Cinquant’anni fa Sergio Ramelli moriva per le sue idee. Oggi il suo nome torna a chiederci: abbiamo davvero superato l’odio?

IL RIGURGITO DELL’ODIO

Marcello Veneziani

Era aprile, cinquant’anni fa, quando un ragazzo di nome Sergio Ramelli cadde sotto i colpi di una chiave inglese. Aveva scritto un tema contro il terrorismo, e per questo venne segnato, isolato, aggredito. Morì dopo una lunga agonia, non solo per mano di chi lo colpì, ma di un clima avvelenato in cui le idee bastavano per condannare a morte. In quella tragedia si riflette una stagione nera della nostra storia, ma anche una ferita che non ha mai smesso di sanguinare. E oggi, mentre il ricordo di Sergio torna a emergere da destra a sinistra, si alza una domanda urgente: cosa abbiamo davvero imparato dall’odio che ci ha attraversati? (f.d.b.)


Nell’aprile di cinquant’anni fa un ragazzo moriva dopo una lunga agonia. Si chiamava Sergio, Sergio Ramelli. Era un militante del Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile della destra nazionale, milanese, aveva scritto un tema in classe sul terrorismo delle Brigate rosse. Un gruppetto di studenti di Avanguardia Operaia pubblicò sulla bacheca all’entrata della scuola il suo tema, accompagnandolo con una scritta: “Ecco il tema di un fascista”. Poi fu aggredito, preso a pugni e sputi, deriso e dileggiato, fino a quando apparve la scritta “Ramelli fascista sei il primo della lista”. E una sera, mentre tornava a casa, fu aggredito da quattro militanti del gruppo di estrema sinistra che lo colpirono con la chiave inglese fino a sfondargli il cranio e lo lasciarono in una pozza di sangue sul selciato. Poi dopo alcune settimane di agonia, Sergio morì. Avevo allora la sua stessa età, ed ero stato anch’io da ragazzo militante del Fronte della gioventù, al mio paese. Sentì che con lui ero stata uccisa anche una parte di me, avrei potuto scrivere lo stesso tema e mi esponevo anch’io con la bandiera tricolore nelle piazze e le mie idee a scuola; ma ebbi la fortuna di vivere in un luogo meno rovente, dove non si usava la chiave inglese, e dove le parole raramente si facevano armi letali, al più scoppiavano tafferugli. Oggi quel ragazzo lo ricordano in tanti, non solo a destra; anche Walter Veltroni lo ha ricordato, e gli fa onore.

Di recente Giuseppe Culicchia gli ha dedicato un bel libro in cui ha ricostruito la vicenda e il clima terribile di quei giorni. S’intitola Uccidere un fascista, (1)ed.Mondadori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sempre in aprile, “il più crudele dei mesi” secondo T.S.Eliot, a Roma, due anni prima erano stati trucidati due ragazzi, anzi un ragazzo e suo fratello, un bambino di dieci anni, colpevoli di essere figli del segretario locale della sezione del Movimento sociale. Furono bruciati in casa loro, mentre dormivano, in quello che sarà ricordato come il rogo di Primavalle. Gli assassini furono dei militanti di Potere Operaio. Era una casa popolare, era una famiglia umile, con sei figli, poteva essere una strage con più vittime. Si chiamavano Virgilio e Stefano Mattei.

Altri nomi di vittime della violenza mi sovvengono ma evito di elencarli. Su molti di loro, a parte i rituali dei militanti e i loro nomi citati nei comizi e nei manifesti missini, calò il silenzio e l’omertà, come se fossero figli di un dio minore, o peggio di un dio malvagio, vittime maledette, incluso quel bambino di dieci anni.

