”Nietzsche rivive intensamente le emozioni e i pensieri dei Greci, e questo perché sente una profonda affinità con le loro forme espressive
IL SENSO DELLE PAROLE
Mi piacerebbe dire come Nietzsche: lasciate che un vecchio filologo vi riveda le bucce… O per lo meno mi ricordo così… è molto tempo che non riprendo in mano “Al di là del bene e del male”. E dovrei rifarlo. Presto. Ho bisogno… beh, di una boccata d’aria fresca.
Comunque, lui era di sicuro un filologo. Di formazione e per modo di procedere. Ma vecchio no. Era giovane. Giovanissimo, quando cominciò ad usare la filologia, ovvero l’attenzione al senso autentico delle parole, per scardinare il grande assurdo che si vela dietro alla banalità del quotidiano. Al modo di parlare, enfatico e vuoto, e tanto più vuoto quanto più enfatico, di cui ci riempiamo la bocca.
Io non sono giovane. Né davvero un filologo. Per lo meno non nel pieno senso nicciano del termine.
Però… sentendo certe parole, che oggi continuano a risuonare in ogni talk show, in ogni dibattito, nei cortei che si snodano per vie e piazze di tutta Italia… beh, mi viene voglia di provarci. A rivedere le bucce, intendo.
Dunque… sacrificio… martirio…
Sacer facere. Compiere un atto sacro. Quindi… sacrificare. In origine un’offerta agli Dei o al Dio. Che poteva diventare offerta della propria stessa vita. In battaglia, come fece secondo Livio, il console Decio Mure. Che andò volontariamente incontro alla morte per mano del nemico. Facendo voto che questo garantisse la vittoria alle armi di Roma.
Martirio… dal greco questa volta. Il Martyr è colui che testimonia. Una verità. Una fede. Incrollabile. Sino al sacrificio della vita.
Per il Cristianesimo i “martiri” erano inizialmente gli apostoli. Perché testimoni della verità di Cristo. Poi, per estensione coloro che accettarono la morte per testimoniare la verità.
Di qualsiasi fede. Tant’è che possono venire definiti tali i Kamikaze giapponesi, come gli shaid islamici. Perché, comunque, la loro è una scelta cosciente.
Certo, nel linguaggio comune “martirizzare” è divenuto sinonimo e rafforzativo di tormentare. Lo troviamo già in Pirandello, quando scrive che il povero Mattia Pascal veniva martirizzato dalla moglie.
Ma che c’entra tutto questo con una sventurata ragazza assassinata dall’ex fidanzato? Che avrebbe mai voluto testimoniare? O quale sacrificio avrebbe scelto di fare? Ha solo fatto l’errore, fatale, di scegliere l’uomo sbagliato. E di non evitare di rivederlo.
Non è martirio. Non è sacrificio. È sventura.
E veniamo all’abusato “patriarcato”, “società patriarcale”, “mentalità patriarcale”. Abusato con accezione negativa, soprattutto da improvvisate sociologhe e intellettuali neo-femministe di risulta.
Non entro nel merito di polemiche, che mi appaiono solo grottesche e, sostanzialmente, prive di pietas. E di rispetto per i morti.
Ma la società patriarcale è quella guidata da un Patriarca. Figura di origine biblica. Che è colui che amministra la giustizia all’interno della famiglia. E ne protegge tutti i componenti. Donne e uomini.
Che c’entra con la, cosiddetta, “violenza di genere”? Con quella che chiamano “cultura dello stupro”?
Vedete patriarchi o famiglie patriarcali in giro per l’Italia?
Io vedo solo famiglie disgregate, il vuoto degli affetti. Il deserto popolato da individui sempre più soli e disperati…
Ma qui mi fermo. Lascio il dibattito agli esperti della nuova (sub)cultura politicamente corretta. A me queste polemiche non interessano. Anzi, danno una sensazione di disgusto.
Stasera mi sono limitato a giocare a fare il filologo. E a rivedere qualche buccia. Sulle orme di Nietzsche.