli si legge anche che la docilità di Anita lo appaga. Emette un «mmmh» di condiscendenza a dichiarare chiusa la questione. Al suo fianco, il giovane miliziano sogghigna e si impettisce ancor di più, in una sorta di coreografia di supporto. Perché tutti, pensa Anita disgustata (ma ben attenta a non darlo a vedere), tutti, pure l’ultimo dei mocciosi a cui mammina deve avere insegnato l’altro ieri a fare il nodo ai lacci degli stivali e ad abbottonarsi dritta la camicia nera, si sentono in diritto in nome del decoro nazionale di fare la predica a due ragazze un po’ troppo esuberanti per strada.
Che poi, magari fosse l’unica cosa che si sentono in diritto di fare ai cittadini – ma questo è un altro discorso.
«Andate a spasso?»
«A vedere i bersaglieri», dice Anita.
Bonatti fa una risatina bonaria. «Ebbene, andate e applaudite le nostre gagliarde forze militari. Fa piacere vedere dei giovani che si recano a riverire la linfa della nostra patria.» Anche se naturalmente, nello sguardo che si scambiano lui e il moccioso nerovestito, c’è la convinzione che due ragazze, in particolare una svaporata come Anita, non possano che andarci per rimirarsi lubricamente i bersaglieri. Anita reprime una smorfia di disprezzo e la trasforma in un sorriso svenevole. Che credano quel che gli pare, basta che si levino dai piedi. E infatti, deo gratias, finalmente Bonatti fa un saluto romano, subito imitato dal giovane camerata, e si schioda di torno.
«Solo perché altrimenti ci avrebbero fatto fare tardi», taglia corto Anita prima che Clara, che pure ha aperto la bocca, possa ringraziarla di avere fatto la brava. Dopodiché si stringono a braccetto l’una all’altra e ripartono di buon passo verso il Po, che hanno perso già abbastanza tempo.
Questi fascisti. Ogni tanto te ne trovi qualcuno tra i piedi mentre cerchi di vivere la tua vita, per esempio mentre stai andando incontro al tuo futuro fidanzato.
3.
VOLEVO DIRE SÌ
Sono le nove meno dieci quando arrivano nella piazza della Gran Madre.
È piena di gente, ovvio. L’adunata dei bersaglieri è ormai una tradizione. Ci sono soprattutto ragazzi e ragazze, e pure un sacco di bambini. Qua e là ci sono camicie nere in mezzo alla folla colorata, come mosche su una torta di frutta.
Anita si guarda freneticamente intorno. Tempo due secondi e affonda i ditini nel polposo avambraccio di Clara.
«Eccolo là!»
Ci siamo.
Ai margini della folla, vicino a due suoi amici dell’Opera Nazionale Dopolavoro ma intento non a parlare con loro, bensì anche lui a guardarsi tutt’attorno a trecentosessanta gradi come un gufo, c’è Corrado Leone. Mani in tasca e casacca pulita, sta finendo di fumare una sigaretta arrotolata a mano.
Bellino è proprio bellino. È alto come la Torre Littoria della piazza di prima, segno che al mondo si può essere anche sproporzionati in altezza rispetto al contesto e non necessariamente fare schifo, anzi. Ha anche due spalle così, forgiate da anni di sport negli Avanguardisti e poi nei Fasci Giovanili. In più, è biondo e ha gli occhi azzurri: un dio vichingo, Thor (se Anita sapesse chi è Thor, naturalmente, ma non è il genere di cosa che a una ragazza venga insegnata a scuola. A dirla tutta, sono molto poche, di questi tempi, le cose che a una ragazza vengono insegnate a scuola).
Madre Natura ha voluto proprio giocarsi tutte le sue carte con Corrado: è come se avesse voluto vedere fin dove potesse spingersi nell’assemblaggio di un Perfetto Esemplare Di Maschio Umano, pescando pezzi solo dai contenitori delle parti belle. Anita nota che metà delle ragazze presenti starà anche seguendo con gli occhi i bersaglieri che confluiscono al centro della piazza, ma l’altra metà sta sbirciando Corrado. Ah. E neanche sanno (non tutte, perlomeno) che si tratta del rampollo di una famiglia facoltosa, proprietaria di uno dei negozi di alimentari più prosperi del centro di Torino. E lui, che appunto si sta guardando intorno, proprio in quel momento si volta e vede lei. Lei Anita.
Ah.
Corrado si illumina, le sorride e inizia a marciare in direzione di lei e di Clara.
