”È soltanto uno degli innumerevoli giovani stipati nei vagoni destinati a trasportare il bestiame. Non avendo idea di dove fossero diretti, Lale ha indossato i suoi abiti consueti: un completo stirato, una camicia bianca pulita e la cravatta
Di solito i libri che hanno a che fare con la Seconda Guerra Mondiale o con l’Olocausto in particolare, sono difficili da trattare. Non si può dire lo stesso di questo libro che è complesso, pieno di amore e orrore allo stesso tempo. La storia è quella di un uomo coraggioso, Lale. Parla diverse lingue, ha una buona resistenza fisica e ha giurato a sé stesso di uscire vivo da quell’inferno chiamato Auschwitz.
Non esiste luogo in cui l’amore non possa vincere
«Lale cerca di non alzare lo sguardo. Allunga la mano e prende il pezzo di carta che gli viene porto. Deve trasferire le cinque cifre sulla ragazza che lo stringe. Quando ha terminato, la trattiene per un braccio un attimo più del necessario e la guarda negli occhi. Abbozza un sorriso timido e sforzato e lei risponde con un sorriso ancora più timido. Tuttavia gli occhi di lei gli danzano davanti. Mentre li fissa, sembra che il suo cuore allo stesso tempo smetta di battere e ricominci per la prima volta, impetuoso, minacciando quasi di scoppiargli fuori dal petto. Lale abbassa lo sguardo verso il suolo che oscilla sotto i suoi piedi. Quando risolleva lo sguardo, lei non c’è più.»
Ci saranno diversi incontri, tra paure, sussurri e corruzioni di ufficiali. Ma i due riusciranno a vivere il loro amore e per pochi attimi dimenticarsi della cenere che si sparge incessantemente sul campo di sterminio e degli spari in sottofondo. A tenerli uniti una promessa, quella di un futuro insieme. Ma come si fa a pensare al futuro in quelle condizioni?
Nel campo ci sono morte e crudeltà che cozzano con alcune immagini di vita quotidiana. Al tatuatore verrà chiesto di mettere su una squadra di calcio per giocare una partita contro le SS e addirittura i soldati, a volte, saranno capaci di compiere gesti umani, pietosi.
A Lale e Gita vengono rubati tre anni di vita che trascorrono tra Auschwitz e Birkenau. La prima notte Lale assiste a uno spettacolo agghiacciante, alcuni soldati, senza nessun apparente motivo, sparano a due prigionieri che stavano conversando.
Il tatuatore di Auschwitz è il libro del 2018 che nessun editore ha potuto lasciarsi scappare una storia così intensa da far vibrare le corde più profonde dell’animo. Una storia che presto diventerà un film. Il dolore che Lale e Gita hanno conosciuto e l’amore grazie al quale lo hanno sconfitto sono un insegnamento profondo: perché restano ancora molte verità da scoprire sull’Olocausto e non bisogna mai smettere di ricordare. Un romanzo sul potere della sofferenza e sulle luci della speranza. Su una promessa di futuro quando intorno tutto è buio.
La trama del romanzo
Il cielo di un grigio sconosciuto incombe sulla fila di donne. Da quel momento non saranno più donne, saranno solo una sequenza inanimata di numeri tatuati sul braccio. Ad Auschwitz, è Lale a essere incaricato di quell’orrendo compito: proprio lui, un ebreo come loro. Giorno dopo giorno Lale lavora a testa bassa per non vedere un dolore così simile al suo finché una volta alza lo sguardo, per un solo istante: è allora che incrocia due occhi che in quel mondo senza colori nascondono un intero arcobaleno. Il suo nome è Gita. Un nome che Lale non potrà più dimenticare. Perché Gita diventa la sua luce in quel buio infinito: racconta poco di lei, come se non essendoci un futuro non avesse senso nemmeno un passato, ma sono le emozioni a parlare per loro. Sono i piccoli momenti rubati a quella assurda quotidianità ad avvicinarli. Dove sono rinchiusi non c’è posto per l’amore. Dove si combatte per un pezzo di pane e per salvare la propria vita, l’amore è un sogno ormai dimenticato. Ma non per Lale e Gita, che sono pronti a tutto per nascondere e proteggere quello che hanno. E quando il destino tenta di separarli, le parole che hanno solo potuto sussurrare restano strozzate in gola. Parole che sognano un domani insieme che a loro sembra precluso. Dovranno lottare per poterle pronunciare di nuovo. Dovranno conservare la speranza per urlarle finalmente in un abbraccio. Senza più morte e dolore intorno. Solo due giovani e la loro voglia di stare insieme. Solo due giovani più forti della malvagità del mondo.
