”Perché quel vecchio si è inoltrato senza alcuna ragione particolare nel bosco retrostante il tratto di lago preferito dove andava a pescare? Seguiamolo, lo scopriremo insieme.
Il racconto di Non
Racconto
di
Francesco Villicich
Preludio
Sono un vecchio pescatore in riva al lago, al tramonto.
Non ho mai preso pesci.
Con una mano stringo l’impugnatura di una formidabile canna telescopica e con l’altra un amo aguzzo ma privo di esca, perché assalito da fame incontenibile mi sono mangiato i lombrichi per colazione. Li ho inghiottiti a uno a uno, lasciandoli scivolare giù per la gola dalla mia bocca spalancata. Ora albergano nel mio stomaco dove hanno trovato rifugio e protezione. E nelle rare volte in cui mi cibo di pesce, le prede finiscono per divorare i loro predatori, trasformando le mie interiora in un luogo in cui la catena alimentare viene capovolta e la realtà soverchiata. Per un impercettibile periodo di tempo, al mio interno si schiudono porte su mondi inesplorati; varchi attraverso i quali si potrebbero carpire nuove conoscenze, se il privilegio di sbirciarvi dentro non fosse concesso unicamente a una manciata di creature senz’occhi.
Notturno
Quando giunsi al limitare del bosco, mi resi conto che non mi ero mai addentrato al suo interno. Quella sarebbe stata la mia prima volta. Era ormai buio, e mi trovavo di fronte a un muro di tenebre intonacato da strati di rovi. Comunque il problema non era l’apparente impenetrabilità quanto la ragione per cui avrei dovuto violarla: non ne avevo una! Quel bosco non suscitava in me alcun interesse, e doveva essere così anche per gli altri abitanti del luogo dal momento che ne stavano alla larga. Tuttavia questa sua emarginazione rendeva il tratto di lago antistante il posto ideale in cui gettare la mia lenza, e anche se non ricordo di averci mai preso un pesce, quel luogo appartato rimaneva il mio preferito perché vado in cerca di solitudine e non di bocche affamate. Per raggiungerlo parcheggiavo la macchina vicino alle ultime abitazioni del villaggio e proseguivo a piedi per un paio di chilometri verso nord, fino al punto in cui la sponda del lago si interrompe e il bosco si inerpica sulla montagna. A dire il vero ogni volta che mi sedevo lì a pescare avvertivo un’insolita energia sgorgare dal groviglio di arbusti alle mie spalle, eppure prima di quella sera non avevo mai sentito la necessità di investigarne la fonte. A me piacciono il rischio e l’avventura, ma negli istanti precedenti l’azione una voce suadente deve sussurrarmi all’orecchio.
E mentre scostavo i primi rami, quella voce taceva.
Pur non essendo ben attrezzato per quel genere di impresa indossavo un giaccone caldo e resistente e un paio di ottimi scarponi, quindi senza ulteriori indugi cominciai a farmi strada nel fitto della vegetazione. Era la notte del primo plenilunio di settembre, e in virtù del bagliore lunare riuscivo a muovermi con una certa destrezza. L’aria era fredda, ed entrandomi nelle narici pungeva quanto le spine sulle mie mani nude. A un certo punto, dopo aver percorso più o meno un chilometro, giunsi di fronte a una piccola radura posta ai piedi della montagna. Nella pallida luce della luna, questa radura dava l’impressione di essere il risultato di un evento insolito ma naturale, come l’incipiente calvizie sulla testa di un ragazzino. Poteva però anche essere artificiosa quanto la pelata sulla testa di un frate. Comunque sia avevo la netta sensazione che questo luogo fosse attraversato da un’energia particolare, scaturita dalla profondità della terra o piombata dall’alto del cielo. In quel preciso momento sentii una voce suadente sussurrarmi all’orecchio, quindi, dopo essermi accertato che non vi fossero altri suoni o movimenti sospetti, uscii dal mio nascondiglio e mi diressi verso la base della montagna. Tutt’a un tratto fui colto da una sensazione straordinaria, mai provata prima. Di completa schizofrenia. Mi sentivo eccitato e placido al tempo stesso. Desideravo spiccare il volo gracchiando a squarciagola così come sdraiarmi a studiare il flemmatico percorso delle stelle. Bruciavo dal desiderio di svelare i segreti del mondo eppure avvertivo nella mia mente l’assenza di ogni interrogativo. Ero impegnato in una sfida a braccio di ferro con me stesso. Non ne conobbi mai il vincitore perché un improvviso rumore fece perdere la presa ai contendenti, riconducendo i miei sensi alla ragione. Contro la parete della montagna, accarezzata dai raggi lunari, ora intravedevo una piccola baracca, con un comignolo fumante sul tetto e una finestrella alla destra di una porta che, sbattendo, mi aveva fatto sobbalzare. Rimasi immobile al centro della radura, teso e rigido come un giavellotto infilzato nel terreno. Avevo la netta sensazione che dietro la finestrella ci fosse qualcuno a osservarmi. Oltretutto, in questa luce tremula, avrei potuto giurare che la fenditura della porta socchiusa si stesse contorcendo in una sorta di sorriso, come se volesse invitarmi a entrare.
Mi parve scortese rifiutare.
