La gobba solitaria di Giacomo Leopardi: fragilità fisica e grandezza intellettuale

IL SORRISO DI LEOPARDI

Marcello Veneziani


Il mondo intero della letteratura, della poesia e del pensiero italiano regge sulla gobba solitaria di Giacomo Leopardi. Tutto quel peso grava, come su un Atlante dal corpo fragile. Se vi guardate intorno, se chiedete ai ragazzi, Leopardi è l’unico superstite dal naufragio della letteratura dei secoli andati. Nemmeno Dante, Manzoni o Petrarca restano, solo lui resiste anche fuori dalla scuola. Non si salvano i Maestri dei secoli passati, eccetto lui, anche perché non è visto come un Maestro ma come un compagno di scuola. Di lui si celebrano perfino gli anniversari delle poesie, come l’Infinito, si citano i suoi versi; perché lui non abita i cieli del Medioevo o della Cristianità, è visto come un eterno ragazzo, in conflitto coi genitori, riflette il male di vivere dei fragili contemporanei, patisce la solitudine infelice di molti.

L’ultima occasione per la riscoperta di Leopardi è stata la fiction di Sergio Rubini mandata in onda nei giorni scorsi su Raiuno con buoni risultati d’ascolto, anche se maltrattata dai critici con malcelata acredine. Le fiction televisive sono quasi sempre inadeguate rispetto ai personaggi e ai temi che trattano: stucchevoli, didascaliche, banalmente laudative, mal recitate, con dialoghi spesso imbarazzanti; quella su Leopardi non è stata in fondo delle peggiori, anche nel paragone col “giovane favoloso” di Martone. Lo sceneggiato si avvaleva anche della consulenza letteraria di un vero poeta, Davide Rondoni, che a Leopardi dedicò un bel saggio.

Quando Rubini anticipò il suo film e annunciò un Leopardi senza gobba, sorridente, giovane, belloccio, amante della vita e delle donne, espressi su Panorama il mio dissenso. Se togliete a Leopardi la gobba, scrivevo, gli togliete la poesia; togliendogli il tormento e la sofferenza per il suo aspetto che fu determinante nella sua esistenza infelice, gli togliete la molla che lo condusse alla poesia e alla sua concezione tragica della vita e dell’universo. La gobba, la bassa statura, la bruttezza (le donne di cui s’innamorò lo descrivevano pure maleodorante) gli impedirono di vivere la vita nella sua pienezza; il suo fu un vitalismo tragico. Se amò la vita non ne fu ricambiato. Di tutto questo Leopardi nella fiction c’era solo la sua salute cagionevole che sembrava inspiegabile, appesa al nulla; non corrispondeva al suo aspetto. E anche l’ultimo Leopardi che aveva 39 anni ma ne dimostrava quasi il doppio (vedete a Recanati la sua maschera funeraria, sembra il calco del volto di Norberto Bobbio a ottant’anni), viene interpretato da un “ragazzino” col volto fresco e giovanile fino alla fine. A causa del suo aspetto deforme, i suoi desideri restarono frustrati, le donne non ricambiarono la sua passione, fu deriso nei salotti e per le strade, non solo a Recanati, il suo “natio borgo selvaggio” ma anche a Napoli, dove era bollato come “scartellato”, “ranavuottolo”.