Per tutta risposta Anita, anziché andargli incontro, si liscia sussiegosa la messimpiega e si ferma ad aspettarlo come la regina d’Inghilterra.
«Sta’ a guardare», sussurra a Clara, di sbieco, senza distogliere lo sguardo da Corrado in avvicinamento. «È così che inizia la storia di una famiglia perfetta con tre figli e un appartamento in centro.» Clara ride senza darlo troppo a vedere. A furia di far pratica, stasera le viene benissimo. «Oh, Clara, ci pensi? Potrei finalmente andarmene da quella casa che pare una caserma e da quel generale di mia madre. Avere una casa mia, una famiglia da mandare avanti come vorrei io, pure dei figli da tirar su ma come dico io, per la miseria. Essere finalmente padrona della mia vita, e oltretutto senza che nemmeno mia madre abbia da ridire, anzi, una volta tanto approvi e chiuda il becco.» Il viso le si arrossa di desiderio come in un romanzo di Liala. Se poi Corrado lo nota e pensa che sia per lui, tanto di guadagnato.
Nel frattempo, infatti, Corrado le ha raggiunte. «Signorine, buonasera.» Bacia la mano a entrambe, prima a Clara perché ha capito da un pezzo che se non stai simpatico a lei con Anita non vai da nessuna parte, e poi ad Anita, sulle cui nocche ha dunque il tempo di far indugiare le labbra un istante in più. Il colorito di Anita ha un’altra piccola virata verso il magenta, peraltro facendo pendant (anzi, pandante) con il tramonto che sta iniziando a tingere il cielo.
«Venite, venite, stanno per partire!» Corrado fa strada attraverso la folla, che si apre per farlo passare senza un solo ba di protesta. Succede, quando sei alto e massiccio come un leccio. Le ragazze gli corricchiano dietro. Arrivano a ridosso della prima fila, in un buon punto per vedere la piazza, proprio mentre gli ultimi drappelli dei bersaglieri guidati dai sottufficiali finiscono di incolonnarsi dietro alla fanfara.
La folla sobbolle e cicaleccia, in attesa.
Poi le note della tromba squillano fortissime e nella piazza succede quello che succede ogni volta: i bersaglieri scattano tutti di corsa come un sol uomo verso via Asti, in direzione della caserma, e la folla con loro, tutta dietro ai plotoni.
È la tradizione: l’adunata dei bersaglieri di rientro dalla libera uscita si conclude sempre con questo rituale, loro di corsa e la folla dietro. Nessuno li obbligherebbe a far così, non c’è alcuna regola scritta che imponga ai bersaglieri di tornare in caserma tutti insieme correndo e strombettando, ma col tempo è diventata una piccola festa popolare cittadina, a cui tutti partecipano volentieri: i bambini per la gioia di correre, le ragazze per la gioia di correre dietro a dei soldati, gli uomini per la gioia di correre accanto a dei soldati e vantarsi di tenere il passo.
Alla fine della corsa di gruppo, le ragazze – non solo Clara e Anita: tutte le ragazze presenti – sono accaldate, rosse in viso e scosse da risatine di divertimento ed eccitazione. La folla inizia a disperdersi, defluendo di nuovo verso la piazza della Gran Madre e il ponte sul Po. Clara e Anita si sventagliano con le mani, Anita con una mano sola perché Corrado, tutto vispo anche lui, con la scusa di aiutarla a correre sembra essersi saldamente impadronito della sua destra.
Bene. È il momento.
«Sai una cosa? Laggiù ci sono Carlotta e Dorotea», esclama Clara ad Anita, casuale come una pioggerellina di marzo. «È tanto che non le vedo, vado a scambiarci due parole.»
«Ma non vengono all’adunata tutte le settimane?» dice Corrado, che sarà bello, ma a volte potrebbe essere più sveglio.
«Appunto, non le vedo da ben sette giorni. Avremo sicuramente un sacco di cose da raccontarci. Vi dispiace se vi lascio soli? Corrado, al massimo dopo Anita la riaccompagni tu, sì?» Prima di aspettare risposta, con un velocissimo occhiolino dal lato che solo Anita può notare, Clara è già scappata in direzione delle due ex compagne di scuola.
Anita annuisce fra sé. Brava Clara. Sta andando tutto esattamente come doveva andare.
«Vorrà dire che noi passeggeremo un po’», cinguetta Anita, e fa scivolare la mano sotto il bicipite di Corrado.
Camminano per un minuto in silenzio, lungo il fiume. È ancora chiaro, ma stanno iniziando ad accendersi i lampioni. Tutta la suggestione del tramonto insieme a tutta la suggestione delle luci che si riflettono nel placido Po. È l’ora perfetta.