Come inizia
In memoria di Lale Sokolov.
Grazie per la fiducia che mi hai concesso
lasciandomi raccontare la storia tua e di Gita.
PROLOGO
Lale cerca di non alzare lo sguardo. Allunga la mano e prende il pezzo di carta che gli viene porto. Deve trasferire le cinque cifre sulla ragazza che lo stringe. C’è già un numero, ma si è sbiadito. Infila l’ago nel braccio sinistro e incide un 3, sforzandosi di agire con delicatezza. Dal braccio fuoriesce del sangue. L’ago, però, non è andato abbastanza a fondo e lui deve tracciare di nuovo il numero. Lei non batte ciglio al dolore che Lale sa di infliggerle. “Le hanno avvisate: non dite nulla, non fate nulla.”
Lale asciuga il sangue e sfrega dell’inchiostro verde nella ferita.
«Sbrigati!» lo esorta Pepan a bassa voce.
Lale ci mette troppo tempo. Tatuare le braccia degli uomini è un conto, ma profanare il corpo delle ragazze gli fa orrore. Alzando gli occhi, vede un uomo in camice bianco che passa in rassegna le giovani in fila. Ogni tanto si ferma a ispezionare il viso e il corpo di una ragazza terrorizzata. Alla fine arriva da Lale. Mentre questi stringe con quanta più delicatezza possibile il braccio della ragazza, l’uomo ne afferra il viso con una mano e lo gira bruscamente da un lato e dall’altro. Lale solleva lo sguardo verso quegli occhi spaventati. Le labbra della giovane stanno per muoversi, pronte a parlare, ma lui le strizza forte il braccio per fermarla. Lei lo guarda e lui bisbiglia: «Sst». L’uomo in camice bianco lascia andare la faccia e si allontana.
«Brava», sussurra Lale prima di tatuare le quattro cifre rimanenti: 4 9 0 2. Quando ha terminato, la trattiene per il braccio un attimo più del necessario e la guarda ancora negli occhi. Abbozza un sorriso timido e sforzato, al quale lei risponde con un sorriso ancora più timido. Tuttavia gli occhi di lei gli danzano davanti. Mentre li fissa, sembra che il suo cuore allo stesso tempo smetta di battere e ricominci per la prima volta, impetuoso, minacciando quasi di scoppiargli fuori dal petto. Lale abbassa lo sguardo verso il suolo che oscilla sotto i suoi piedi. Qualcuno gli allunga un altro pezzo di carta.
«Muoviti, Lale!» lo incalza Pepan.
Quando risolleva lo sguardo, lei non c’è più.
1.
aprile 1942
Il treno attraversa la campagna sferragliando, Lale tiene la testa alta e sta sulle sue. Il venticinquenne non vede motivo di attaccare bottone con l’uomo seduto accanto a lui, che ogni tanto si appisola sulla sua spalla. Lale non lo spinge via. È soltanto uno degli innumerevoli giovani stipati nei vagoni destinati a trasportare il bestiame. Non avendo idea di dove fossero diretti, Lale ha indossato i suoi abiti consueti: un completo stirato, una camicia bianca pulita e la cravatta. “Vestiti sempre per fare bella figura.”
Cerca di misurare lo spazio in cui è recluso. Il vagone è largo circa due metri e mezzo, ma non vedendo il fondo non sa valutarne la lunghezza. Tenta di contare gli uomini in viaggio con lui; con tante teste che ciondolano su e giù, però, alla fine ci rinuncia. Gli fanno male la schiena e le gambe, gli prude la faccia. La barba ispida gli ricorda che non fa il bagno da quando è salito a bordo due giorni prima. Si sente sempre meno sé stesso.