Feci una certa fatica a staccare i piedi da terra. Mi sentivo impreparato, avevo bisogno di più tempo. Ma questo era un lusso che non mi era concesso, quindi, dopo aver attraversato rapidamente lo spiazzo, mi avvicinai all’ingresso. La porta era ricoperta di smalto grigio ormai scrostato, e dietro le due sbarre piantate nel mezzo della finestrella non scorgevo alcun volto intento a spiarmi. L’intera baracca era costituita da assi di legno marcescenti e lamiere arrugginite, e si reggeva in piedi a stento. Probabilmente una violenta raffica di vento l’avrebbe fatta crollare, di conseguenza osservare quella porta oscillare mi inquietava. Sembrava una tagliola pronta a scattare. L’aprii con molta cautela, e un istante dopo un’ombra nera, impalpabile, ne sgusciò fuori dissolvendosi nella notte. Minuscole scaglie di pittura grigia rimasero appiccicate al palmo della mia mano. Mi fermai sulla soglia e allungai il collo, cercando di scacciare dalla mente ogni immagine relativa a ganasce seghettate. Oltre che dall’ingresso e dalla finestra, la luce lunare filtrava da qualche sparuto foro sul tetto. La stanza era un ambiente unico di pianta quadrata, più spazioso di quanto non apparisse dall’esterno. A destra, vicino alla finestra, c’erano un tavolino e due vecchie sedie impagliate; a sinistra, invece, un camino in mattoni sulla cui solidità sembrava fare affidamento tutta la baracca. Era stranamente spento, nonostante il fumo che ricordavo uscire dal comignolo. Appena entrato fui investito da un odore dolciastro di carne marinata cotta alla brace, come se avessi sollevato il coperchio di un fornotandoor. In questo caso, però, la carne doveva essersi carbonizzata. Mi avvicinai alla finestra e guardai fuori, tutto era immobile e silente. Quindi, incerto sul da farsi, decisi di sedermi per pensare. La sedia emise un gemito sommesso mentre le sue gambe si divaricavano sotto il mio peso. Mi ero appena piegato in avanti con la testa fra le mani quando d’improvviso il cuore mi balzò così alto in gola da farmi tossire: sotto il tavolino c’era un volto che mi fissava. Ne riconobbi subito i lineamenti dal momento che quel volto era il mio, riflesso da uno specchio sul pavimento. Tuttavia la luce pallida della luna lo trasfigurava nel mio cadavere, imprigionato sotto la superficie ghiacciata di un lago. Osservai le sue labbra livide e gonfie agitarsi nel frenetico tentativo di comunicarmi qualcosa, senza però riuscire a produrre alcun suono. Mi ricordava un pesce boccheggiante sul fondo di una barca, e avrei pagato qualsiasi prezzo per poterne udire la voce. L’attimo successivo il mio desiderio sembrò esaudirsi.
– Ah… Sei qui, finalmente.
Quella voce risuonò nella stanza, saturandone ogni anfratto come l’aria sulla quale viaggiava. Essa non proveniva dal volto ai miei piedi ma dalla mia destra, dove c’era il camino. Scattai in piedi, cercando di individuarne la fonte.
– Non devi avere paura, – disse la voce con tono tranquillo. – anche se non mi vedi sono qui. Rimani pure seduto, così come lo sono io.
Tornai a sedermi, e dopo aver appoggiato le mani sulle ginocchia raddrizzai la schiena. Lo scrocchio che produsse risuonò amplificato nella stanza silenziosa. Lentamente i miei occhi cominciavano a districarsi nell’oscurità. Con la comparsa della voce, l’odore di carne bruciata era aumentato.
– Ho atteso questo momento per molto, molto tempo. Sono rimasto seduto su questa poltrona così a lungo da non potermene più staccare. Siamo diventati un tutt’uno, le mie piaghe da decubito sono ormai anche le sue.
La voce era quella di un uomo anziano, stanco, con una passata di carta vetrata sulle corde vocali. Doveva avere del liquido nei polmoni poiché al termine di ogni frase si udiva un leggero rantolo, come il gorgoglio prodotto dallo sgorgarsi di un lavandino.
– Dovrò centellinare le poche forze che mi sono rimaste per completare il mio racconto, quindi ti prego, ascoltami in silenzio senza interrompermi.
La voce tacque per qualche secondo. Adesso riuscivo a scorgere meglio i contorni della massa scura protetta dalle tenebre, nell’angolo alla destra del camino. Erano quelli di una poltrona, e sprofondata al suo interno sedeva una figura umana della quale distinguevo solamente la testa, gli avambracci e gli arti inferiori. Il resto del corpo – anche per via di un sottile filo di fumo che fuoriuscendo dalla poltrona terminava nel camino – sembrava sparire non tanto nell’imbottitura quanto tra le labbra di una creatura mostruosa che se lo stava fumando a mo’ di sigaro. Per coincidenza, non appena questa immagine prese piede nella mia mente, notai una piccola lucina all’altezza dello stomaco accendersi e spegnersi come fosse alimentata dal respiro della voce.