Anita aspetta che sia Corrado a parlare, anche un po’ per principio, santa polenta. Questi uomini: non fanno che seminare simboli fallici nelle piazze delle città, saranno ben capaci anche di prendere coraggio e fare una proposta di matrimonio come si deve. Quando lui si gira a guardarla, lei gli sorride con tutti i denti che ha, da molare a molare.
«Anita, devo confessarti che non osavo sperare che saremmo potuti stare un po’ da soli», esordisce Corrado.
«E invece, vedi il caso, a volte. Oddio, non è che ti dispiace, vero?» Mai ciglia hanno sbattuto con più foga. Strano che non generino corrente d’aria.
«Dispiacermi? Anita, sono settimane, ormai, che sto aspettando un’occasione del genere! E ora che si è presentata, ecco… sento che devo coglierla e badare a non sprecarla, perché è troppo preziosa.»
Bene. Bene.
C’è una panchina, sul Lungo Po. Corrado guida Anita a sedersi. Anita esegue, docile come un agnellino. Di zucchero filato. Rosa.
«Anita, io ho compiuto venticinque anni. Sento che è il momento di assumermi le mie responsabilità e di prendermi il ruolo che mi spetta nella società e nell’impresa di famiglia.»
Anita annuisce. Non sarà romanticissimo che Corrado abbia introdotto sin da subito l’elemento del negozio di alimentari, ma non le secca. Essere il rampollo di una famiglia di altoborghesi dagli affari molto ben avviati fa parte del fascino di Corrado, per come la vede lei.
Perché, sì: Anita, oltre che uno spirito libero, è uno spirito pratico.
«So che mio padre non aspetta altro che di vedermi solidamente sistemato, pronto a prendere in mano con polso e accortezza ciò che lui ha iniziato, e a portarlo avanti fino a che, chissà, magari, un giorno il nostro nome diverrà famoso per quello che è, e non solo di riflesso a quello dei nostri più celebri omonimi e concittadini…»
Anita si mastica un labbro. Ecco, questa è una delle piccole cose che dovrà mettere in chiaro con il suo futuro marito. Una specie di minuscola feritina aperta nell’immagine che lei ha di lui, anzi, di tutta la sua futura famiglia – come uno di quei taglietti da carta che neanche si vedono a occhio nudo e che però ti bruciano dai polpastrelli su su fino al gomito.
Il punto è che i Leone di Corrado – cioè papà Angelo e mamma Cleofe nata Bortotti – non hanno assolutamente niente a che fare con i Leone delle famose Pastiglie, gloria dell’industria torinese. Ma proprio niente niente. C’è quasi da stupirsi di come due famiglie con lo stesso nome, nella stessa città, possano essere così totalmente non imparentate. Eppure, i Leone di Corrado, con il loro bel negozietto di alimentari, su quell’omonimia ci marciano da una vita. Non che fingano apertamente di essere consanguinei di quegli altri Leone là, ma, diciamo, non fanno nulla per non lasciarlo pensare. Espongono le collezioni delle latte Leone sempre nella vetrina principale, e i manifesti con le pubblicità, e hanno scelto per la loro insegna un carattere molto simile a quello delle caramelle. E curiosamente tutto questo ad Anita – che pure, come s’è detto, è uno spirito pratico – tutto questo appunto sembra, con rispetto parlando, una grandissima boiata.
Ma gliene parlerà. Tipo, la mattina dopo la prima notte di nozze. Dopo che un sontuoso matrimonio pieno di notabili sarà stato celebrato e forse avranno partecipato anche i finti parenti Leone-delle-Pastiglie e persino la pagina di cronaca locale della «Stampa» ne avrà detto meraviglie e…
«…e per ispirare a mio padre la fiducia necessaria perché si decida a cedermi l’attività, Anita, io so cosa mi manca ancora. Mio padre ha bisogno di vedere in me un uomo fatto e finito, capace, anzi, felice!, di assumersi delle responsabilità. Un uomo… un padre, magari!, che sappia cosa significa portare a casa il pane per sfamare sé e i suoi cari. E io posso, anzi, voglio, diventare quell’uomo, Anita.»
Corrado si alza. Anita si drizza sulla panchina. Tutte le vertebre le si impilano l’una sull’altra, allungandosi e prendendo posizione come soldatini in parata che si sono esercitati mesi e mesi per quel momento. Corrado le si piazza di fronte. Corrado si inginocchia.
«Anita, vorresti diventare mia moglie?»