Quando gli altri tentano di coinvolgerlo in una conversazione, lui risponde con parole d’incoraggiamento e cerca di trasformare la loro paura in speranza. “Siamo nella merda, ma non affoghiamoci dentro.” Qualcuno mormora commenti ingiuriosi sul suo aspetto e sul suo modo di fare. Lo accusano di provenire da una classe agiata. «E adesso guarda un po’ che fine hai fatto.» Lui cerca di scrollarsi di dosso quelle parole e risponde alle occhiate con un sorriso. “A chi cerco di darla a bere? Sono spaventato come chiunque altro.”
Un giovane incrocia lo sguardo di Lale e si fa strada tra i corpi verso di lui. Alcuni uomini lo spintonano in avanti. “Lo spazio è tuo solo se lo fai tuo.”
«Come puoi restare così calmo?» gli chiede il giovane. «Avevano i fucili. Quei bastardi ci hanno puntato addosso dei fucili e ci hanno costretti a salire su questo… questo carro bestiame.»
Lale sorride. «Non me l’aspettavo nemmeno io.»
«Dove pensi che stiamo andando?»
«Non importa. Ricorda solo che siamo qui perché le nostre famiglie stiano al sicuro a casa.»
«E se invece…»
«Niente “se invece”. Io non lo so, tu non lo sai, nessuno di noi lo sa. Facciamo quello che ci dicono.»
«Non dovremmo cercare di sopraffarli quando ci fermiamo, visto che siamo in numero superiore?» Il volto pallido del giovane è distorto da un’aggressività confusa. Con le mani chiuse a pugno tira dei patetici colpi di boxe davanti a sé.
«Noi abbiamo i pugni, loro hanno i fucili: chi pensi che vincerà questa battaglia?»
Il giovane resta zitto. La sua spalla s’incunea nel torace di Lale, che sente l’odore di unto e di sudore nei suoi capelli. Abbassa le mani, che ora gli penzolano molli lungo i fianchi.
«Io sono Aron», dice.
«Lale.»
Attorno a loro altri si sintonizzano sulla conversazione, sollevando la testa verso i due uomini prima di ripiombare nelle loro fantasticherie silenziose e rifugiarsi in profondità ognuno nei propri pensieri. Ad accomunarli è la paura. E la giovinezza. E la religione. Lale cerca di tenere la mente sgombra da teorie su ciò che potrebbe aspettarli. Gli hanno detto che lo portano a lavorare per i tedeschi, ed è quello che intende fare. Pensa alla sua famiglia a casa. “Al sicuro.” Si è sacrificato, non ha rimpianti. Lo rifarebbe ancora e poi ancora, pur di mantenere a casa la sua adorata famiglia, unita.
Più o meno ogni ora qualcuno gli fa domande simili. Stancandosi, comincia a rispondere: «Aspetta e vedrai». È perplesso sul perché rivolgano a lui quelle domande. Non ha conoscenze particolari. Sì, indossa giacca e cravatta, ma è l’unica differenza visibile tra lui e il primo che passa. “Siamo tutti nella stessa barca schifosa.”
Nel vagone stipato non possono stare seduti, figurarsi coricati. Due secchi fanno da latrina. Una volta che questi sono pieni, scoppiano liti perché tutti cercano di allontanarsi dal tanfo, finché i secchi non si rovesciano, riversando fuori il loro contenuto. Lale si aggrappa alla sua valigia, e con i soldi e gli indumenti che ha spera, qualunque sia il luogo a cui sono diretti, di comprarsi una via di uscita o quanto meno di pagarsi un lavoro sicuro. “Forse ci saranno dei lavori in cui posso usare le mie lingue.”
Lale si sente fortunato ad aver trovato posto sul fianco del vagone. I pertugi sottili tra le assi gli consentono di scorgere la campagna attraversata dal treno. Rubando boccate d’aria fresca, riesce a tenere a bada le ondate montanti di nausea. Sarà anche primavera, ma le giornate sono colme di pioggia e nuvole pesanti. Di tanto in tanto passano davanti a campi incendiati da fiori primaverili e Lale sorride tra sé e sé. I fiori. Sin da piccolo ha imparato da sua madre che le donne li amano. Quando avrebbe regalato ancora dei fiori a una ragazza? Li abbraccia con lo sguardo, davanti agli occhi brillano i colori vivaci, campi interi di papaveri che ondeggiano alla brezza, una massa scarlatta. Giura a sé stesso che la prossima volta che regalerà dei fiori a qualcuno li raccoglierà personalmente. Non si era mai accorto che crescevano selvatici in così grande quantità. Sua madre ne aveva un po’ in giardino, ma non li coglieva mai per portarli dentro. Comincia a redigere una lista mentale delle cose da fare: “Quando torno a casa…”.