– Sono nato in una famiglia modesta – attaccò la voce ravvivando la lucina – come tutte nel mio villaggio. La nostra casa era vecchia ma al tempo stesso confortevole, e dove il calore della stufa a legna non arrivava ci si arrangiava con qualche coperta e un po’ d’allegria. Non eravamo ricchi eppure c’era sempre qualcosa da mettere in tavola, e questo rappresentava un lusso di cui non tutte le altre famiglie del luogo potevano godere. Ero un bambino sereno, e così prossimo alla sommità delle montagne, a un tiro di schioppo dal cielo, mi sembrava di vivere in un piccolo paradiso privato. Ma non durò a lungo. Mio padre aveva potuto frequentare la scuola elementare solo fino alla quarta, prima di vedersi costretto a lasciarla per cominciare a portare a casa dei soldi. Suo padre, mio nonno, si era ammalato molto giovane. Troppo giovane. La causa della malattia non fu mai chiarita, forse polmonite, forse un’infezione o un’altra patologia dovuta alle condizioni lavorative, forse un cancro: nessuno lo seppe mai. Non fu mai visitato da un medico, e dopo appena qualche giorno dall’apparire dei primi sintomi egli morì, nella stanza in alto a sinistra al termine delle scale. Pochi giorni prima, mentre si trovava al lavoro, si era sentito improvvisamente male ed era svenuto. Dovette essere trasportato a braccia fino a casa dove sua moglie, mia nonna, nel vederlo in quello stato, svenne anche lei per empatia. Il nonno non si era mai ammalato prima, – così mi raccontava mio padre, il solo ad avere ricordo di quei giorni – ed era molto forte sia fisicamente che mentalmente. Anche nei momenti più difficili riusciva a restare calmo e lucido, e questo lo rendeva un punto di riferimento per molte persone. Soprattutto per quell’unico figlio. Egli, quel tragico giorno, non era andato a scuola, e mia nonna correva su e giù dalle scale trasportando pezze bagnate e zuppa di patate. Erano gli unici rimedi per curare una malattia di cui si ignorava la causa. Mio padre aspettava in piedi, in fondo alle scale, con la testa all’insù verso la porta socchiusa della stanza matrimoniale. Era rimasto lì tutta la mattina, non riusciva a staccare gli occhi da quella porta e allo stesso tempo non osava avvicinarsi. Aveva paura. Paura di un’immagine, quella che poteva essere l’ultima di suo padre in vita. Non voleva che diventasse la foto su una lapide nel cimitero della memoria. Questo pensiero lo tormentava, e per scacciarlo si concentrava sulla fessura della porta. Cercava di allargarla con la forza della mente, sperando che dalla breccia potesse evadere un prigioniero. A un certo punto la porta si aprì di schianto e il suo cuore si arrestò, dilatandosi a dismisura. Ma a uscirne fu la madre e lui – per la prima e unica volta nella sua vita – rimase deluso nel vederla. Poi la guardò negli occhi, e provò vergogna per questo. Aveva sul volto un’espressione mai vista prima, di profondo smarrimento, come se tutt’a un tratto si ritrovasse persa in un mondo alieno. Appena uscita dalla stanza si era affrettata verso gli scalini, tenendo in mano una bacinella colma di pezze ormai fredde. Quella bacinella di latta, smaltata di bianco e con il bordo cerchiato di blu, era molto cara a mio padre perché era quella che lei usava per lavargli i piedi, quando, scalzo e infangato, faceva ritorno a casa dopo le scampagnate con gli amici. Era arrivato a sporcarsi di proposito per rivivere ogni giorno la liturgia di una madre intenta all’atto più amorevole. Quell’involucro scrostato conteneva l’essenza della sua infanzia felice, e nel vederlo all’improvviso librarsi nell’aria un presagio funesto gli perforò il cuore, facendolo afflosciare. Mio padre mi raccontò dell’espressione smarrita della madre tramutarsi in terrore, lo stesso che erompe dal pozzo dell’animo umano quando la botola posto su di esso esplode. Delle sue braccia rigide e tremanti, come se attraversate dalla scarica di un fulmine. Tese all’altezza delle spalle, gli ricordarono le statue di legno nella chiesetta del villaggio. Tutto intorno a lui si era congelato, e per un fugace istante, riflesso in una lastra di ghiaccio, gli parve di scorgere il volto schivo del tempo. Poi, senza preavviso, il mondo si sciolse e ripartì, questa volta accelerato. In un silenzio surreale vide la bacinella precipitare e schiantarsi sugli scalini, mentre le mani che fino a un’istante prima la sorreggevano stringevano adesso il corrimano nel tentativo di non seguirla. Per ultimo, anche il suo udito riprese a funzionare, e la causa di questo orrore lo investì con l’impeto di una slavina. Un urlo straziante, disumano, risuonava nell’aria e faceva tremare la casa e ogni cosa al suo interno. Sembrava provenire dalla gola di una montagna. Paralizzato, mio padre cercò con gli occhi lo sguardo della madre, sperando di trovarvi un aiuto a comprendere. Ma di lei incontrò soltanto la nuca, un attimo prima che venisse ingoiata dal buio della stanza. Infine, nel momento in cui la porta, sbattendo, si richiuse, quel terribile suono cessò di colpo, come se a un grammofono fosse stato strappato via il braccio. Come corde vocali recise dal fendente di un rasoio.
L’infanzia di mio padre si concluse quella mattina, quando mio nonno, urlando, liberò tutto ciò che si teneva dentro. E poi morì.
Aveva solo ventotto anni, diciotto più del figlio. Lavorava come picconatore nella miniera di zolfo.
La lucina si affievolì, passando dal colore della brace al bluastro pallido della fiammella di un fornello. Dopodiché si spense. Non osavo muovermi perciò me ne stetti seduto in silenzio, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la testa fra le mani, contemplando la mia immagine sotto il tavolino. Ora mi appariva più tranquilla. Un leggero bagliore nell’angolo buio di fianco al camino mi indicò che il fornello si stava riaccendendo.
