Cristina Rava torna in libreria con due suoi personaggi di carta più amati: il commissario Rebaudengo e il medico legale Ardelia Spinoli

Cristina Rava torna in libreria con due suoi personaggi di carta più amati: il commissario Rebaudengo e il medico legale Ardelia Spinoli ne Il pozzo della discordia. Un giallo di grande fascino e di indubbia qualità letteraria.

Che cosa è il pozzo della discordia? È il pozzo simbolo, è il luogo dove tutto si interrompe, dove il torbido di una doppia esistenza affiora in tutta la sua malignità. È il pozzo dove ha trovato la fine l’esistenza travagliata di Enrico, uomo discutibile, di indubbio fascino, amante delle belle donne e della bella vita, arrivato al punto di abitare con la moglie ufficiale e l’amante dirimpetto. Passano gli anni, ma lui è sempre lì testimone muto di esistenze grame. Come quella della stessa moglie di Enrico che rimasta vedova per la seconda volta, cresce con acredine la figlia Costanza, divenuta chirurgo plastico di fama. Lei dopo la morte della madre torna nei luoghi dell’infanzia a Villa Alfieri a Neive, decisa a rimettere ordine. Ma troppe cose non quadrano. Sua madre pare morta d’infarto, ma presenta ferite non compatibili con questa tesi. Pare proprio che qualcuno le abbia fracassato la testa, dopo che lei stessa era già deceduta. E chi è che, nottetempo, penetra nella casa di Costanza, lasciando cartine di golia, vasi spostati e quant’altro? Anche nella casa di fronte dalla sua vicina strane ombre si affacciano incuriosite su di lei. Che cosa sta accadendo? I due fatti sono indipendenti? Qui urge una preziosa indagine dei nostri amati investigatori! Come finirà?

Ambientato in terra di Langa, di cui si forniscono immagini precise e dettagliate:

Il romanzo racconta, con perizia e grazia di stile, una storia dei giorni nostri, una cartolina vivida di questi territori, dove tutti conoscono tutto di tutti, ma l’imprevedibile è sempre dietro l’angolo. Una storia ben elaborata e concettualizzata di dolore, violenza, di rancore mai sopito che cova sotto la cenere, narrata con una prosa fresca e vivida, ricca di dialoghi e di dettagli. Un plauso all’autrice per aver scritto un romanzo che si gusta con piacere e che risponde bene ai canoni classici del genere a cui appartiene. Una bella storia!

La trama del romanzo

Nelle Langhe i segreti di una famiglia riaffiorano da un torbido passato.

Bartolomeo Rebaudengo e Ardelia Spinola sono una strana coppia. Commissario in pensione lui, pacato, cortese e incline solo al vizio di gola; schietta e ruvida lei, che di mestiere fa il medico legale. Amici da una vita ed ex amanti, non smettono mai di punzecchiarsi, ma insieme sono formidabili. Se c’è un segreto da svelare, un pettegolezzo da confidare, una voce da riportare, la gente di Langa è a loro che si rivolge. Così succede con la telefonata della signora Costanza, di mestiere chirurgo plastico, rimasta l’unica superstite della famiglia Alfieri dopo la morte della madre, all’apparenza deceduta per un malore. Per la chirurga qualcosa non quadra, tanto più che nella villa dei genitori continua a trovare le tracce misteriose di una presenza, forse un fantasma? E, per non farsi mancare niente, anche la vicina che abita nella villa di fronte, trasformata in B&B, nutre una strana curiosità nei suoi confronti. Presto l’irresistibile coppia di investigatori si troverà coinvolta in una sequenza di eventi oscuri che si moltiplicheranno come in una reazione a catena, investendo anche il passato della stessa Ardelia.

Come inizia

La vita mi sembra troppo breve per spenderla a odiare e a tener conto dei torti altrui.

CHARLOTTE BRONTË

Prologo

1987

«È una vita che aspetto! La corriera mi ha lasciata più di mezz’ora fa!»

   «Nervosetta, la mia Sandrina bella!» scherza Enrico mentre la ragazza si lascia cadere nell’auto sportiva, e intanto lui le allunga una mano sulla coscia lasciata scoperta dalla minigonna.

   Sandra sembra non badarci e risponde a un bacio frettoloso in punta di labbra. L’uomo ingrana la prima e parte.

   «Ero stufa di aspettare. Ho fatto avanti e indietro con la borsetta a tracolla, la gente che passava mi guardava. Avranno pensato che fossi una di quelle… Che vergogna!»

   «Hai idea di dove andare?» chiede l’uomo guidando in mezzo alla campagna, senza una meta.

   «Non saprei, non avevo un programma… Che ne dici della casa del tuo socio?»

   «Oggi è occupata, c’è lui con la Mimma.»

   «Ma in macchina non mi va!»

   «Per una volta.»

   «Non è una volta. È già successo! Ho sempre paura che qualcuno ci veda.»

   «Ma no, dai, dietro a quella cascina abbandonata chi vuoi che ci sia? E poi facciamo una cosa veloce.»

   «Sempre una cosa veloce… Un po’ di romanticismo mai, eh?»

   Enrico posteggia tra un muro diroccato e un grosso platano. Spegne il motore e si slaccia i pantaloni. Intorno a loro è una fioritura di rossi e bruni autunnali e l’aria odora di fumo di sterpi.

