Per lo Stato accrescere indefinitamente il proprio Pil è assurta a mantra religioso
IL TOTEM DELLA CRESCITA: LO SVILUPPO ECONOMICO E LE SUE OMBRE
Nel moderno Zeitgeist il concetto di crescita economica merita una demistificazione pena cadere in forme di economicismo e di culto di un feticcio culturale al servizio di ideologie politiche che mirano ad una conferma dello status quo.
1. Introduzione: perché occorre problematizzare la crescita economica
Nel mondo contemporaneo la necessità per lo Stato di accrescere indefinitamente il proprio Pil è assurta a mantra religioso per una pletora di economisti neoliberali smaniosi di decantare le lodi del mercato. La crescita viene invocata per risolvere i più diversi problemi. Essa diviene così la chiave di volta per superare ogni difficoltà, vera o presunta: c’è una crescita su misura per le criticità più irriducibili, la religione economica neoliberistica officia i suoi rituali inneggiando ad essa come un sacerdote inneggia a entità metafisiche sulla cui esistenza abbiamo da dubitare.
Tutto questo malgrado un rapporto Oxfam del 2019 (in particolare il rapporto Carbon billionaires. The investment emissions of the world’s richest people) ci abbia avvertito di come siano proprio i più ricchi a inquinare maggiormente e altri dati mostrino come il trend storico di tali paesi non consenta di deresponsabilizzarci attribuendo la responsabilità maggiore dell’impronta ecologica ai paesi del Sud del mondo. E senza considerare, aggiungeremo noi, che paesi come il gigante asiatico cinese stanno affrettandosi a ridurre il loro utilizzo del fossile a vantaggio di forme di energia più pulita, rompendo con l’immagine sinofoba propria dei padroni del vapore occidentali e dei loro referenti politici. Ancora, la crescita economica non assicura alcuna possibilità di un suo futuribile disaccoppiamento con lo sviluppo umano e sociale, come amano raccontare certi economisti mainstream, perché secondo il paradosso di Jevons e la legge dei rendimenti decrescenti l’efficienza tecnica tanto sbandierata dagli aedi dello sviluppo ha dei limiti (anche ecologici) ben precisi, i periodi storici di disaccoppiamento reale sono microscopici e non sussistono prove di una realizzazione sul piano concreto del decoupling su larga scala e in termini assoluti (come si evidenzia nel report ricco di dati utile a smontare tale affabulazione Decoupling debunked dell’European Environmental Bureau, che raduna più di 140 organizzazioni ambientaliste).
2. Il mercato autoregolato, un’invenzione recente. Polanyi e l’alba del sistema mercatista.
Scopo delle ricerche polanyiane è quello di restituire all’economia la sua dimensione storico-culturale, nel suo essere stata sempre «processo interattivo istituzionalizzato che serve alla soddisfazione dei bisogni materiali» (K. Polanyi, La sussistenza dell’uomo) prima ancora di una scienza asettica con delle leggi presuntivamente immutabili. L’economia difatti ha delle radici comunitarie, il suo essere interattiva nel senso di avere movimenti ubicativi (trasporto di oggetti, spostamento di uomini nelle attività sociali tanto nella caccia quanto nello spostamento su arterie ferroviarie ecc.) e appropriativi (vale a dire mutamenti nella sfera della proprietà) che assicurano alla specie umana la sopravvivenza mediante istituzioni che ne rafforzino i legami sociali dotandola di una struttura stabile.
Per Polanyi l’ideale economico neoclassico di una obiettivizzazione simil-scientifica dell’economia cede il posto ad un’analisi storica mossa dalle varie forme istituzionali economiche, passando il testimone ad uno studio delle varie modalità di incorporazione sociale (embeddedness) dell’economia nel contesto comunitario di riferimento.
La prima forma di integrazione economico-sociale (non in senso cronologico) è imperniata sulla reciprocità tra le parti sociali in condizione di parità, come nel dono e controdono dell’istituto del kula trobriandese (K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca; Id., La sussistenza dell’uomo). Nel secondo genere di integrazione economico-sociale assistiamo invece ad un movimento di beni e servizi secondo una logica di accentramento, con un centro che li ridistribuisce su più vasta scala rispetto alla rigorosa simmetria che caratterizza la forma di integrazione o il modo di allocazione delle risorse fondato sulla reciprocità (può redistribuire una famiglia influente, un’amministrazione imperiale, ecc.). Per finire, con lo scambio abbiamo una forma di integrazione socioeconomica connotata dalla bilateralità orientata al guadagno, le cui origini più antiche sono rintracciabili nel baratto.