Dopo aver letto quell’articolo, Rubini mi chiamò e disse che aveva voluto liberare Leopardi dai soliti cliché e voleva rappresentare tutto il suo amore per la vita, i suoi innamoramenti, la sua gioventù. In realtà togliendogli le ragioni reali, fisiche, e poi sociali della sua sofferenza, gli si toglieva tutta l’autenticità della sua vita e gli si strappava il fiore della disperazione che aveva sublimato nella poesia e nel pensiero poetante. E alcuni toni, notava Maurizio Caverzan, sembravano affibbiare al poeta un improbabile spirito sessantottino. Bene ha fatto Rubini a sottolineare la solitudine di Leopardi rispetto a chi voleva arruolarlo in gruppi e fremiti patriottici, che pure condivise da ragazzo, ma in disparte, vedendo l’Italia più come retaggio che come promessa futura. E giusto è aver sottolineato nei dialoghi la sua sfiducia nei cambiamenti, nel progresso e nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. Ma non si poteva prescindere dalla sua condizione reale; la sua stessa furiosa erudizione, il suo studio “matto e disperato” nascevano da quella frustrazione, da quella vita negata, piuttosto che dai divieti dell’arcigna madre o del retrivo padre (che bisognerebbe rivalutare). Giacomo aveva letteralmente sgobbato sulle “sudate carte” perché sublimava nell’amore per la cultura e per la conoscenza la gioia di vivere negatagli dalla sua condizione fisica deforme.

Sarebbe stato bello vedere nelle scene fiorentine del film l’incontro con Manzoni, con cui non si presero. Due poeti e scrittori, due conti, due amanti dell’Italia, restarono distanti e diffidenti, soprattutto Manzoni, all’epoca già celebrato autore dei Promessi sposi, più anziano di Leopardi a cui sarebbe sopravvissuto per altri 35 anni.

Francesco De Sanctis aveva già cercato di rivoltare il proverbiale “pessimismo cosmico” leopardiano, sostenendo in un passaggio bello e famoso ma non so quanto veritiero che descrivendo dolorosamente la vita Leopardi te la faceva amare e desiderare; “chiama illusioni l’amore, la gloria e la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto”; non crede alla libertà, al progresso e te li fa amare… e potremmo continuare fino a dire: non crede in Dio e te lo fa amare e desiderare. In realtà De Sanctis voleva riportare Leopardi nel cliché risorgimentale all’insegna dell’ottimismo storico e del moralismo edificante; del resto, De Sanctis non considerava Leopardi un pensatore, un filosofo, per lui era “solo” un letterato e un poeta (come farà pure Croce, diversamente da Gentile e più di recente da Severino). E questo lo rendeva più malleabile, perché senza un pensiero coerente, come uno spirito romantico ricco di contraddizioni.

Quanto al Leopardi ridente ne accennava pure De Sanctis. Non ancora ventenne lo studioso ebbe la fortuna di conoscere Leopardi nel palazzo Bagnara a Napoli. Grande attesa tra tutti i presenti della società letteraria napoletana. Leopardi entrò nel salone e, scrive De Sanctis, “quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità”. Infatti “non solo pareva uno come gli altri, ma al di sotto degli altri”. In quel volto emaciato “tutta la vita si era concentrata nella dolcezza del sorriso”. Un sorriso che faceva dimenticare, anzi nobilitava, la sua figura fisica, come “un disadorno ammanto”. Anche il poeta August von Platen, ricordava che quando vide Leopardi per la prima volta, dopo aver letto le sue poesie, provò “quasi una certa ripugnanza” per la sua figura ma “con una frequentazione più stretta, scompare tutto ciò che potrebbe conferire al suo aspetto esterno un carattere spiacevole”. E citava il suo sorriso come “la grazia del suo essere interiore”, che aveva “la capacità di conquistarti”. In quel sorriso non c’era la gioia di vivere ma la resa gentile alla vanità della vita e a tutto il dolore del mondo. Sorriso di abbandono al naufragio dell’esistenza; ma era così dolce quel sorriso nutrito di amarezza, così disarmante, così disponibile agli sguardi altrui che restava poi nella memoria come l’ultima traccia del suo fisico. Come scriveva Platone di Socrate, era brutto nell’aspetto ma come le statue dei sileni dentro di lui celava simulacri degli dèi. Così Leopardi. Spariva il suo corpo deforme, restavano il suo sorriso soave e la bellezza celeste dei suoi versi.

La Verità – 14 giugno 2024
La Verità – 12 gennaio 2025
Giacomo Leopardi.

 

 

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