   «Romanticismo!» le fa il verso. «Dai che godi anche senza tante cerimonie. Su, sbrigati, che poi devo tornare al lavoro.»

   Sandra si gira con un movimento indolente e lo lascia fare, passiva. Nota il Rolex nuovo. Non glielo aveva mai visto prima. Mentre i sussulti si spengono, anche lei prova una fitta acuta di piacere e se la gusta in silenzio.

   In pochi minuti si rassettano ed è allora che le viene l’idea. Le parole escono come un fiume in piena.

   «Sono stufa di questa vita, di sesso mordi e fuggi, mai nemmeno un regalo, un gesto gentile, una vacanza insieme. Sono cose che ti ho già chiesto tante volte e tu mi hai sempre risposto: sì, sì, sì. Ma non è cambiato nulla. Ho deciso. Parlo con tua moglie. So dove trovarla. Non m’importa, se mi lasci. Quello che mi interessa è che ti dia una bella lezione. Te la meriti! D’accordo che sei un bell’uomo, guadagni bene, e hai tante donne: non sono mica scema, però basta, è ora che la finisci! Devi smetterla di pensare soltanto a te stesso. Sei uno stupido egoista, e arido e non te ne frega niente di nessuno…» Sandra comincia a piangere. Apre la borsetta e cerca un fazzoletto. Le lacrime scivolano sulle guance una per volta, poi, con il crescere dell’emozione, diventano un diluvio.

   Enrico tace, si guarda intorno mentre la ragazza geme e si lamenta: un vero strazio. Non gli va di tornare indietro con lei in quelle condizioni, sarebbe un guaio se incontrasse qualche conoscente. Già è stato imprudente a farlo in macchina, sul ciglio della strada sterrata che si ricongiunge alla provinciale. Sandra è molto provocante: si concede come se non gliene fregasse niente, ma gode sempre, quasi di nascosto. Esercita un fascino misterioso e corrotto che lo fa impazzire. Ma a lei può rinunciare.

   Che novità idiota è questa, di voler parlare con sua moglie? È ammattita?

   Discutono. La giovane adesso ha indossato la maschera della sacra indignazione. Con un gesto improvviso apre la portiera, esce sbattendosela alle spalle, e a passi incerti si dirige verso un vecchio carretto, lasciato a marcire sotto il platano. Lui la guarda, dà un’altra occhiata intorno, non sa decidersi: avviare il motore e tornare in cantiere, o cercare di calmarla? Con una serie di manovre nervose inverte la direzione. Prima di immettersi sulla provinciale, si gira un’ultima volta. Sandra è lì, si tampona gli occhi, lo sguardo smarrito. Andarsene sarebbe una carognata, ma tornare indietro riaccenderebbe la lite. Ingrana la prima e scompare. La ragazza solleva il medio in un gestaccio, ma Enrico non la vede già più.

   Dove sarà la fermata più vicina di qualche corriera? È disorientata e non riesce a stabilire in quale punto del paesaggio circostante si trovi Castagnole delle Lanze. Ha le idee molto confuse sulla propria posizione. Afferra l’orlo della minigonna per tirarla giù, ma più di tanto non scende. Si sente a disagio con quelle scarpe eleganti: si rovinano e i tacchi affondano nel terreno. Vorrebbe andarsene, ma all’improvviso si sente osservata. Si volta di scatto e da dietro un moncone di muro di mattoni rossi, rosicchiati dal tempo, sbuca una mezza faccia.

   «Ehi, tu lì, be’? Cos’hai da guardare? Non hai mai visto una ragazza?»

   La mezza faccia sparisce.

   «Sono mica scema! Lo so che ci sei. Fatti vedere! Non ti mangio, tranquillo.»

   Stavolta la faccia si mostra nella sua interezza. È un giovane che potrebbe avere sedici o diciassette anni, anche se i lineamenti acerbi contrastano con la struttura solida, e rendono difficile attribuirgli un’età.

   «Come ti chiami?» chiede la ragazza, sperando di ottenere un passaggio.

   «Lele, mi chiamo Lele, cioè, no… Gabriele» risponde lui.

   «E dove abiti?»

   «Là.» Il ragazzo indica un imprecisato punto alle sue spalle, oltre il boschetto che sovrasta la cascina abbandonata, poi torna a guardarla, con una sorta di interesse indifferente. Estrae dalla tasca una pasticca Golia che scarta con un unico gesto veloce, per farla scomparire tra le labbra. Gli viene il dubbio di essere stato scortese e per rimediare non ne tira fuori una, ma una discreta manciata che offre alla ragazza senza sorriderle. Lei ne prende tre e le fa sparire in rapida successione.

   «Senti, non è che hai una macchina e puoi darmi un passaggio fino a Castagnole delle Lanze?»

   «No, non ho la macchina.»

   «Be’, ce l’avrà tuo padre, no?»

   «Io non ho un padre.»

   «Tuo fratello!»

   «Non ne ho.»

   «Tuo zio! Cavolo, avrai una famiglia!»

   «No, non ho una famiglia.»

   «E con chi abiti… là?» gli chiede Sandra con le mani sui fianchi, voltandosi verso lo stesso punto indistinto indicato da Gabriele.