Scoppia un’altra zuffa. Un tafferuglio. Grida. Lale cerca di vedere che cosa succede, ma non ci riesce. Sente solo i corpi che si contorcono e spingono, poi il silenzio e, da qualche parte, le parole: «L’hai ucciso».
«Che culo che ha!» mormora qualcuno.
“Poveraccio… Io ci tengo troppo alla vita per finire in questo carnaio.”
Ci sono molte soste durante il viaggio, alcune di pochi minuti, altre di ore, sempre fuori da una città o da un villaggio. Ogni tanto Lale riesce a sbirciare il nome delle località mentre sfrecciano attraverso le stazioni: Ostrava, una città vicino al confine tra la Cecoslovacchia e la Polonia; Pszczyna, che gli conferma che effettivamente sono in Polonia. La domanda senza risposta: dove si fermeranno? Lui trascorre la maggior parte del viaggio perso nei suoi pensieri, ricordando la sua vita a Bratislava: il lavoro, l’appartamento, gli amici… le amiche, in particolare.
Il treno si ferma ancora. È buio pesto, le nuvole oscurano completamente la luna e le stelle. L’oscurità è presagio del loro futuro? “Le cose sono come sono. Quello che vedo, sento, odo e odoro proprio adesso.” Vede solo uomini come lui, giovani e in viaggio verso l’ignoto. Sente il brontolio di stomaci vuoti e il raschio di trachee secche. Sente il puzzo di piscio e di merda e gli odori corporei di persone che non si lavano da troppo tempo. Tutti approfittano del fatto di non essere sballonzolati per riposare senza dover spintonare in cerca di un po’ di spazio. Ora più di una testa si posa su Lale.
Rumori forti provengono da alcuni vagoni più indietro e a poco a poco si avvicinano. Laggiù qualcuno ne ha avuto abbastanza e tenta la fuga. Il baccano degli uomini che si lanciano contro le paratie di legno del vagone e i colpi dati con quello che dev’essere uno dei secchi per la merda svegliano tutti. Nel giro di poco tempo ogni vagone è assaltato dall’interno.
«Aiutami o levati di torno», urla a Lale un uomo grande e grosso mentre si scaglia contro il fianco del vagone.
«Non sprecare le tue energie», ribatte Lale.
Parecchi compagni interrompono i loro sforzi e si girano furiosi verso di lui.
«Se queste pareti si potessero sfondare, non credete che una mucca l’avrebbe già fatto?»
Gli uomini riflettono sulla sua osservazione. Il treno sobbalza in avanti. Chiaramente i responsabili hanno deciso che il movimento avrebbe soffocato la sommossa. I vagoni si calmano. Lale chiude gli occhi.
Lale era tornato a casa dei genitori, a Krompachy, in Slovacchia, a seguito della notizia che nelle cittadine gli ebrei venivano rastrellati e deportati per lavorare per i tedeschi. Sapeva che non avevano più il permesso di lavorare e che le loro aziende erano state confiscate. Per quasi quattro settimane aveva dato una mano in casa, riparando oggetti con il padre e il fratello, costruendo nuovi letti per i nipotini, troppo cresciuti per le loro culle. Sua sorella era l’unico membro della famiglia che guadagnava qualcosa, lavorando come sarta. Doveva andare al lavoro di nascosto prima dell’alba e tornare dopo il tramonto. Il suo capo era disposto ad assumersi questo rischio per la sua dipendente migliore.