Lascio stare le accuse e le recriminazioni, in una stagione che ebbe tante vittime tra i ragazzi di destra ma anche di sinistra, oltre che tra i giovani in divisa, le forze dell’ordine. Ma vorrei constatare che furono vittime di una guerra mai nata, di una rivoluzione abortita; vittime di uno scontro in cui ci furono sì criminali e vittime, ma non ci furono vincitori né vinti, perché alla fine non trionfò né la rivoluzione comunista dei loro carnefici né la rivolta ideale di quei giovani neofascisti. È terribile morire in una guerra civile ma più terribile è morire in tempo di pace; quando partecipi a una guerra civile sai a cosa puoi andare incontro perché sai che stai combattendo per una causa e in una sfida in cui uno alla fine trionferà sull’altro. Ma nel caso degli anni di piombo e delle violenze che imperversarono negli anni Settanta, c’è pure la beffa di una storia inconcludente, che non ebbe esiti, se non la vittoria dello status quo e di un mondo che non piaceva né alle vittime né ai carnefici. Il loro sacrificio non servi a nulla, nemmeno ai fini cinici e impietosi della storia. Non ebbe effetti, fu solo male su male. Il potere restò inalterato, i governi continuarono a succedersi nella stessa formula, con gli stessi protagonisti; il potere politico non ne ebbe a soffrire. Per usare il gergo del tempo, vinse il Sistema, che entrambi avversavano seppure con motivazioni diverse.

La loro unica motivazione fu paradossalmente retroattiva: era un conto residuo della guerra civile, che ora compie 80 anni; quei ragazzi morivano nel nome del passato, di un passato che non avevano conosciuto, il regime fascista e la guerra partigiana, e la speranza abortita di una rivoluzione dopo la resistenza, l’avvento di un regime comunista, proletario, che non vide mai la luce né mai avrebbe potuta vederla, perché il mondo in quel tempo si atteneva a una rigida spartizione, decisa a Yalta, in cui alcuni paesi sarebbero rimasti sotto l’ombrello americano e altri sotto il tallone sovietico.

Dunque, la ragione della loro guerra era puramente retroattiva e simbolica, riguardava trent’anni prima e un’altra generazione, e comunque non avrebbe potuto cambiare gli assetti nazionali e mondiali prestabiliti. Puro rancore rimasto nell’aria del tempo. Pura contabilità dell’odio, permanenza del livore elevato a categoria antropologica, senza più ragion d’essere, senza nessun futuro e nessun presente.

E quanto quell’odio sia ancora circolante lo dimostra un ennesimo strascico dei nostri giorni. Che risale ancora a un aprile di sangue, non di trent’anni fa ma addirittura di ottantun’anni fa. È stata negata l’intitolazione di una rotonda di Firenze al più grande filosofo italiano del Novecento, Giovanni Gentile, su cui spesso abbiamo scritto e di cui in questi giorni è uscito un densissimo e umano ritratto della sua vita in famiglia: s’intitola proprio La famiglia Gentile.(2) Lettere e fotografie dal 1900 al 1945, un corposo volume pubblicato dalle edizioni Le Lettere, dei nipoti del filosofo ucciso.

A negare l’intitolazione toponomastica al filosofo è stata tra gli altri il sindaco di Firenze, o la sindaca, fate voi – non bado a queste minchiate – Sara Funaro del partito democratico. Dimenticando l’umanità di suo nonno, il sindaco di Firenze ai tempi dell’Alluvione, lo scrittore cattolico e politico democristiano Piero Bargellini, il sindac* (o/a) in carica della città in cui visse e morì Gentile, ha rigettato la proposta prendendosela con la destra al governo che “ha ancora lo sguardo rivolto agli anni peggiori del nostro passato”. Non vorrei ricordare, ancora una volta, la coerenza e l’umanità di Gentile, il suo ruolo di pacificatore che si assunse in piena guerra mondiale e civile, la sua difesa di antifascisti ed ebrei, la sua siderale distanza dal nazismo; mi limito a dire che fu un grande filosofo, come pochi ce ne sono nell’arco di secoli, e che fu riconosciuto tale da grandi studiosi di ogni versante; fu grande ministro della pubblica istruzione, fondatore di importanti istituzioni culturali, come l’Enciclopedia Italiana Treccani. E aggiungo che col miserabile criterio di cancellare la memoria di chi ha avuto legami con poteri nefasti, noi dovremmo cancellare la memoria di Seneca perché fu consigliere di Nerone; e perfino quella dei due più grandi filosofi dell’antichità, Platone, che fu consigliere del tiranno di Siracusa, e Aristotele, il “maestro di color che sanno”, che fu precettore di un Imperatore spietato come Alessandro Magno. E potremmo continuare la caccia nei secoli. Questo ennesimo esempio meschino di cancel culture mostra quanta barbarie sia ancora operante nel nostro tempo; quanto odio sia ancora attivo e rigurgitante, come un vomito permanente, sulla nostra storia, sul nostro pensiero, sulla nostra civiltà e umanità.