   «Là c’è il mio collegio. Io ci vivo.»

   «Chiariamo un punto: il tuo collegio è in mezzo al nulla, o esiste un paese?»

   «È abbastanza in mezzo al nulla. Dentro l’edificio c’è più o meno tutto: scuola, palestra, biblioteca, una bella chiesa. Forse l’hanno costruito qui per tenerci lontani dal peccato. Comunque un paese c’è, piccolo, ma c’è.»

   «E come si chiama?»

   «Coazzolo.»

   «Oh, finalmente, Coazzolo!»

   «Lo conosce?»

   «Be’, sì, sono di qui. Solo che non ho prestato attenzione alla strada e sono disorientata.»

   «Ma lei dove deve andare?» osa chiederle, rosso in faccia per timore di apparire impiccione.

   «Te l’ho detto, a Castagnole delle Lanze, dove abito.»

   «Allora dovrebbe prendere per quella direzione.» E con un gesto del tutto simile al precedente, le indica un punto imprecisato alla sua destra.

   «Sì, vabbè, ho capito. Ma scusa un po’, tu stai in collegio, d’accordo, ma non hai un posto tuo, almeno d’origine? È ancora un periodo di vacanze, perché non sei a casa tua?» gli domanda Sandra, rendendosi conto che le ha già risposto, e che la sua insistenza non le servirà a ottenere un passaggio.

   «No, signorina, io non ho una famiglia, non ho nessun posto dove andare, ma monsignor rettore lo sa e si prende cura di me: mi manda a fare i bagni in una loro colonia marina a Spotorno… E anche nella loro casa di montagna a Natale. Una settimana.»

   «Dove?» chiede la ragazza, già immaginando i posti che piacerebbero a lei: Sestriere, Cortina d’Ampezzo o Madonna di Campiglio.

   «A Pontechianale.»

   «E dove cavolo è?» chiede ridendo.

   «In Val Varaita!» risponde lui offeso.

   Una fitta di tenerezza le punge il cuore. Sandra è sempre stata un po’ sentimentale: povero ragazzo, orfano e costretto a passare anche le vacanze in mezzo a sottane nere dai modi ambigui.

   Decide di non avere poi così fretta, e di approfondire la conoscenza con il giovane Gabriele. Chissà che non possa accompagnarlo al collegio e riuscire a scucire un passaggio da qualcuno.

   «Cosa fai qui? Studi?»

   «Durante l’anno scolastico, studio, sì certo.»

   «E cosa studi?»

   «Frequento la seconda liceo classico.»

   «Se sei soltanto in seconda, allora sei proprio piccolo! O sei stato bocciato?» commenta la ragazza, scrutandolo.

   «Si chiama seconda, ma in realtà è il quarto anno.»

   «Ah, che stranezza… Non ha senso: se sei in seconda non puoi essere in quarta!»

   La conversazione continua sulla suddivisione degli anni scolastici al liceo classico. Sandra ammira i begli occhi di Gabriele, di un caldo nocciola con sfumature verdi, mentre lui fatica a distogliere lo sguardo dalle cosce della ragazza. Il sole scivola lentamente verso la Francia. A un certo punto lei cambia espressione, rendendosi conto all’improvviso che Gabriele non l’accompagnerà mai in collegio e lei non riuscirà a strappare un passaggio a qualche prete. Il viso le s’incupisce e si accomiata in modo brusco.

   «Se non puoi portarmi al mio paese, dovrò organizzarmi. Dammi almeno una manciata di Golia! Ciao.»

   Si allontana con passo malfermo sulle scarpe inadatte alla campagna. Di lei Gabriele ricorderà l’eleganza del viso, in contrasto con la sfrontatezza dei modi. Lo stesso viso che ritroverà in una foto sul giornale due giorni dopo.

   Pierin, passando all’alba con il suo trattore, vedrà spuntare due gambe dall’erba bagnata sul ciglio di un fosso. «Come due candele bianche bianche» riferirà ai carabinieri.

   La vita di Sandra Benati finisce qui. E anche la storia, derubata del futuro, dei sogni e dei desideri. Di lei restano un caso di cronaca nera e una manciata di cartine di Golia che nessuno giudicherà importanti.

Uno

Oggi

Carissimo Bartolomeo,

ho preferito rompere il silenzio con il garbo antico di una lettera di carta. Ti avevo telefonato qualche tempo fa, senza ricevere risposta. Il mio numero è cambiato, per una scelta di distacco dal passato, e forse è stato questo il motivo della tua perdonabile distrazione. Avrei potuto ritentare, ma ho preferito frapporre tempo e ragionare sulla futura libertà. Non si può immaginare la redenzione se non si è conosciuto l’abisso. L’aurora è sempre preceduta dalla notte. Tu mi hai accompagnato alla prigione perché potessi confrontarmi con i miei spettri. In quelle stanze ho gridato e pianto fino a dissanguarmi l’anima. E ho cominciato la lenta risalita verso la salute. All’inizio mi isolavo, mi tenevo alla larga dagli altri matti, fino al giorno in cui un camion ha scaricato nel cortile il mio pianoforte. Eri stato tu a vincere resistenze e complicanze burocratiche perché io potessi averlo, e mi hai restituito la vita. La mia musica ha generato emozioni, effimere beatitudini e sogni nei cuori derelitti di chi credeva di non aver diritto alla bellezza. Dita contorte da vite infami si sono posate sui tasti bianchi e neri e qualcuno ha esplorato i primi rudimenti della musica, piangendo di gioia. Tra poco tornerò nel mondo dei savi e so che è anche merito tuo. Immagino già la tua protesta: hai sostenuto la mia reintegrazione con lealtà, quindi nessun merito. Invece no. Mi hai regalato una seconda opportunità, ed è un privilegio che poche persone ottengono. Non ti nascondo di avere paura: della gente, dei giudizi, delle giornate normali. Non so ancora dove andrò, cosa farò, come vivrò. Un passo per volta. Ci vedremo presto. Ti chiederò di lei, ma non so se avrò mai il coraggio di rivederla. Proteggila sempre, perché è una creatura unica.