– Mia nonna non si riprese mai veramente e dopo quel giorno cominciò a sprofondare nella malinconia, abbandonandosi alle sabbie mobili senza lottare. Riuscì a tenere la testa a galla il tempo necessario per assicurarsi che il figlio avesse di che vivere e un futuro davanti a sé, dopodiché la superficie si richiuse sui suoi capelli sciolti. Mio padre aveva compiuto sedici anni, e aveva appena incontrato la donna che sarebbe diventata sua moglie: mia madre. In realtà si conoscevano fin da bambini dal momento che erano stati compagni di classe, tuttavia da quando lui era stato costretto a lasciare la scuola si erano persi di vista. Nonostante si trattasse di una piccola comunità montana, i due bambini erano cresciuti in ambienti diversi: mio padre, ad appena dieci anni, cominciò a lavorare nella stessa miniera di zolfo dove aveva lavorato il suo; mia madre, dopo aver concluso le scuole elementari, rimase a casa ad aiutare a mandare avanti la piccola fattoria di famiglia. Essendo molto giovane e inesperto, il compito di mio padre consisteva nel trasportare fuori dalla miniera, a spalla, il minerale estratto nelle gallerie dai picconatori. Era la mansione più umile e al tempo stesso la più massacrante perché affidata a corpi non ancora sviluppati, inadatti a sollevare ogni giorno pesi di quella grandezza. Questi ragazzini crescevano curvi, storti, spezzati nel corpo e nello spirito. Non avevano una lunga aspettativa di vita. La loro unica speranza era crescere molto in fretta, diventare uomini robusti, e venire promossi a picconatori. Compito non meno faticoso ma meglio pagato. Il lato negativo era la polvere di zolfo. In un ambiente in cui il calore insopportabile costringeva a lavorare nudi e la mancanza di ossigeno a boccheggiare, questa sottile polvere gialla penetrava sia nella pelle che nei polmoni, finendo per saturare il corpo. Una formidabile porporina dorata in grado di trasformare a poco a poco un essere umano in idolo. Per poi divorarselo in un istante, non appena macerato a puntino.
Comunque sia, mio padre aveva ereditato da mio nonno la sua forza fisica ed evidentemente anche la sua determinazione. Infatti, dopo solo pochi anni di lavoro come trasportatore di secchi, venne promosso a picconatore. Quello stesso anno, per coincidenza, a una festa di paese rincontrò quella bambina (ora una ragazza) conosciuta sui banchi di scuola. E se ne innamorò, ricambiato. Forte dello stipendio che guadagnava, ne chiese prima la mano al padre di lei e poi la portò a casa per presentarla a sua madre. A quel punto, ritenendo di aver compiuto il proprio dovere, mia nonna morì, lasciando mio padre da solo per tutto l’inverno. All’arrivo della primavera egli si sposò. Un anno dopo, piangendo, nacque suo figlio. Nella stessa stanza in cui anni prima, urlando, era morto suo padre.
E così ebbe inizio la mia avventura su questa terra.
Come già detto la mia famiglia era modesta eppure miei genitori si amavano, io crescevo sano e forte, e la nostra vita, tra alti e bassi, procedeva serenamente. Fino a quel maledetto primo giorno di scuola.
Il ricordo di quel giorno alberga ancora vivido nella mia mente. Ne sento perfino l’odore, imprigionato nelle cellule del mio cervello come il puzzo di fritto nei capelli. In realtà non fu in nessun modo speciale o diverso da quello di tutti gli altri alunni. Una mattina di settembre i miei genitori mi accompagnarono fino al cancello d’ingresso della scuola, e dopo avermi ripetuto le solite raccomandazioni mi salutarono con un bacio particolarmente affettuoso e mi lasciarono correre verso i nuovi compagni. Al suono di una campanella entrammo in un’aula dove, in piedi davanti alla cattedra, ci attendeva il maestro. Egli assegnò a ciascuno di noi un posto a sedere nei banchi, si girò sui tacchi, e si avvicinò alla lavagna. Per qualche secondo rimase immobile di fronte a quella massa scura respirando profondamente, come se stesse scrutando le insidiose acque sottostanti prima di un tuffo dalla cima di una scogliera. E poi saltò. Estrasse rapidamente dalla tasca un gessetto bianco con il quale cominciò a graffiare nervosamente la superficie della lavagna, lasciandosi alle spalle numerose cicatrici farinose. Passarono ore che parvero istanti, in cui soltanto lo stridio di quei fendenti riusciva a scalfire la spessa campana di vetro calata sulla stanza. Fino a quando il fragore della seconda campanella la frantumò. Uscimmo correndo dalla scuola, e in giardino, ad attenderci, ritrovammo i nostri genitori. Presi per mano i miei, e insieme ci incamminammo verso casa. Quella mattina ricordo di avere osservato con attenzione le altre bambine sedute ai banchi, pensando che tra di loro ci sarebbe stata la mia futura moglie, come fu per mio padre. Perché io amavo mio padre, e rispecchiarmi nella sua figura era per me di grande conforto. E fu proprio per questo che, al ritorno dal mio primo giorno di scuola, una forte sensazione di malessere cominciò a farsi largo nel mio stomaco, come se dei vermi ci si stessero scavando una tana. Fui colto da forti conati di vomito eppure non riuscii a rigettare niente, un po’ perché non avevo mangiato e un po’ perché queste creaturine sembravano munite di minuscoli artigli con cui riuscivano ad avvinghiarsi alle pareti della gola, superando indenni ogni tentativo di espulsione. Sentivo quelle bestiacce agitarsi nel mio collo, e per quanti sforzi facessi non me ne riuscivo a liberare.
La lucina si spense dopo diversi rantoli e gorgoglii. Mi venne da tossire, come se una manina birichina mi stesse solleticando l’ugola con una piuma, ma trattenni l’impulso. Volevo evitare di sembrare insolente. Poi la brace si ravvivò e la voce riprese, mentre il sottile filo di fumo nero continuava indisturbato il suo percorso dal centro della poltrona fino all’interno del camino.
– Quello fu il momento in cui capii che non sarei diventato come mio padre.