Il mondo cambia, anche troppo, il tempo corre in fretta, ma loro sono ancora lì, fermi, a sputare sui morti e a negare onorata sepoltura anche ai più grandi. Vomito ergo sum, è ormai il loro codice di vita e il loro motto araldico.

La Verità – 14 giugno 2024
La Verità – 18 aprile 2025

 

 

 

Approfondimenti del Blog

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Descrizione

Dopo i due volumi dedicati a Walter Alasia, brigatista che con Ramelli condivideva diverse cose oltre alla giovane età, Giuseppe Culicchia chiude la sua trilogia sugli anni di piombo con un libro che cerca di ricostruire la vita e la morte di un ragazzo ucciso dopo aver scritto un tema in classe, e di ricomporre le schegge di una deflagrazione che, cominciata con la bomba di piazza Fontana, ha attraversato tutto il paese e ha continuato a ferire e ammazzare per oltre un decennio.

«Giuseppe Culicchia chiude il suo viaggio negli “anni di piombo”: dopo la vicenda del cugino brigatista, affronta quella del ragazzo di destra massacrato da un commando di Avanguardia operaia. Una lettura letteraria e una lettura storica.» – Ermanno Paccagnini, La Lettura

Il 29 aprile 1975, dopo più di un mese e mezzo di sofferenze, moriva a Milano uno studente di diciott’anni di nome Sergio Ramelli. Il 13 marzo, mentre tornava a casa, era stato aggredito a colpi di chiave inglese da un gruppo di militanti di Avanguardia Operaia. Sergio Ramelli era iscritto al Fronte della Gioventù, organizzazione di segno opposto, e aveva scritto un tema contro le Brigate Rosse, in cui sottolineava come i primi due omicidi politici commessi dalle Br non fossero stati condannati unanimemente dai partiti e dai giornali democratici: d’altra parte “uccidere un fascista non è reato” era lo slogan che, dopo le stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia, infiammava cortei e manifestazioni antifasciste. Quel tema, finito nelle mani del collettivo della sua scuola, era stato affisso in bacheca con la scritta “Questo è il tema di un fascista”. E da quel momento Sergio Ramelli era stato ripetutamente oggetto di minacce e violenze. Fino all’agguato fatale di quel 13 marzo. A distanza di cinquant’anni, quella di Sergio Ramelli rimane una figura divisiva: un simbolo e un martire per coloro che condividono le sue idee e che a ogni anniversario della morte lo ricordano con la cerimonia del “Presente!”, oppure un fascista che, in quanto tale, anziché ricordato andrebbe rimosso. Ma chi era davvero Sergio Ramelli? Un picchiatore, com’è stato definito da coloro che cercano di giustificare i suoi aggressori? O uno studente come tanti che però aveva idee differenti da quelle della maggioranza dei suoi coetanei?