Tua affezionatissima Norma

   Norma Picolit, pianista, colta, eccentrica, afflitta da una seria patologia neurologica, serial killer. La dottoressa Spinola non è riuscita, in questi lunghi cinque anni, a sciogliere il nodo tra assoluzione e condanna, nemmeno dopo un intervento chirurgico risolutivo. La sua qualifica di medico legale l’aveva coinvolta nelle indagini: le vittime erano una ragazza e un ragazzo, reclutati per strada e immolati nella ricostruzione di un dramma vissuto dall’assassina nella sua infanzia. Ma Ardelia ancora non lo sapeva, quando aveva accettato la fuga di una notte in Francia insieme alla Picolit, entrambe prigioniere del fascino reciproco. Quella gita si era trasformata in un sequestro. In quarantott’ore di follia, aveva ascoltato esecuzioni mozartiane perfette, aveva temuto per la propria sopravvivenza e infine era stata salvata da un’intuizione di Bartolomeo. Ma nel suo cuore il tempo si è fermato. Ricorda come se fosse oggi il peso delle catene e si sente ancora legata, terrorizzata, ammaliata dal delirio e dalla potenza artistica di quella donna. Di una cosa soltanto è certa: non riesce a odiarla.

   A questo sta pensando Ardelia, mentre fa avanti e indietro nello studio di Bartolomeo, dopo aver letto la lettera. Il foglio di carta pregiata color del burro trema tra le sue mani. Il battito del cuore è rapido e la bocca inaridita dallo stupore: vorrebbe fuggire lontanissimo, in un posto piccolo come un guscio di noce, dove nessuno possa raggiungerla, ma soprattutto dove non arrivi il fragore di questa scoperta smisurata. Norma Picolit sarà presto libera, indifesa in un mondo di cannibali. Norma, con le sue mani angeliche e crudeli, gli occhi pieni di un incubo di Turner, tornerà ad Albenga in mezzo a barracuda che la spolperanno o migrerà in qualche terra segreta che possa offrirle asilo e pace? Deciderà da sola oppure lo faranno i medici per lei? Rilegge a lungo il commiato, soprattutto quella lei, in cui vorrebbe tanto riconoscersi.

   Prima di tutto deve salvarla da se stessa e dal male. Il timbro postale! Sarebbe utile trovare la busta. Norma riferisce di una telefonata alla quale Bartolomeo non ha risposto. A quando risale? E da quanto tempo la lettera dorme infilata tra le pagine di Voltaire? Da quanto il Candido riposa sulla scrivania? E poi perché proprio nel Candido? Un caso fortuito? Bartolomeo è un abile giocatore con i sentimenti altrui, si sarà divertito a ordire la piccola, perfida trappola. Nascondere la busta come in una caccia al tesoro potrebbe avere il solo scopo di stuzzicare fino al tormento la sua curiosità. Accetta la sfida e comincia la ricerca.

   Le mani di Ardelia, come zampe di un criceto nervoso, frugano sul ripiano della scrivania, poi svolazzano tra i periodici stipati nel portariviste a lato del caminetto, sopra i libri schierati negli scaffali, sotto i cuscini del divano e delle poltrone. In quella stanza della busta non c’è traccia. E se il fine di tutto il teatrino non fosse permetterle di risalire al luogo e al giorno della missiva, ma soltanto informarla dell’imminente rientro della pianista?

   Un collegio psichiatrico, unitamente al magistrato, ha deliberato che Norma può tornare in libertà: potrebbe essere una splendida notizia, ma lei si sente ancora così vulnerabile.

   L’inconfondibile scricchiolio sulla ghiaia annuncia che Bartolomeo ha raggiunto la piazzola. Porca paletta! Non è pronta. Fa un sospiro profondo. Pur sapendo che i due erano diventati amici, ignorava quanto, e averlo scoperto è duro da digerire: gelosia incrociata.

   «Ciao cara, sei qui. Che piacere! Non ti aspettavo» le grida lui dall’ingresso. Ardelia conosce la sequenza dei suoi gesti: posa guanti e chiavi della macchina nella ciotola di vetro sulla mensola dell’ingresso, poi con movimenti flemmatici appende soprabito e sciarpa all’attaccapanni e sale i pochi gradini che lo avvicinano al cuore della casa.

