”Una delle sue liriche più struggenti di Giacomo Leopardi
IL PASSERO
Un volo di passeri nel cielo terso. Di un azzurro intenso. È febbraio e vi è un sole scintillante nell’aria fredda, senza neppure un velo di foschia. Sembrano felici di questo sole, i passeri. Intrecciano voli. Cantano.
Istintivamente distolgo lo sguardo. E cerco se, fra i rami ancora spogli dei pochi alberi, vi sia un altro passero. Solitario.
Deformazione letteraria, naturalmente. Eppure, Leopardi era un grande, e acuto, osservatore della Natura. Che poi, naturalmente, filtrava attraverso un intreccio di eco, citazioni, riferimenti. L’immensa cultura erudita di un, autentico, bibliofago. Un divoratore di libri. E così quando parli a classi sempre più atone, anestetizzate da una scuola che istruisce ben poco e non insegna praticamente più nulla del “Passero solitario” leopardiano, spiego che il riferimento ornitologico è ben preciso, nonostante la scelta d’un linguaggio vago, che unico può essere, per il Recanatese, poesia. La Monticola solitaria, un passeraceo che non vive in stormi, e preferisce condurre esistenza in solitudine. Leopardi, certo, ne lesse usi e caratteristiche nel Trattato degli Uccelli del Buffon. Ma altrettanto certamente lo udì cantare sul fare della sera.
Una delle sue liriche più struggenti. E che lo seguì per moltissimi anni. Perché il Passero è parte dei Piccoli Idilli, concepito nel 1819 ma ebbe stesura definitiva solo dopo il ’31. Quando erano già nati tutti i, grandi, Canti Pisano Recanatesi, e il poeta si avviava a scrivere i, cosiddetti, Canti di Aspasia. Il racconto del suo struggente, ed infelice amore per Fanny Targioni Tozzetti. L’ unico vero amore della sua vita.
Un percorso, anzi, un volo lunghissimo, quello, solitario, del Passero. Inevitabile. Perché in una produzione che è, al contempo, distillato di vita e di pensiero – un continuo filosofare sul vivere, come dice Giorgio Colli – questo è, forse, il Canto più autobiografico. Più personale. Perché è il canto del rimpianto.
Leopardi è il poeta del rimpianto. Della vita che poteva essere, e che non si è vissuta. Per paura, per timore di ferire qualcuno vicino a noi. Per costrizione delle convenzioni sociali. Per generosità che porta a sacrificare se stessi, i propri desideri, per altri. Per natura, alla fin fine, come dice il poeta, perché uno è come è. E non vive, ma si lascia vivere. E lascia che altri segni, e disegni, il suo destino.
Ricordati – mi disse moltissimi anni or sono un vecchio gentiluomo libertino, dalla vita turbolenta e piena di fallimenti. – ricordati, meglio morire con mille rimorsi, che con un solo rimpianto. Mi è restato impresso. Per altro, morì di lì a poco, investito da una macchina, mentre correva in bicicletta. Andai al suo funerale. Eravamo in pochi. I parenti – era di famiglia nobile – lo consideravano un reietto. Una pecora nera, di cui vergognarsi.
Nel silenzio della cappella al cimitero, una funzione funebre brevissima, senza messa. Mi venne il pensiero che, alla fine, doveva essere morto senza rimpianti. Sereno come capita a ben pochi.
Ahi pentirommi, e spesso, ma sconsolato, volgerommi indietro... Viene sempre quel momento. Ti guardi allo specchio una mattina. Sono passati gli anni e… il rimpianto ti assale. Come un branco di Jene. E non ti concede tregua né pietà.
Vivi l’attimo. Come nel film” L’attimo fuggente”. Il professor Keating in piedi sulla cattedra. Il sorriso di Orazio. Quello di Goethe…. Vivi l’attimo. E non avere rimpianti. Sono gli unici fantasmi che, nelle tue notti inquiete, non avrai la forza di affrontare.
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