Tutto ebbe inizio quando rivolsi per la prima volta lo sguardo alla lavagna. Accompagnato da un suono simile al gracchiare di un corvo, il primo colpo di gessetto lasciò una traccia effimera sull’ardesia ma indelebile nel mio cervello. Ne seguirono un secondo e un terzo, fino a formare una lettera. A ogni colpo sentivo la mia coscienza ancora acerba staccarsi dalla parete sulla quale si arrampicava, come se al posto del gessetto il maestro usasse uno scalpello. Egli continuò, e continuò, e continuò, fino a che tutta la lavagna non fu invasa da un esercito di ghirigori. Di fronte ai miei occhi si formò un’inestricabile ragnatela, ricoperta di rugiada e luccicante nei raggi obliqui del sole del mattino. Perché alla stregua di un ragno quello era ciò che quei segni erano diventati per me: la mia casa, il mio mondo, il mio universo. Da quel momento in poi il mio compito sarebbe stato tessere collegamenti tra i punti cardinali dello spazio, creando strutture in grado di affrontare l’erosione del tempo. Non sapevo cosa questo significasse né tantomeno come l’avrei mai potuto raggiungere ma questo non mi preoccupava, l’unica cosa importante era aver trovato il mio scopo nella vita. Ed esso, evidentemente, non era diventare come mio padre. In quell’istante un colpo ben assestato recise l’ultimo appiglio della mia coscienza, facendola collassare. Questo successe al ritorno dal primo giorno di scuola, sulla strada verso casa, mentre tenevo mio padre per mano. Quella sera non riuscii a chiudere occhio. Mi sentivo come un verme intento a scavarsi la tana. Nella carne altrui.
Poi venne il secondo giorno, il terzo, il quarto e così via. Appresi dell’esistenza dei libri, della matematica, delle scienze e della geografia. Cominciai a fantasticare su mondi sconosciuti, abitati da antichi tessitori di indecifrabili ragnatele. E sotto gli incessanti colpi di uno scalpello, i confini del mio piccolo paradiso privato cominciarono a crollare. Alle scuole elementari seguirono le medie, superate con il massimo dei voti. Infine il liceo, frequentato grazie ai molti sacrifici dei miei genitori che desideravano per me una vita lontana dal villaggio.
La fiammella calò d’intensità, tremò, ma non si spense. Congiunsi quindi le mani a mo’ di preghiera sotto il mio naso e guardai la finestra. La luce lunare gocciolava dalla cornice al pavimento. Lì, dopo aver formato un rigagnolo, scorreva fin sotto il tavolino dove inondava di rugiada un’inestricabile ragnatela formata dai capelli ricci del volto nello specchio. Poi la voce riattaccò.
– Una mattina, mio padre si svegliò tossendo. C’erano rintocchi di campane nell’aria e macchie di sangue sul cuscino. Era domenica. Il pomeriggio precedente, sul sentiero che dalla miniera porta al villaggio, si era sentito male ed era svenuto. I suoi amici avevano dovuto sollevarlo di peso e trascinarlo fino a casa. Mia madre, nell’udire quell’insolito trambusto e in preda a un brutto presentimento, si fiondò verso la porta e la spalancò, sperando di frenare il proprio slancio nell’accogliente familiarità del volto del marito. Andò invece a sbattere contro gli occhi spenti di chi quasi non riconosceva. Di fronte a lei c’era soltanto l’effige dell’uomo che amava, un simulacro uguale in tutto a eccezione dello spirito. Mio padre era un uomo forte, e il vederlo afflosciato lì, sull’uscio della porta, le risucchiò tutta l’aria dai polmoni. Dopo essersi ripresa lo fece mettere a letto nella stanza matrimoniale in cima alle scale, si affrettò a far bollire dell’acqua sulla stufa e si recò in cantina a recuperare una vecchia bacinella di latta smaltata di bianco e con il bordo cerchiato di blu. Da quel momento cominciò un andirivieni dal sapore antico, e come una pedina di un gioco troppo grande per comprenderne il disegno mi ritrovai in piedi sul primo gradino delle scale, in posizione defilata, a osservare gli eventi dalla casella che mi era stata assegnata. Quella domenica mattina, con il viso ancora sporco di sangue e sfidando le ire di mia madre, mio padre si alzò dal letto e, reggendosi saldamente al corrimano, scese le scale. Mi passò davanti senza guardarmi e si rinchiuse nel bagno fino all’ora di pranzo. Al dodicesimo rintocco di campana aprì la porta e venne a sedersi a tavola. Lì, in un silenzio carico di tensione, si mangiò di gusto diverse scodelle di zuppa di patate, condite da un filo d’olio d’oliva e accompagnate da alcune fette di pane integrale. Poi, come in qualsiasi altra domenica prima di quella, andò a sedersi sulla sedia di vimini sotto il portico. Si accese una sigaretta, la fumò fino a quasi bruciarsi le dita, spense il mozzicone con un filo di saliva e lo ripose ancora bagnato nel taschino del pigiama. Infine, sempre senza dire una parola, attraversò la cucina, si arrampicò a fatica su per le scale e richiuse la porta alle sue spalle. Fu come assistere alla proiezione di un film muto, mancavano soltanto le vignette con i dialoghi scritti e l’enfatizzazione di un pianoforte. Ritornai mestamente alla mia casella e mi misi a fissare la porta. Per un istante la sua superficie sembrò contorcersi e bruciare, come un fotogramma di celluloide messo al rogo dal malfunzionamento di un proiettore. Quella sera, all’imbrunire, mia madre uscì dalla camera matrimoniale tenendo in mano la bacinella e attraverso le sbarre del corrimano cercò il mio sguardo. Il tempo impiegato a incontrarlo mi parve quello necessario alla luce di una stella per raggiungere la finestra della mia cameretta. Sentii nelle membra il gelo dello spazio siderale, mentre attendevo impotente l’impatto di una slavina. Invece, con occhi pieni di dolcezza, mia madre mi invitò a entrare nella stanza e mi lasciò da solo con mio padre. Mi ritrovai nella semi oscurità con la testa bassa e le palpebre serrate. Non volevo scattare alcuna fotografia. Ma egli, seduto sul letto, mi chiese di avvicinarmi e cominciò subito a parlarmi, tranquillizzandomi. Voleva sapere della mia settimana, di quello che avevo studiato, dei mei amici e dei miei programmi per i prossimi giorni. Solo questo, nient’altro. Poi mi diede un bacio in fronte e per un istante mi guardò come non aveva mai fatto prima. Infine mi voltò le spalle, si sdraiò su un fianco e tirò le coperte fin sopra la testa. Alla luce fioca della lampadina, la sua sagoma immobile assunse la solennità di una montagna.