   Il gatto Tally abbandona il morbido cuscino ai piedi del caminetto spento e gli trotterella incontro. Lui si ferma a salutare Nora in cucina, guai se dimenticasse questo passaggio. Finalmente entra nello studio, dove Ardelia è rimasta imbambolata, fingendo di contemplare la pioggia di ottobre dietro i vetri.

   «Ciao. Come stai?»

   «Bene, cara. Che bella sorpresa.»

   «Hai detto che non mi aspettavi: in realtà, se ricordi, ti avevo annunciato l’intenzione di salire qualche giorno. Questa mattina ho risolto alcune faccende e mi sono ritrovata libera, così ho ficcato due stracci in valigia e sono partita. Oh caspiterina, ho fatto male? Hai mica qualche impegno… privato?»

   «Tranquilla, niente parentesi sentimentali.»

   La Spinola vorrebbe affrontare l’argomento – “Ho trovato la lettera di Norma, potresti dirmi quando e dove avverrà il suo ritorno nella società civile?” –, ma proprio le manca il coraggio.

   «Gradiscono un aperitivo?» chiede Nora affacciandosi alla porta. Loro si guardano negli occhi: ci starebbe proprio. «Il marito di mia cugina, quello che ha le vacche, mi ha portato una toma dall’aspetto molto invitante. Un assaggio, con un bicchierino di Nebbiolo, intanto che la zuppa riposa.»

   L’intervento della governante, nonché cuoca, nonché comandante supremo della dimora, crea un diversivo, ma il problema è soltanto rinviato. La toma è invitante, pizzica il giusto, d’impatto consistente e poi cremoso, ben si accompagna alle note fruttate del Nebbiolo.

   Durante la cena Ardelia si barcamena nella conversazione, la mente assorta nei pensieri: esisterà ancora quella busta? Cosa starà facendo Norma in questo momento? Come sorretti dal respiro della marea, i lineamenti della pianista, l’androgino sublime della tradizione classica, affiorano per qualche istante dalle acque torbide della memoria e poi affondano. Se non si decide ad aprire il cuore a Rebaudengo, non le resterà che aspettare. La pazienza però non è mai stata il suo forte. Al momento del caffè, il commissario le anticipa l’ispirazione improvvisa di portarla a fare una gita l’indomani, se non pioverà.

   «Dove andremo?» chiede lei.

   «È una sorpresa» fa lui sorridendo e scostandole la sedia.

   In camera, finalmente sola, contempla la notte dall’ampia finestra del bovindo. Seduta in poltrona sorseggia la tisana che le ha preparato Nora, sa di ginepro e artemisia. Per un istante ricorda Arturo e le sue erbe, la quieta casa di Ormea, quel tempo in cui, dopo tanto disordine, il mondo le era sembrato un incastro perfetto. Poi la burrasca riprende, più impetuosa e fosca di prima, e ora non riesce davvero a governare il suo minuscolo timone. Aveva promesso al fidanzato – ma che poi lo sarà ancora? – di chiamarlo una volta arrivata a Sale San Giovanni, ma le emozioni di quella lettera l’hanno trascinata lontano nei ricordi e se n’è dimenticata. E ora è troppo tardi.

   Con un sospiro si avvicina al letto. Incurante di cosa abbia organizzato il commissario per il giorno seguente, passerà buona parte della notte a fantasticare e non chiuderà occhio.

   Al mattino, un grigiore poco promettente tra le stecche delle persiane risveglia il suo cattivo umore. Non le va di alzarsi e affrontare il mondo. Per ritardare il contatto con l’acqua della doccia, presagio di pioggia, nasconde la testa sotto il cuscino. Improvviso, il pensiero di Norma le attraversa il cervello come una scarica elettrica. Salta a sedere sul letto e fissa la finestra con occhi vacui. Se piovesse, cosa di cui non è affatto certa, avrebbe una buona scusa per annullare il breve soggiorno e tornarsene ad Albenga. In questi anni ha fatto un voto a se stessa, non sarebbe mai andata a spiare la casa di Norma. Tante volte ne ha avuto la tentazione, ma l’ha sempre vinta. Adesso non è più certa di riuscirci, e nemmeno di volerlo.

   È indecisa se indossare la vestaglia e scendere in cucina a fare due parole con la governante, oppure buttarsi sotto il getto caldo della doccia e presentarsi vestita. Qualcosa però la spinge a non indugiare e lascia la camera. Le pantofole sono silenziose sulla lunga passatoia del corridoio. A metà scala sente le voci del commissario e di Nora, e si blocca di colpo. Non è carino origliare, ma se parlassero della pianista? Quasi impossibile. Origliare non sarà certo carino, ma è istruttivo, qualunque sia l’argomento.

   «Quando l’ha saputo?» chiede lui.

   «Mi ha telefonato Ermelinda un’ora fa. Una cosa terribile! Secca come uno stoccafisso! Ne aveva passate tante, povera Brigida! Il primo marito, morto sotto un albero caduto durante un temporale, l’aveva lasciata vedova e con una bambina. Risposata, aveva perduto anche il secondo marito, crepato in quel modo… suicida per colpa di una brutta faccenda, e poi il figlio avuto con lui che va a schiantarsi in moto. Era una donna volitiva che aveva tentato in ogni modo di risollevarsi dalle disgrazie. La voce che gira è che le sia venuto un altro infarto. Era di ritorno da una serata in pizzeria. Aveva già avuto parecchi problemi di cuore. Non s’è stupito nessuno, certo che morire in quel modo! E poi una fine misteriosa…» Perfida, la Nora, sa benissimo come imprigionare la curiosità del suo protetto.