Una sera rientrò a casa con un manifesto che il suo capo avrebbe dovuto affiggere in vetrina. Esigeva che ogni famiglia ebrea consegnasse un figlio di età superiore ai diciotto anni affinché lavorasse per il governo tedesco. I sussurri e le voci su ciò che accadeva in altre città arrivarono infine a Krompachy. Sembrava che il governo slovacco stesse ulteriormente acconsentendo alle richieste di Hitler, dandogli ciò che voleva. Una frase in grassetto sul manifesto ammoniva che se una famiglia aveva un figlio di quell’età e non lo consegnava, tutta la famiglia sarebbe stata deportata in un campo di concentramento. Max, il fratello maggiore, aveva detto subito che sarebbe andato lui, ma Lale non ne voleva sapere. Max aveva una moglie e due bambini piccoli, che avevano bisogno di lui. E, data la salute cagionevole del padre, anche alla madre e alla sorella serviva un aiuto.
Lale si era presentato all’ufficio governativo locale di Krompachy e si era offerto per essere deportato. I funzionari con cui ebbe a che fare erano stati suoi amici: erano andati a scuola insieme e conoscevano le rispettive famiglie. A Lale fu detto di recarsi a Praga, presentarsi all’ufficio del governo preposto e attendere ulteriori istruzioni.
Dopo due giorni il carro bestiame si ferma di nuovo. Stavolta fuori c’è una grande confusione. I cani abbaiano, qualcuno sbraita ordini in tedesco, i catenacci vengono sganciati e i portelloni si aprono con un clangore.
«Scendete dal treno, lasciate lì i vostri effetti personali», gridano i soldati. «Veloci, veloci, sbrigatevi! Lasciate a terra le vostre cose!» Trovandosi in fondo al vagone, Lale è uno degli ultimi a scendere. Avvicinandosi all’uscita scorge l’uomo ucciso due giorni prima. Chiude gli occhi e prende atto della sua morte recitando una breve preghiera. A spingerlo fuori dal vagone è il fetore che gli impregna gli indumenti, la pelle, ogni fibra del suo essere. Atterra flettendo le ginocchia, tocca la ghiaia con le mani e resta accucciato per parecchi istanti. Boccheggia esausto, dolorosamente assetato. Alzandosi adagio, guarda attorno a lui le centinaia di giovani spaventati che cercano di comprendere la scena che si svolge davanti a loro. I cani azzannano e mordono chi è lento a muoversi. Molti inciampano, con i muscoli delle gambe che si rifiutano di funzionare dopo giorni di mancato uso. Valigie, pacchi di libri, magri averi vengono strappati a quelli che non vogliono cederli o che, semplicemente, non capiscono gli ordini. Poi vengono colpiti da un pugno o da un fucile. Lale studia gli uomini in uniforme. Neri e minacciosi. I due fulmini gemelli sul colletto delle giacche gli rivelano con chi ha a che fare. Le SS. In altre circostanze avrebbe apprezzato il lavoro di sartoria, la finezza del tessuto, la precisione del taglio.
Appoggia la valigia a terra. “Come faranno a sapere che questa è la mia?” Con un brivido si rende conto che difficilmente rivedrà il bagaglio o il suo contenuto. Si porta la mano al cuore, al denaro nascosto nella tasca della giacca. Scruta il cielo, inspira l’aria fresca e pulita e si dice che, se non altro, è all’aperto.
Uno sparo risuona e Lale sobbalza. Davanti a lui c’è un ufficiale delle SS, con l’arma puntata verso il cielo. «Muovetevi!» Lale si gira e guarda il treno vuoto. Il vento fa volare via i vestiti e sfoglia i libri. Arrivano parecchi camion e dei ragazzini saltano giù. Raccolgono lesti gli oggetti abbandonati e li buttano nei camion. Lale sente che un peso gli si posa tra le scapole. “Mi spiace, mamma, si sono presi i tuoi libri.”
Marciano verso gli edifici di mattoni rosa con grandi finestre che si stagliano davanti a loro. Due file di alberi costeggiano il viale d’ingresso, sormontati dalle lussureggianti chiome primaverili. Quando Lale varca i cancelli aperti in ferro battuto, alza lo sguardo e vede le parole tedesche modellate nel ferro.
ARBEIT MACHT FREI
Il lavoro rende liberi.
Non sa dove si trova o quale lavoro dovrà svolgere, ma l’idea che questo lo renda libero gli sembra una specie di macabro scherzo.
SS, fucili, cani, i suoi averi rubati… tutto questo richiede un ripensamento.
«Dove siamo?»