Quella sera non sentii il bisogno di studiare. Mi misi subito a letto e dopo poco caddi in un sonno profondo. Fuori dalla finestra, la luce di una stella proveniente dallo spazio siderale picchiettava contro i vetri, chiedendo di entrare.
La mattina successiva, al mio risveglio, mio padre non c’era. Si era alzato prima di noi ed era uscito di casa quando ancora non albeggiava. Da quel giorno sparì nel nulla. Ci convincemmo che avesse testardamente deciso di andare al lavoro sgattaiolando fuori a quell’ora per evitare discussioni, quindi ci mettemmo il cuore in pace e aspettammo con pazienza il suo ritorno il pomeriggio del sabato successivo. Il quale, preannunciato da dodici rintocchi di campana, inesorabilmente arrivò. Da solo, senza quel padre e quel marito al suo fianco. In quell’istante un muro della cella in cui avevamo rinchiuso le nostre paure cominciò a sgretolarsi. Cercammo di resistere ancora qualche ora pensando che forse, per via delle sue condizioni, gli ci voleva più tempo per tornare dalla miniera. Al tramonto quel muro crollò, e sopraffatti dall’angoscia ci recammo prima dai suoi compagni minatori e poi da tutti i nostri conoscenti sperando in qualche notizia, qualche informazione, ma senza successo. Dissero che quella settimana egli non si era presentato al lavoro, e che nessuno lo aveva più visto dopo il malessere del sabato precedente. Alle prime luci dell’alba, con l’aiuto di tutte le persone abili del villaggio, partimmo alla sua ricerca. Perlustrammo i boschi, setacciammo i corsi d’acqua, esplorammo ogni grotta e ispezionammo ogni anfratto. I più esperti, attrezzati di tutto punto, batterono palmo a palmo perfino le vette delle montagne circostanti in cerca di un indizio, una traccia, magari di un corpo senza vita in fondo a un dirupo ma niente, di lui non c’era traccia. Era svanito, dissolto nell’aria come il tenue profumo di un fiore di campo nella fresca brezza di primavera. Lo stesso profumo avvertito da mia madre quando una sera, per la prima volta dalla scomparsa del marito, aprì il cassetto del comodino di fianco al letto per riporvi le lacrime represse fino a quel momento. La prima cadde sui petali avvizziti di un fiore di campo bianco e giallo – il suo preferito – e ne ravvivò per un istante la fragranza, rinchiusa da giorni in un feretro di noce. La seconda, scivolando da labbra ora contratte in un inatteso sorriso, inumidì un foglietto di carta accuratamente ripiegato e posto a sudario di quel pensiero ormai appassito. Poi ne seguirono una terza e una quarta, scrollate da palpebre coinvolte in una frenetica decifrazione, ma non una quinta. Poiché quest’ultima, ubbidiente, si arrestò all’improvviso nel canale lacrimale e sbarrò il passo a tutte le compagne in attesa. Inceppando per sempre la filiera.
Dopo qualche tempo mia madre abbandonò la casa e andò a vivere con una sorella che abitava sull’altro lato della montagna. Nel frattempo io avevo trovato impiego alla miniera, partendo ovviamente dalla mansione più umile e cioè il trasportatore di secchi. La mia vita cambiò drasticamente, e per un breve periodo arrivai perfino a ritenere mio padre responsabile di tutto come se ogni evento fosse stato parte di un suo macchinoso piano per trattenermi in questo posto e impedirmi di andarmene. Mai accusa fu più ingiusta. In realtà io credo che quella domenica mattina, svegliandosi, egli abbia intravisto ben più di qualche goccia di sangue sul cuscino. Credo che una visione, la più terrificante della sua infanzia, gli sia riapparsa davanti al letto, e da uomo coraggioso qual era abbia deciso di affrontarla in piedi, faccia a faccia, saldo di fronte a quel fetido respiro. Io so perché la mattina seguente sparì senza lasciare traccia. Non voleva causare il volo di una bacinella. Non poteva permettere che la mia memoria conservasse, come ultima immagine del padre, quella di un uomo inerme, nudo e sdraiato su un fianco, mentre viene ripulito dai fluidi organici sfuggitigli dal corpo. Egli non era un infante, per questo decise che non sarebbe morto urlando. Non in quella casa e in quella stanza, con un figlio in attesa sul primo gradino delle scale.
E così scelse di andarsene in silenzio, lasciandosi alle spalle un ultimo sguardo verso una finestra e un fiore di campo nel cassetto di un comodino.
Mi stropicciai con le dita gli occhi stanchi. Cominciavano a bruciare. La voce rimase in silenzio per qualche secondo durante i quali mi sembrò di udire dei lievi sospiri, simili al suono prodotto dal vento nella cappa di un camino. La luce lunare si era ormai diffusa in tutto l’ambiente a eccezione di quell’angolo che sembrava resistere. Al riaccendersi della fiammella notai che il filo di fumo proveniente dalla poltrona si stava intensificando, in sincronia con il riverbero prodotto dalla fiammella stessa.