   «Misteriosa? E perché?»

   «È schiattata per un attacco di cuore sulla porta di casa, e fin lì. Qualcuno ha chiamato il 118 quando lei, forse, era ancora viva, quindi è evidente che doveva esserle vicino, ma poi non s’è fatto trovare. Quando è arrivata l’ambulanza, la poveretta era sola.»

   «Mmhh… Che stramberia» commenta lui con la bocca piena.

   L’attenzione di Ardelia è massima. Magari continuerebbero a chiacchierare anche in sua presenza, meglio non rischiare, però, perché la governante la considera un’estranea, anzi, peggio, una straniera.

   «Era appena rientrata da una pizza con le amiche, ho capito bene?» domanda Rebaudengo, che continua a masticare di gusto qualcosa di buono.

   «Sì. Ho sentito dire che non le faranno l’autopsia, proprio perché era malata di cuore. Forse, semplicemente, non aveva digerito la pizza. Ne mangiava troppe, le piaceva uscire con le amiche. Pare che avesse anche la testa un po’ rotta per aver battuto sul gradino di pietra della soglia. La cosa strana, però, è…»

   «Sì, la chiamata dello sconosciuto al 118 che poi non si è fatto trovare.»

   «Non solo, c’è la faccenda delle chiavi! Nel frattempo ho sentito mio nipote Bruno, gli ho dato un colpo di telefono mezz’ora fa… Che poi non è nipote di sangue, è il marito di mia nipote, e presta servizio sulle ambulanze. Non era di turno, ma le voci girano, lo sa anche lei, commissario, vero?» Il Reba deve aver annuito e la signora riprende: «È stato lui a dirmi delle chiavi sparite, che glielo ha raccontato un collega, dopo aver ascoltato due carabinieri che conversavano tra loro. La Brigida è entrata comunque in giardino, magari se n’è accorta solo sulla porta».

   Chiavi sparite? Interessante.

   «La serratura del cancelletto pedonale era rotta da una vita» riprende la signora, «e lo accostavano soltanto. Era una baracchetta, anche fosse stato sano, lo avrebbe scavalcato un bambino. Dalle nostre parti non abbiamo paura dei ladri.»

   Ardelia può sentire le rotelle del commissario che girano.

   «Ci conoscevamo da ragazze, io sono di Bossolasco, come lei ben sa, partecipavo di rado alle rimpatriate per colpa della distanza. Amiche da giovani e ancora amiche da vedove» riprende Nora. «Quelle che stanno vicine, quattro o cinque galline da brodo, come ci chiamavamo tra noi, si frequentano almeno una volta la settimana.»

   «Nora, mi ha accennato al suicidio del secondo marito legato a una brutta storia. Di che genere?»

   «Più di trent’anni fa, mio figlio all’epoca faceva la prima elementare, me lo ricordo perché la maestra era di Castagnole delle Lanze, come la vittima, ed era rimasta molto scossa, anche dalle chiacchiere…»

   «Quale vittima? Il suicida?»

   «No, la ragazza.»

   «La ragazza?»

   «Allora, partiamo dall’inizio.»

   Esattamente in quel momento la suoneria di un cellulare spezza la quiete interrompendo la conversazione. Il trillo arriva dallo studio, Bartolomeo esce a razzo dalla cucina per andare a recuperarlo, e al ritorno becca Ardelia sulla scala, con il sorriso colpevole di chi è sorpreso a origliare.

   «Ciao cara, vieni a fare colazione. Nora ha preparato una torta di nocciole spettacolare. Se vuoi, puoi guarnirla con due belle cucchiaiate di zabaione, tanto per dimagrire più velocemente.»

   Risponde al telefono e la invita con un gesto della mano a raggiungere la cucina.

   «Pronto? Oh Martin, caro amico mio! Sì, sì, ti ho chiamato ieri pomeriggio…»

   Il dialogo continua per un po’, mentre Bartolomeo taglia un’abbondante fetta di torta alla sua ospite e le versa una tazza di caffè all’americana, poi i due si salutano. Tra la dottoressa e la governante compite formule di cortesia. Alla cupa vicenda più nessun riferimento. Porca paletta.

   Ardelia cerca di contenere tempi e calorie, poi saluta e si dirige verso il corridoio, lasciandoli tornare ai loro bisbigli. Preparerà il bagaglio e rientrerà lesta lesta ad Albenga. Il momento più difficile sarà trovare il coraggio di salire al Monte. Ma niente va come lei vorrebbe. Un tocco leggero alla porta la sorprende già vestita, proprio mentre raccatta le sue carabattole.

   «Entra, entra pure.»

   «Avrei voluto farti una sorpresa e portarti a trovare il nostro amico Martin Bergero. Invece mi ha chiamato adesso per dirmi che la moglie, o ex, non ho mai capito, sta andando a prenderlo per recarsi insieme a far visita al figlio. Era molto agitato, ma spero di avergli infuso un po’ di coraggio.»

   «Perché dovrebbe aver bisogno di coraggio?»

   «Perché il figlio abita a Londra.»