Lale si gira e vede che Aron è tornato al suo fianco.
«Alla fine del viaggio, direi.»
Aron si rabbuia in viso.
«Fai quello che ti dicono e andrà tutto bene.» Sa di non suonare troppo convincente. Rivolge un sorriso veloce ad Aron, che lo contraccambia. In silenzio Lale si dice di seguire il suo stesso consiglio: “Fai quello che ti dicono. E osserva sempre”.
Una volta entrati nel recinto del campo, gli uomini vengono distribuiti in due linee rette. A capo della fila di Lale c’è il volto pesto di un recluso, seduto a un tavolino. Indossa una giacca e pantaloni a strisce verticali blu e bianche, con un triangolo verde sul petto. In piedi dietro di lui, un ufficiale delle SS con il fucile spianato.
In cielo appaiono le nubi e, da lontano, il fragore dei tuoni. Gli uomini aspettano.
Arriva un superiore, scortato da un manipolo di soldati. Ha la mascella squadrata, labbra sottili e occhi sormontati da folte sopracciglia nere. La sua uniforme è semplice rispetto a quella di chi lo protegge. Niente fulmini. Il suo atteggiamento mostra che è lui che comanda.
«Benvenuti ad Auschwitz.»
Lale ascolta incredulo quelle parole uscite da una bocca che si muove a malapena. Dopo che l’hanno costretto ad abbandonare casa sua, dopo che l’hanno trasportato come un animale, circondato da SS armate fino ai denti, ora gli danno il benvenuto. Il benvenuto!
«Io sono il comandante Rudolf Höss. Sono il responsabile di Auschwitz. I cancelli che avete appena varcato dicono “Il lavoro rende liberi”. Questa è la vostra prima lezione, l’unica vostra lezione. Lavorate duro. Fate quello che vi si dice, e sarete liberi. Disobbedite, e ne pagherete le conseguenze. Sarete registrati qui e poi trasferiti nella vostra nuova casa, Auschwitz II – Birkenau.»
Il comandante scruta i loro volti. Sta per dire qualcos’altro ma è interrotto da un rumoroso rombo di tuono. Guarda verso il cielo, mormora a bassa voce qualche parola, liquida gli uomini con un gesto della mano e si gira per andarsene. Lo spettacolo è finito. La sua scorta di sicurezza si affretta a seguirlo. Uno spettacolo maldestro, ma comunque intimidatorio.
La registrazione comincia. Lale osserva i primi prigionieri che vengono sospinti verso i tavoli. È troppo lontano per sentire i primi scambi di battute, ma vede gli uomini in pigiama seduti che trascrivono i dettagli e poi porgono a ogni nuovo arrivato una piccola ricevuta. Finalmente è il suo turno. Deve fornire nome, indirizzo, occupazione e generalità dei genitori. L’uomo emaciato al tavolo trascrive le risposte con una calligrafia ordinata e svolazzante e dà a Lale un pezzo di carta con sopra un numero. Durante tutto il tempo l’uomo non alza mai la testa per incrociare il suo sguardo.
Lale guarda il numero. È il 32407.
Procede strascicando i piedi e segue il flusso di uomini diretti a un’altra serie di tavoli, dove un altro gruppo di prigionieri porta il triangolo verde, e dove ci sono altre SS. Il bisogno di acqua minaccia di travolgerlo. Assetato ed esausto, è sorpreso quando gli prendono di mano il pezzo di carta. Un ufficiale delle SS gli toglie la giacca, gli strappa la manica della camicia e gli mette l’avambraccio sinistro sul tavolo. Lale osserva incredulo mentre gli incidono i numeri 32407 nel braccio, uno dopo l’altro. Il pezzo di legno con dentro un ago si muove rapido, facendogli male. Poi l’uomo prende uno straccio imbevuto d’inchiostro verde e lo sfrega alla bell’e meglio sulla ferita.
Il tatuaggio è durato pochi secondi, ma lo shock di Lale ha fermato il tempo. Si afferra il braccio, fissa il numero. “Come si può fare una cosa del genere a un altro essere umano?” Si chiede se il resto della sua vita, breve o lunga che sia, sarà definito da questo momento e da quel numero irregolare: 32407.