– Così mi ritrovai a vivere dentro una casa vuota, senza mio padre e con mia madre dall’altra parte della montagna. Avevo dovuto lasciare la scuola, ma questo era di gran lunga il cambiamento meno doloroso. Il bruciore dentro di me non si era placato, anzi, era addirittura aumentato perché avevo deciso di continuare a studiare da solo. Mi sentivo pronto ad affrontare le difficoltà della vita adulta, desideravo una vita intensa come il fuoco nel mio stomaco. Dopotutto nessun uomo della mia famiglia era mai vissuto molto a lungo lavorando nella miniera di zolfo, e siccome questo era ormai anche il mio destino non mi facevo troppe illusioni. Probabilmente la mia vita non sarebbe stata diversa da quella di mio padre e di mio nonno. Diverso, invece, sarebbe stato lo scopo. Io avrei lasciato qualcosa dietro di me, prima di ridurmi in cenere. Quindi mi attrezzai di conseguenza, e oltre a un paio di libri necessari al mio percorso comprai un bel quaderno dalla copertina gialla, dei pennini di misure diverse e una boccetta d’inchiostro di china. E imparai a cucinarmi un’ottima zuppa di patate! Cominciai perfino a bere e a fumare, non appena riuscii a permettermelo. Il vino rosso, incredibilmente, smorzava la mia acidità; e sentire del fumo che mi entrava dentro era una piacevole novità rispetto alla consueta sensazione opposta. In ogni caso non avrei vissuto abbastanza a lungo per pagarne le conseguenze, e francamente quanto tempo mi rimanesse da vivere non aveva per me alcuna importanza. Importante, invece, era eseguire ciò per cui ero venuto al mondo. Dovevo compiere il mio dovere, per quanto potesse rivelarsi difficile e crudele. Così, in una fredda sera di una domenica di novembre, alla luce di una lampadina, cominciai a scrivere e non smisi fino all’alba del mattino successivo. Quando alla fine posai la penna sul tavolino della camera matrimoniale – quella che un tempo era stata dei miei genitori e nella quale mi ero trasferito – sentii che il bruciore nel mio stomaco, per la prima volta dalla sua apparizione, si era placato. Per un breve istante fui pervaso da una meravigliosa sensazione di pace e di equilibrio. Da quel momento in poi il mio compito sarebbe stato inseguire quella sensazione fino ai confini dell’universo che l’aveva partorita. Avrei allargato con le mani i lembi di un varco. E ci avrei ficcato dentro la testa.
Di lì a poco mia madre se ne andò. Senza una parola, senza salutare. Morì nel suo letto tranquilla, anche se forse, chissà… credo avrebbe preferito altrimenti. Dopo la notte passata a scrivere mi ero recato di buon’ora da lei per lasciarle il quaderno, prima di andare al lavoro. Lo avrei ripreso al mio ritorno il sabato successivo. Come promesso, quel pomeriggio mi presentai puntuale alla sua porta nell’esatto momento in cui, soffocato dagli alberi sulla cresta della montagna, l’ultimo raggio di un tiepido sole scivolò via dal mio viso. Quando vidi mia madre adagiata su di un candido lenzuolo di lino mi parve bella come non mai. La copertina del mio quaderno, sotto le sue pallide mani congiunte, richiamava i colori di un fiore di campo reciso prima dell’alba e posto ancora umido all’interno di un cassetto. E questa è la fotografia sulla sua lapide nel cimitero della mia memoria. Non conobbi mai la sua impressione riguardo i miei scritti, eppure sono convinto che l’abbiano resa impaziente di intraprendere un viaggio al termine del quale le sue mani contratte si sarebbero distese in quelle del marito. Depositandovi, piena d’orgoglio, un quaderno contenente i traguardi di loro figlio.
Udii un gorgoglio lungo e profondo che mi fece rabbrividire. Poi la fiammella si ravvivò di scatto, e un odore di carne bruciata mi penetrò le narici con violenza.
– Dopo la morte di mia madre fui promosso picconatore, e cominciai a guadagnare lo stretto necessario per vivere in maniera semplice ma dignitosa. Avevo sempre una scodella di zuppa di patate sulla tavola e durante le brevi vacanze estive mi permettevo perfino qualche viaggio. Visitai paesi lontani nei quali potei confrontarmi con linguaggi e ideogrammi a me sconosciuti. Tuttavia non scrissi mai più. Nonostante gli innumerevoli tentativi, non riuscii mai a ritrovare quella sensazione di pace ed equilibrio che mi aveva pervaso all’alba di un lunedì mattina. La mia sorgente si era prosciugata, irrigando i solchi tracciati sulle pagine di un quaderno. E insieme al fiore di campo che lo stringeva tra le mani, con quel quaderno fu interrata tutta la mia semenza, privando di scopo il granaio che la conteneva. Chissà… magari in questo preciso istante una manciata di creature prive di occhi e di confini sta divorando le piantine germogliate da quei semi, inebriandosi di quella sensazione da me perduta. Quei vermi sono ormai miei figli, perché in essi vive la mia sola eredità.