«A-ha!» esclama Anita trionfante. Fa pure un gesto di vittoria col braccio, senza accorgersene.
Corrado alza un sopracciglio.
«Era un sì. Volevo dire sì», cinguetta Anita assumendo immediatamente un’aria più eterea.
Corrado mugola di gioia e l’afferra fra le braccia. Per un attimo Anita pensa che voglia baciarla, e, chissà perché, si ritrae.
Comunque, Corrado non la bacia. Non subito. C’è da supporre che prima o poi lo farà. Per il momento, sembra che gli basti contemplarla con gli occhi sfavillanti, le braccia muscolose strette attorno al suo grazioso torace a fiori.
«Saremo una coppia meravigliosa, Anita! Guardaci!»
«Oh, puoi scommetterci.» Questo è poco ma sicuro. Il biondo marcantonio e la curvilinea graziosa brunetta. Già adesso, quando passeggiano insieme, la gente si gira come fossero due divi del cinema appena usciti dagli studi Pittaluga. Avranno la città ai piedi, altroché.
«E pensa a quanto saranno belli i nostri bambini!» Corrado la solleva e la fa piroettare a mezz’aria. Anita emette un oh! e una risatina di sorpresa. «Spero che prendano i miei muscoli! E il tuo viso! Cioè, i maschi, che prendano i miei muscoli, e le femmine il tuo viso, ecco. Ne voglio sei!»
«Sei?» dice Anita, sempre sorridendo, ma coi molari di colpo serrati, che scricchiolano.
«Immaginatela: una bella, grande famiglia Leone, con tanti cuccioli vivaci, affamati e pieni di energia!»
Anita se li immagina. Sei. Vivaci, affamati e pieni di energia. Sei. Tutti usciti dal suo ventre. Sei.
«Già mi ci vedo, Anita.» Corrado la rideposita a terra, poi emette un sospiro, una mano protesa davanti a sé, gli occhi persi nel futuro che aleggia da qualche parte sopra il fiume. «Mi vedo rientrare a casa dal negozio, la sera, dopo una giornata di onesto lavoro… Tu che mi apri la porta, bellissima, con un grembiule bianco che t i fa sembrare una Madonna… In braccio hai il nostro ultimogenito, appena appena nato: un bel bimbo roseo di cinque chili…»
«Cinque chili? Hai idea di quanto sia grosso un neonato di cinque chili?» dice Anita, che fra l’altro sta anche chiedendosi quanto sia verosimile sfoggiare un grembiule immacolato dopo aver maneggiato un neonato tutto il giorno.
«…e nel tinello mi aspettano gli altri cinque piccini: Giosuè, Gabriele, Alberto, Cornelia e Maria.»
«Hai già scelto i nomi dei nostri figli?!»
«…che si alzano e mi corrono incontro festosi. Festosi e impeccabili: tu li hai già lavati e vestiti per la notte, e appaiono lustri e ordinati come tanti piccoli soldatini.» Corrado fa il gesto di carezzare sulla testa cinque ipotetici bambini in scala d’altezza. «Dalla porta, io ti osserverei con amore guidarli nella preghiera serale, inginocchiati ciascuno accanto al proprio lettino; poi tu rimboccheresti loro, uno a uno, le lenzuola profumate di bucato, e io ti ascolterei cantar loro la più dolce delle ninnenanne…»
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L’autrice
Alice Basso è nata nel 1979 a Milano e ora vive in un ridente borgo medievale fuori Torino. Lavora per diverse case editrici come redattrice, traduttrice, valutatrice di proposte editoriali. Nel tempo libero finge di avere ancora vent’anni, canta e scrive canzoni per un paio di rock band. Suona il sassofono, ama disegnare, cucina male, guida ancora peggio e di sport nemmeno a parlarne. Con Garzanti ha pubblicato le avventure della ghostwriter Vani Sarca: L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome (2015), Scrivere è un mestiere pericoloso (2016), Non ditelo allo scrittore (2017), La scrittrice del mistero (2018) e Un caso speciale per la ghostwriter (2019), più i racconti La ghostwriter di Babbo Natale (2017) e Nascita di una ghostwriter (2018). Il morso della vipera è il primo capitolo di una nuova serie ambientata nell’Italia degli anni Trenta.
- Il morso della vipera
- Alice Basso
- Editore: Garzanti
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Cloud: Sì Scopri di più
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 694,07 KB
- Pagine della versione a stampa: 302 p.
- EAN: 9788811816058. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/morso-della-vipera-ebook-alice-basso/e/9788811816058″ btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista. € 9,99[/btn]