Uno spintone dato col calcio del fucile interrompe lo stato di trance di Lale, che raccoglie la giacca da terra e barcolla in avanti, seguendo gli uomini davanti a lui fino a un grande edificio di mattoni con una fila di panchine addossate ai muri. Gli ricorda la palestra della scuola di Praga dove ha dormito cinque giorni prima di iniziare il viaggio che l’ha portato lì.
«Spogliatevi.»
«Più veloci, più veloci!»
Le SS abbaiano ordini che la maggior parte degli uomini non capisce. Lale traduce per quelli vicino a lui che, a loro volta, fanno circolare le sue parole.
«Lasciate i vestiti sulla panchina. Li ritroverete dopo aver fatto la doccia.»
Subito dopo il gruppo si toglie i pantaloni e le camicie sudice, le giacche e le scarpe, ripiega gli indumenti e li posa ordinatamente sulle panchine.
Lale si rianima al pensiero dell’acqua, ma sa che probabilmente non rivedrà i suoi abiti, né il denaro che c’è dentro.
L’indignazione minaccia di sopraffarlo. Si toglie i vestiti e li mette sulla panchina. Dalla tasca dei pantaloni prende un pacchetto sottile di fiammiferi, un ricordo dei piaceri del passato, e lancia un’occhiata furtiva all’ufficiale più vicino, che guarda da un’altra parte. Lale accende un fiammifero. Questa potrebbe essere l’ultima azione che compie di sua spontanea volontà. Avvicina il fiammifero alla fodera della giacca, lo copre con i pantaloni e si affretta a raggiungere la fila di uomini alle docce. Dietro di lui, nel giro di pochi secondi, sente qualcuno gridare: «Al fuoco!». Lale si gira, vede uomini nudi che sgomitano e spintonano per allontanarsi dalle fiamme mentre un ufficiale delle SS cerca di spegnerle.
Non ha ancora raggiunto le docce, ma sente che sta tremando. “Che cosa ho combinato?” Ha passato parecchi giorni a dire a tutti di tenere la testa bassa, di fare quel che si diceva loro, di non contrapporsi a nessuno, e adesso ha appiccato un dannato incendio in un edificio. Non ha molti dubbi su ciò che succederebbe se qualcuno lo additasse come piromane. “Stupido, stupido.”
Nel blocco delle docce si calma, respira a fondo. Centinaia di uomini tremanti stanno spalla a spalla mentre l’acqua piove loro addosso. Piegano la testa all’indietro e la bevono disperatamente, nonostante puzzi. Molti cercano di diminuire la propria vergogna coprendosi i genitali con le mani. Lale si lava via il sudore, la sporcizia e il fetore dal corpo e dai capelli. L’acqua sibila nei tubi e martella il pavimento. Quando smette, le porte si riaprono verso lo spogliatoio e, senza che nessuno glielo ordini, tornano verso quello che ora ha sostituito i loro indumenti: vecchie uniformi e stivali dell’esercito russo.
«Prima di rivestirvi dovete andare dal barbiere», dice un ufficiale delle SS con un sogghigno. «Fuori, in fretta!»
Tutti si rimettono in fila. Si dirigono verso un prigioniero che li aspetta con un rasoio. Quando è il suo turno, Lale si siede sulla sedia con la schiena dritta e la testa rivolta verso l’alto. Osserva gli ufficiali delle SS che camminano lungo la fila, aggredendo i prigionieri nudi con la punta delle loro armi, insultandoli e ridendo con crudeltà. Lale assume una posizione ancora più eretta e solleva ancora di più la testa mentre i capelli vengono ridotti a stoppia, senza battere ciglio quando qui e là il rasoio gli taglia il cuoio capelluto.
Uno spintone nella schiena assestato da un ufficiale indica che ha finito. Lale si accoda alla fila che ritorna alle docce. Insieme con gli altri cerca indumenti e scarpe di legno della misura giusta. Quello che c’è è sporco, macchiato e di ogni misura, ma lui riesce a trovare delle scarpe che più o meno gli cal zano e spera che le uniformi russe che pesca gli vadano bene. Una volta vestito esce dall’edificio come gli viene ordinato.