Arrivati a questo punto immagino tu muoia dalla voglia di conoscere cosa contenesse quel quaderno, ma se anche volessi non ti potrei accontentare. Perché non ne ho più memoria, e soprattutto perché ciò che scrissi quella notte non ha alcuna importanza. Non ne ha mai avuta. In realtà, seduto a quel tavolino, non feci altro che captare messaggi e dargli voce, come un apparecchio radiofonico con le onde elettromagnetiche vaganti nell’etere. Fui il medium di una seduta spiritica. Forse un’entità soprannaturale, dopo essersi manifestata attraverso il mio corpo, sgocciolò il proprio ectoplasma su quelle fibre di cellulosa. Tutto qui. In ogni caso, qualunque fosse il messaggio, io ne fui soltanto l’emissario. Uno giudicato incapace, dal momento che non venni mai riutilizzato. A quel punto la verità mi si rivelò in tutta la sua chiarezza: durante il mio primo giorno di scuola, mentre osservavo la lavagna, fui contagiato da un morbo incurabile. O forse, più semplicemente, caddi vittima di un maleficio, scagliato con una corta bacchetta bianca da un negromante in giacca e cravatta come punizione per essere riuscito, anche se involontariamente, a isolare un codice. Ricordo perfettamente quattro lettere spiccare sulle altre dopo essersi accese, formando un rombo luccicante in quello spazio scuro. Così, davanti ai miei occhi allibiti, la lavagna si trasformò nei vetri della mia finestra sui quali, durante le lunghe notti insonni, un corpo di ballo di stelle componeva figure geometriche danzando la coreografia delle costellazioni. Nella matinée andata in scena quel giorno di settembre, il ruolo più brillante, quello di Sirio, fu interpretato dalla lettera “A”. Essa, con i suoi tre partner al seguito, diede vita a un intenso pas de quatre al termine del quale una vorticosa sequenza di pirouettes causò l’avvitamento delle sue scarpette da punta nei tessuti molli del mio inconscio. Su quella scena, cigolando, il sipario si richiuse, affrettandosi a occultare dietro un mantello di velluto rosso le nefaste conseguenze di quella rappresentazione.
E qui il mio racconto si conclude.
Ultimata la frase, la fiammella al centro della poltrona divampò, sommergendo i frangiflutti di oscurità che proteggevano quell’angolo. Scattai in piedi, e finalmente riuscì a scorgere quello che fino a quel momento si era tenuto nascosto. Vidi i resti di un uomo incenerito, seduto su una poltrona impregnata di un liquame nerastro. La fiamma si trovava dove un tempo c’era lo stomaco, e roteava su sé stessa come un astro incandescente. A ogni rotazione si espandeva e aumentava d’intensità, pareva una cometa imprigionata nell’imbottitura dello spazio profondo. Del corpo rimanevano solamente la parte inferiore delle gambe, gli avambracci e il cranio, con la mandibola che penzolava sullo schienale. Fatta eccezione per gli scarponi ancora infilati ai piedi, questi miseri resti erano privi di indumenti e mostravano una pelle così pallida da sembrare ricoperta di cerone bianco. Un leggero fulgore azzurrino, simile a un fuoco fatuo, si muoveva tra le orbite del cranio spostandosi da una all’altra, come se volesse osservarmi meglio attraverso due finestroni. A un certo punto da sopra la mandibola uscì un ruggito profondo, e per un’ultima volta la voce risuonò.
– Eccomi qui di fronte a te, adesso conosci il mio aspetto. Vedi, il vero compito assegnatomi dal destino non fu quello di ricevere un dono eccezionale, fu quello – ancor più eccezionale – di sopravviverne la sottrazione. E questa resilienza fece di me il candidato ideale a perpetuare una anomalia, estremamente rara ma necessaria all’equilibrio dell’ordine prestabilito.
Questa anomalia è la combustione umana spontanea, ed è stato un onore offrirle per palcoscenico la mia insignificante esistenza.
Ora entri in scena tu.
Ti prego, non dimenticarmi. Non dimenticare il monito custodito nel mio racconto. E soprattutto ricordati delle mie parole domani mattina quando, dopo aver assegnato a ciascun allievo un posto tra i banchi, ti avvicinerai alla lavagna ed estrarrai dalla tasca ciò che credi essere un banale gessetto. Perché sei tu quel negromante in giacca e cravatta, e il motivo per cui sei qui, in questa notte di settembre che anticipa il primo giorno di scuola, ormai ti è chiaro.
Lo senti…? Il mio rantolo è cessato, e così il mio respiro. Sto camminando in pace sulla strada verso casa, in equilibrio tra chi adesso è nuovamente al mio fianco.
La voce salì di tono fino a diventare un fischio, e un attimo prima che la sfera infuocata esplodesse riuscii a scorgere gli avambracci di quell’uomo danzare sui braccioli della poltrona. Sembravano marionette di un teatrino, mosse attraverso fili invisibili da mani desiderose di ricondurre a sé un pupo.
Fuga
Appena le luci stroboscopiche nei miei occhi si dileguarono oltre i confini dell’iride, mi ritrovai in piedi al centro della stanza. Contemporaneamente, come se rispondessero a un segnale, anche il ronzio nelle orecchie e l’odore di carne bruciata nelle narici mi abbandonarono. Rimasi completamente solo, in un ambiente in cui non ero più il benvenuto. In quel momento la mia coscienza assunse l’impalpabile consistenza di un’ombra, bruciando dalla voglia di dissolversi nella notte. Il mio sguardo corse verso l’uscita. Attraversata dal tremulo chiarore lunare, la fenditura della porta socchiusa sembrava contorcersi in una sorta di ghigno, come se volesse invitarmi ad andarmene.
Mi parve scortese rifiutare.
Francesco Villicich
30 Agosto 2019 a 12:56
Grazie Ilaria, sono contento che ti sia piaciuto. Un caro abbraccio.
Ilaria Sartori
30 Agosto 2019 a 1:25
Bello questo racconto! Bravo Francy Villy!???