   «E lui non è mai salito su un aereo?»

   «Sì, ma nella vita prima dell’incidente, e non se lo ricorda più. Per lui sarà un nuovo battesimo dell’aria.»

   «Oh pover’uomo! Ehm… Bartolomeo, visto questo tempo uggioso, avrei pensato di tornarmene giù in Riviera, avrei anche delle cose da sbrigare.»

   «Fondamentali?»

   «Fondamentali… no, perché?»

   «Facciamo un giretto, ti va?»

   «Mmhh…»

   Non deve lasciar trapelare le poche informazioni ottenute nella penombra della scala.

   «E dai! Sei pronta?»

   «Sì, devo soltanto prendere il giaccone impermeabile.»

   «Benissimo, ti aspetto di sotto tra cinque minuti. Ti racconto tutto mentre andiamo.»

Due

Tra Sale San Giovanni e la loro destinazione c’è un’intensa ora di viaggio, tutto langarolo, un saliscendi tra colline assopite e umide, borghi cinti da mura e castelli turriti, assediati a loro volta da infinite vigne pendenti. Le aziende vinicole e i luoghi di svago oggi offrono l’unico prodotto locale poco amato dai turisti e molto dai poeti, quell’acquerugiola fine che impregna gli abiti e il cuore. Rami spogli di noccioli si alternano alle ultime rosse foglie di vite, la vendemmia alle spalle, i tartufi imminenti. Fumi di sterpi si allargano sulla terra, schiacciati dal cielo pesante, mescolandosi ad altri infiniti odori senza tempo.

   Bartolomeo guida sicuro, di ottimo umore, come un can da trifole che non è ancora scattato per la ricerca, ma si gode la trasferta.

   I Concerti per Oboe e Orchestra, opera 7 e 9 di Albinoni cullano la conversazione.

   «Adesso che siamo tranquilli, mi piacerebbe sapere quello di cui parlavi con Nora. Ho il sospetto che abbia a che fare con la destinazione del nostro viaggio.»

   Lui le sorride, senza distogliere lo sguardo dalla strada.

   «Sì, anche se non faremo un vero e proprio sopralluogo. In fondo è una scusa per visitare il posto, è così bello! La prenderemo alla larga, senza dare nell’occhio. Potremmo perfino incontrare la figlia, che ormai è la sola superstite.»

   «Brrr, che brutto parlare di superstiti. Vuoi dirmi dove stiamo andando?»

   «Sorpresa.»

   «Okay, mi rassegno. So che insistere non servirebbe a niente. Potresti raccontarmi la storia dall’inizio?» propone lei.

   «Nel 1987 una giovane che si chiamava Sandra Benati era stata trovata morta, con la testa rotta, in un campo poco lontano dalla nostra destinazione. Enrico Braida, secondo marito della donna deceduta la notte scorsa, quella di cui mi ha parlato Nora, pare avesse una tresca con la ragazza. Si erano incontrati nelle ore precedenti il delitto, per ammissione stessa dell’uomo, inchiodato dalla testimonianza di un contadino che l’aveva visto e riconosciuto dall’alto del suo trattore. I due stavano litigando, ma l’agricoltore non aveva capito una sola parola, a causa del fracasso del motore. L’autopsia sul corpo della ragazza aveva evidenziato un rapporto sessuale consenziente. La ricostruzione aveva stabilito che, dopo il burrascoso commiato, il Braida era rientrato in uno dei suoi cantieri. Per la restante parte del pomeriggio era rimasto con gli operai e, al ritorno a casa, con la moglie e il figlio. L’autopsia aveva accertato che la Benati era morta in serata, quando l’uomo era già fornito di alibi. In teoria, dopo essersi separati intorno alle diciassette, secondo la testimonianza dello stesso Braida, la ragazza potrebbe aver bighellonato fino all’imbrunire e all’incontro con l’assassino.»

   «Oltre alla figura dell’amante, vi furono altri indagati?» chiede Ardelia.

   «Sì, un balordo della zona, un ritardato che viveva come un randagio. Si guadagnava il pane come bracciante a giornata e dormiva nei fienili. Non aveva precedenti per atti violenti, ma era stato pizzicato più volte a spiare le coppiette. Gli abiti dell’uomo erano stati trovati sporchi di sangue, compatibile con quello della vittima. Un bel processo veloce senza speranza, anche grazie alle modeste capacità del difensore d’ufficio. Ospedale psichiatrico giudiziario, dove era morto di ictus poco dopo. Ma le ombre sul capo di Enrico Braida non si erano dileguate del tutto: i famigliari potevano averlo protetto, più per interesse che per amore. Insomma, scagionato sì, ma cristallino no.»

   «A quel tempo purtroppo non c’erano ancora i cellulari che testimoniano orari e spostamenti» commenta Ardelia con un sospiro.

   Rebaudengo annuisce e riprende: «Fino ad allora era stato invidiato e giudicato un “dritto” al centro dell’attenzione per i suoi successi con le donne, nonostante fosse sposato, e per la sua agiata condizione economica. Dopo il tragico evento, l’interesse verso di lui era mutato: al suo passaggio la gente ammiccava, negli atteggiamenti non c’era più invidia, ma soltanto curiosità, e molti amici del bar lo salutavano a denti stretti. Per fartela breve, dev’essersi depresso e si è buttato nel pozzo della villa dove viveva».