Si sta facendo buio. Cammina sotto la pioggia, uno tra innumerevoli uomini, per quello che sembra un tempo lunghissimo. Il fango diventa più denso e gli rende difficile alzare i piedi, ma lui incede con determinazione. Quando alcuni suoi compagni faticano o cadono sulle mani o in ginocchio vengono picchiati finché non si rialzano. Se non lo fanno vengono uccisi con uno sparo.
Lale cerca di staccarsi dalla pelle l’uniforme pesante e inzuppata. Lo pizzica e lo irrita, e l’odore di lana bagnata e terriccio lo riporta al carro bestiame. Solleva gli occhi al cielo, cercando di inghiottire più pioggia possibile. Quel sapore dolce è quanto di meglio gli sia capitato da giorni, l’unica cosa che ha avuto, capace di alleviare la sete che aumenta la stanchezza e confonde la vista. Lui la manda giù. Con le mani a coppa beve rumorosamente e avidamente via via che piccole quantità di acqua vi si raccolgono. In lontananza vede dei riflettori che circondano una vasta area. Nel suo stato di semidelirio gli sembrano fari che lampeggiano e danzano nella pioggia mostrandogli la strada verso casa. Lo chiamano: Vieni da me, ti darò riparo, calore e nutrimento. Continua a camminare. Ma quando varca i cancelli – e questi non recano nessun messaggio, nessuna promessa di libertà in cambio di duro lavoro – Lale si rende conto che il miraggio scintillante è svanito. È in un’altra prigione.
Oltre quel cortile c’è un complesso di edifici che affonda nell’oscurità. La sommità delle recinzioni è rivestita di filo spinato. Sulle torrette di guardia Lale vede delle SS che puntano i fucili verso di lui. Un fulmine colpisce una recinzione lì vicino. “Sono elettrificate.” Il tuono non è abbastanza forte da soffocare il rumore di uno sparo… un altro uomo che cade.
«Ce l’abbiamo fatta.»
Lale si gira e vede Aron che si fa strada verso di lui. Fradicio, malridotto. Però vivo e vegeto.
«Sì, a quanto pare siamo arrivati a casa. Come sei conciato!»
«Perché non ti sei visto tu. Considerami uno specchio.»
«No, grazie.»
«Che cosa succede, adesso?» chiede Aron, con il tono di un bambino bisognoso di attenzioni.
Seguendo il flusso costante di uomini, entrambi mostrano il braccio tatuato a un ufficiale delle SS che, in piedi davanti a un edificio, registra il numero su una cartella. Con un poderoso spintone nella schiena Lale e Aron si ritrovano nel Blocco 7, una grande baracca con tre piani di pagliericci addossati a una parete. Decine di uomini vengono costretti a entrare. Si accapigliano e si fanno avanti sgomitando per conquistarsi uno spazio. Se sono abbastanza fortunati o aggressivi, riescono a condividerlo solo con una o due persone. La fortuna non è dalla parte di Lale. Lui e Aron si arrampicano all’ultimo piano di un letto che è già stato occupato da altri due prigionieri. Siccome non mangiano da giorni, non hanno molta forza per respingerli. Lale si raggomitola meglio che può sul sacco pieno di paglia che fa da materasso. Si preme le mani sullo stomaco nel tentativo di soffocare i crampi che gli invadono la parte inferiore dell’intestino. Parecchi uomini gridano alle guardie: «Abbiamo bisogno di cibo!».
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L’autrice
Heather Morris, nata nel 1953 in Nuova Zelanda, vive e lavora a Melbourne in Australia. Autrice di sceneggiature, ha deciso di volgersi alla narrativa per raccontare la commovente storia di Lale Sokolov. Il tatuatore di Auschwitz è il suo romanzo d’esordio: dopo lo straordinario interesse suscitato alla Fiera di Londra del 2017 è stato venduto in tutt’Europa ancora prima della pubblicazione.
- Il tatuatore di Auschwitz
- Heather Morris
- Traduttore: Stefano Beretta
- Editore: Garzanti
- Collana: Narratori moderni
- Anno edizione: 2018
- In commercio dal: 18 gennaio 2018
- Pagine: 208 p., Rilegato
- EAN: 9788811675976. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/tatuatore-di-auschwitz-libro-heather-morris/e/9788811675976″ btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista € 17,00[/btn]