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Libro La famiglia Gentile. Lettere e fotografie 1900-1945

Trama libro

Della famiglia Gentile e soprattutto del filosofo Giovanni Gentile, si è scritto molto nell’ambito degli studi filosofici, della storia e delle scelte e vicende politiche, e molto c’è ancora da studiare, ma della sua vita personale, del suo essere padre, marito e nonno, è trapelato ben poco. Dopo la pubblicazione, nel 2018, delle Lettere alla fidanzata, che raccoglie la corrispondenza fra Erminia e Giovanni prima del loro matrimonio e in cui si possono rintracciare le speranze e il progetto di vita in comune che i due giovani desiderano realizzare, resta la curiosità di sapere cosa ne è stato di quel progetto e di quelle speranze, di quell’impegno a fondare una famiglia che dovesse rispecchiare le loro aspettative e i loro ideali. Questa cronaca della vita della famiglia Gentile la troviamo in questa nuova raccolta di lettere familiari che va dal 1900 al 1945. La corrispondenza dal 1900 al 1919 viene riassunta e citata nel prologo di questo volume: la nascita dei bambini, le nomine professionali, i trasferimenti sulle cattedre liceali e poi universitarie, le notizie agli amici, le malattie infettive, gli acquisti e i traslochi, le frequenze scolastiche. La prima bicicletta di Federico e il pianoforte di Teresina. I giochi avventurosi nel giardino di Villa Amato a Palermo dove i “grandi” proteggono e i “piccoli” seguono come una piccola truppa. Le vacanze al mare e le piccole gite; in breve, la vita quotidiana di una famiglia che cresce. La fittissima corrispondenza fra i genitori e i figli che va dal 1920 al 1944, invece, è stata qui trascritta senza censure né omissioni. Si tratta della testimonianza di un legame fortissimo fra i membri della famiglia, un dialogo costante che ha attraversato tutti i passaggi delle loro vite, da quelli felici a quelli difficili. Le lettere che i genitori e i sei figli si sono scambiati a partire dagli anni Venti, e che sono state amorosamente conservate e fatte circolare fra i figli da Erminia Gentile, moglie del filosofo, sono infatti lo specchio di un ventennio di cambiamenti e di fervore politico in Italia, a cui fa da contrappunto un ventennio di vicende familiari: il lavoro, gli studi, le vacanze, le raccomandazioni, le amicizie e gli amori, le espressioni di affetto e vicinanza. Scritte su tutte le carte intestate di casa, lettere, cartoline e biglietti diventano così il filo conduttore che collega i membri della famiglia nei vari passaggi delle loro vite attraversando i confini geografici, tenendo uniti genitori e figli e mostrando l’affetto e la grande solidarietà reciproca che li ha sempre uniti, nonostante le distanze. Vengono alla luce, così, le caratteristiche di tutti i membri della famiglia: la mamma Erminia, che dipinge dettagli di vita quotidiana pieni di colore e che si preoccupa di tenere tutti al corrente di quel che succede in casa; Giovanni sr., instancabile nel lavoro e nell’organizzazione culturale ma mai indifferente e anzi pieno di attenzioni e di consigli nei confronti di ciascun figlio; e poi i figli: Teresina, Federico, Gaetano e Giovannino, Benedetto, e Fortunato: ognuno preso prima dai propri studi, poi dal lavoro e infine dalla costruzione delle proprie famiglie e dalla guerra. La corrispondenza familiare è quasi un rifugio emotivo: le lettere diventano un modo di condividere le difficoltà e di sostenersi a vicenda attraverso le parole, di sentire le voci più care anche quando non è possibile essere vicini. La raccolta si conclude con gli anni Quaranta, quando le lettere diventano cronache di tempi difficili: la guerra mette a rischio molta parte delle certezze di tutti e in particolare Federico Gentile scrive prima dal fronte e poi da prigioniero. Ma mentre i timbri postali testimoniano la distanza tra i fronti di guerra e le mura domestiche, le parole scritte mantengono viva la speranza e la vicinanza e la certezza di poter trovare nella famiglia quel porto sicuro in cui ricevere sempre conforto e sostegno.

 

 

 

 

 

 

 

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