”Ormai, sono tutti vittime di qualcosa
IL TEMPO EQUIVOCO DELLA VITTIMISTICA
Tra le varie questioni che intorbidano il pensiero e l’etica di questa equivoca post-modernità è il cosiddetto “ruolo della vittime”, che la psicoanalista Caroline Eliacheff e l’avvocato Daniel Soulez Larivière definiscono, in un saggio assolutamente da leggere – Il tempo delle vittime –(1), come “i nuovi eroi della società democratica contemporanea”.
Qui, ormai, sono tutti vittime di qualcosa – dell’odio, della discriminazione, della fame, del cambiamento climatico, dell’intolleranza e via via vittimizzando –, mentre nessuno più è responsabile di niente. I due rapinatori uccisi, vittime della ferocia del rapinato, come se il fatto di essere stati uccisi fosse solo un deprecabile incidente sul lavoro da risarcire con un congruo indennizzo ai familiari. Vittima è lo spacciatore, per mancanza di mezzi di sussistenza. Vittima è lo stupratore, per difetto di strumenti culturali o di abusi subiti trent’anni prima. “La compassione sembra favorire la democrazia”, e in molti casi è al funerale che la rappresentazione democratica è condensata nella doglianza diffusa e condivisa.
Il fatto umanamente più scandaloso è la messa in ombra della vera vittima – come Giulia Cecchettin, ad esempio, unico soggetto che avrebbe tutti i diritti di rivendicarlo come ruolo – e l’uso esibizionistico della ragazza stessa attraverso la recita mediatica di chi ha la pretesa narcisistica di essere protagonista senza essere neppure l’ultima comparsa.
“L’esibizione privata nello spazio pubblico non ha più limiti”, e la morte, meglio ancora se violenta, è il più efficace dispositivo della partecipazione emotiva e sentimentale della massa.
In certi casi, poi, proprio a causa “di una cultura sempre più vittimaria” si esaspera l’evento “al fine di trarre vantaggi politici”. L’uccisione del bandito diventa il motivo di attaccare la legittima difesa; lo spacciatore giustifica la legalizzazione delle droghe e denuncia lo Stato inadempiente; il borseggiatore smaschera l’inefficienza del sistema sociale; il femminicidio – termine politico e non giuridico – denuncia il patriarcato.
Insomma, nella squallida teatralizzazione delle tragedie, vittime e persecutori si confondono in una melassa indistinta e irresponsabile; tutti a sgomitare per “occupare un posto nella società che solo la catastrofe vissuta giustifica”.
I colpevoli? Nessuno. Le pene? Vaghe. Le soluzioni? Non pervenute.
E così, mentre “Niente può opporsi alla domanda del pubblico di commuoversi, di ripiegarsi su di sé maledicendo l’ingiustizia della natura e la cattiveria di alcuni mentre si compatiscono gli altri per la loro disgrazia”, la responsabilità individuale si diluisce in quella collettiva divisione tra vittime e colpevoli: le prime, dedite al riconoscimento del piagnisteo; i secondi, obbligati ad un indistinto pentimento, magari validato da qualche supporto psichiatrico.
La farsa continua senza decoro, l’ingiustizia segue il suo corso, l’anomia continua a metastatizzare l’ultimo residuo di società.
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Descrizione
Nella società democratica, alla figura della vittima spetta ormai il ruolo che un tempo era proprio dell’eroe. È questa la constatazione da cui prende le mosse l’analisi della psicanalista Caroline Eliacheff e dell’avvocato Daniel Soulez Larivière. I due autori hanno condiviso le loro competenze e le loro esperienze per indagare l’attuale fenomeno dell’onnipresenza delle vittime nella società contemporanea. La tesi è semplice ma, prima d’ora, nessuno era mai riuscito a illustrarla così chiaramente. Dagli anni ottanta si è fatto strada, perlomeno nelle democrazie occidentali, l’atteggiamento vittimistico per cui una persona – o un gruppo – quando subisce un danno o un torto non solo chiede un risarcimento concreto ma diventa un simbolo carico di emotività, capace di sottomettere alla sua volontà tutti gli ingranaggi istituzionali e politici di una nazione. E se questa è la diagnosi dello stato di salute della nostra società, la prognosi è gravissima: di questo passo si può arrivare a distruggere la democrazia, e le stesse vittime, almeno quelle vere, non ne ricavano un reale vantaggio. Stiamo consegnando la nostra civiltà all’irrazionalità di un approccio emotivo e allo strapotere dei media, che sulle emozioni costruiscono audience. È per questo che i due autori di questo libro si sono assunti il rischio di parlare delle vittime con un tono diverso da quello della compassione.
Davide
10 Dicembre 2023 a 11:27
Solo io sono così pazzo da credere che sia tutta una messinscena? Ci sono veramente troppe stranezze oltre alle reazioni anomale dei familiari e degli amici: gli articoli che parlano dell’aggressione mostrano foto dove le macchie non assomigliano nemmeno a quelle lasciate dal sangue, è sparito il sangue dall’auto, è sparito Turetta, l’immagne dell’auto diffusa dai media è sgranatissima, c’è lo strano tempismo nel proporre l’educazione affettiva nelle scuole come se fosse tutto pronto. E poi il fatto abbastanza sospetto che la presidente della commissione di inchiesta sul femminicidio Martina Semenzato sia di Padova (casualmente) e, secondo voci da verificare, già conoscente del padre di Giulia.
Perché si sarebbe dovuto costruire un caso del genere, direte voi, quando muoiono così tante donne ammazzate? Perché doveva partire il tam tam mediatico entro il 25 novembre, ma l’ultimo femminicidio commesso da un italiano è stato quello di Annalisa D’Auria e risaliva al 28 ottobre (ho specificato la nazionalità perché sappiamo benissimo che per il mainstream i delitti commessi da stranieri non sono “spendibili”). Il mantra deve essere “muore una donna ogni 3 giorni”. Un caso risalente a 3 settimane indietro lo contraddice, ed è troppo lontano nel tempo per dare una sensazione di emergenza che giustifichi le intromissioni nell’educazione scolastica.
Davide
10 Dicembre 2023 a 13:32
Mi correggo: Martina Semenzato è di Venezia. Ha frequentato l’università di Padova.