   «E se invece si fosse suicidato per il rimorso? A quanto ho capito, le prove contro il povero balordo erano schiaccianti solo perché aveva un avvocato del piffero.»

   «Be’, sì, non si può escludere.»

   «Raccontami com’era andata.»

   «Clima permettendo, prima di coricarsi, Braida aveva l’abitudine di trascorrere una mezz’ora in giardino, appoggiato alla ghiera del pozzo a fumare il sigaro. Poi sollevava la griglia, calava il secchio e beveva abbondanti sorsi d’acqua perché, diceva, quella del rubinetto non era così buona. La mattina successiva alla sua scomparsa, quando erano cominciate le ricerche, un vicino aveva notato la protezione sollevata, e il mozzicone del sigaro nel solito vaso di terracotta. Uno solo, perché aveva l’abitudine di ripulirlo ogni volta, aveva dichiarato la moglie. Quindi anche quella sera aveva fumato al suo solito posto, ma non lo aveva pulito e, ovviamente, nemmeno richiuso la grata. Pare che lo stesso uomo si fosse sporto e avesse intravisto un fagotto sul fondo. Insomma, dopo pochi minuti si era accertato che Enrico Braida aveva concluso i suoi giorni laggiù.»

   «L’omicidio è stato escluso?»

   «Non viene proprio citato.»

   «Autopsia?»

   «Non ne ho trovato menzione. Vado avanti con la storia, perché non è finita.»

   «Certo, continua pure.»

   «Dopo pochi anni il figlio, un giovanottone ciula e goff, si era schiantato con la moto contro un ippocastano sulla provinciale, a pochi chilometri dal bar dove trascorreva le serate estive. A causare l’incidente la velocità elevata, che gli aveva fatto perdere il controllo del mezzo.»

   «E Nora ti ha detto tutta questa roba nei dieci minuti della mia doccia?»

   «No, l’ho letta veloce su Internet dopo che sei risalita in camera. E non sono stati proprio dieci minuti…»

   «Caspiterina. Cosa pensi di scoprire girando intorno alla casa della defunta Brigida? Brigida, e di cognome? Mariti a parte, ne avrà pur ben avuto uno suo.»

   «Sì: Valdisserra. In realtà non penso di scoprire proprio niente. Vado ad annusare l’atmosfera. Sia mai che trovi un dettaglio utile.»

   «Mentre scendevo la scala per venire a fare colazione, senza volerlo, ho sentito un riferimento a un paio di chiavi. Ho capito male?»

   «No, hai capito benissimo. Non sono state trovate le chiavi, ma di per sé…»

   «Potrebbe essere un dettaglio privo di significato» commenta lei.

   «Esatto: per il momento niente indica che la sua morte abbia una causa diversa dall’infarto, considerando il fatto che, a quanto riferisce Nora, Brigida era cardiopatica. Forse non c’è alcuna relazione con le chiavi mancanti, ma…» e il pensiero di Rebaudengo resta sospeso perché Ardelia lo interrompe.

   «Ma ben diversa faccenda è la storia della chiamata al 118. E poi quando i tizi sono arrivati, con barella, defibrillatore e compagnia cantando, c’era soltanto ’sta povera donna ormai defunta sulla soglia di casa.»

   «Vedo che sei stata poco sulla scala…» fa lui, con un sopracciglio incurvato.

   «Pochissimo. Parlavate a voce molto alta e avete detto un sacco di cose in quel breve lasso di tempo.»

* * *

Per Bartolomeo l’incanto si rinnova sempre, ma quando la Spinola scopre la bellezza di Neive, custodita dalla sua cinta muraria come la perla nell’ostrica, la torre medievale e i palazzi nobiliari ornati di giardini, rimane a bocca aperta.

   «Che meraviglia! Sembra impossibile che in un luogo così armonioso possano essere accadute storie torbide.»

   «E chissà quali efferatezze in passato, mia cara, ai tempi delle lotte tra casati belligeranti. In fondo, il fatto di cronaca nera di più di trent’anni fa e quest’ultimo, che appare come una semplice disgrazia, sono davvero poca cosa, paragonati al clima fosco del Medioevo e dei tempi seguenti. Guarda, Ardelia, per farti contenta è uscito perfino un po’ di sole e s’è levata una piacevole brezzolina.»

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L’autrice

Cristina Rava vive ad Albenga, sulla Riviera di Ponente, dove sono ambientati i suoi libri. Dopo inconcludenti studi di medicina, ha lavorato nel settore dell’abbigliamento e successivamente in campagna, ma sempre con la scrittura come efficace salvagente per galleggiare nella vita. Già autrice di due raccolte di racconti e di una memoria storica, tutte legate al territorio ligure, dal 2007 ha intrapreso la via del noir con alcuni romanzi pubblicati da Fratelli Frilli tra il 2006 e il 2012. Per Garzanti ha pubblicato i romanzi Un mare di silenzio (2012) e Dopo il nero della notte. Un’indagine di Ardelia Spinola (2014), entrambi aventi come protagonista il medico legale Ardelia Spinola. Nel 2021 è uscito per Rizzoli Il pozzo della discordia.

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di Cristina Rava (Autore)

Rizzoli, 2021

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