Proprio la generalizzazione dello scambio dalla posizione subordinata al plesso comunitario dove era stata relegata nei tempi antichi comporterà la nascita di un’antropologia filosofica informata dall’individualismo. Con l’utopia liberal del mercato autoregolato, la costruzione di leggi ed organismi politici specifici atti ad assicurarne il funzionamento, il mercato era pronto così ad assumere una sempre maggiore centralità: il commercio, liberandosi dai vincoli sociali, finiva per capovolgere il rapporto tra l’uomo e l’attività economica come strumento di autosussistenza. Nel sistema di mercato, la terra, considerata nelle epoche precedenti il fondamento dell’organizzazione comunitaria, finisce per essere un prodotto senza legami sociali; il lavoro, come attività parte dell’esistenza umana, viene reso calcolabile; la moneta da strumento per scopi delimitati diventa una merce, un prodotto per la compravendita come ogni altro elemento del sistema economico, il quale perde la sua consustanziale politicità per diventare disembedded in un duplice movimento che da un lato allarga la presa del mercato e dall’altro produce sconvolgimenti sociali al suo passaggio e fenomeni resistenziali da parte della società che se ne sente attaccata.
Una resistenza estrema a questo carattere distruttivo dell’estendersi sempre maggiore del mercato autoregolato era data da forme di sussidio quali la Speenhamland Law (invalsa in Inghilterra dal 1795 al 1834) che rappresentarono goffi tentativi di autoprotezione sociale dall’assedio mercatistico. Questa legge prevedeva un leggero aiuto economico e inaugurava il singolare “diritto alla vita” per il povero deprivato della base comunitaria di riferimento già erosasi al tempo della privatizzazione dei terreni. Il sussidio però legò ancora di più alla povertà gli indigenti e divenne motivo del blocco salariale da parte dei datori di lavoro, finendo in un fallimento rovinoso (si preferì il sussidio al lavoro) e consegnando al mercato e alle sue logiche la popolazione britannica, che fu indotta a pensare che fosse preferibile una più moderna organizzazione del mercato a un simile aiuto paternalistico. A quel punto la società inglese precipitò nel sistema mercatista con la Poor Law Reform del 1834 che dissolse ogni forma di tutela per il povero e diede inizio a una proletarizzazione di massa. In parallelo, si consolidò l’economia politica, che giustificò ideologicamente il cambiamento di regime sociale in atto naturalizzando le leggi del modo di produzione mercatistico e costruendo teoremi sull’equivalenza della ricchezza al valore e sulla valorizzazione dell’interesse, ecc.
In questo modo l’uomo e il suo spazio sociale finivano fagocitati dal mercato: il capitale doveva essere lasciato libero di riprodursi autonomamente attraverso la vendita della forza-lavoro ad un prezzo denominatosi salario; la terra poteva ugualmente essere ridotta a merce dietro il pagamento di un certo prezzo detto affitto. Come complemento al fenomeno del dilatarsi della sfera mercatista il credo liberale, articolato nel principio del mercato concorrenziale del lavoro, nel sistema economico a base aurea e da ultimo nella libera circolazione dei capitali costituì una specie di sacra trinità all’insieme.
3. La risposta decrescista al totem dello sviluppismo
Serge Latouche manifestando sintonia con lo stesso modello polanyiano lo attualizza e ipotizza scenari alternativi rispetto alle società di mercato. Punto di partenza per l’autore è proprio la critica radicale del concetto di uno «sviluppo sostenibile» capace di fungere da panacea trasversale tanto per le società già opulente del ricco Occidente quanto per i paesi meno economicamente avanzati e smaniosi di seguirne l’esempio (S. Latouche, I profeti sconfessati. Lo sviluppo e la deculturazione). Gli risulta chiaro dopo un periodo di sbornia “sviluppista” che la crescita economica nei paesi decolonizzati che guardano agli stili di vita costosi dei paesi del Nord del mondo non assicura maggiore benessere né garanzie di sopravvivenza per le loro culture. Proprio l’accettazione del modello economico capitalistico si traduce nella sottomissione culturale e nella distruzione delle strutture comunitarie precedenti, per effetto della cosiddetta “entropia del capitale” che, come tale, non può essere dialettizzato marxianamente e volto alla costruzione di un benessere collettivo. In questo senso contrariamente alla vulgata marxiana il primo fenomeno imperialistico è culturale e consiste nella riduzione all’identico della diversità irriducibile dell’altrui modo di vivere secondo la cultura che gli è propria; tanto il marxismo che il liberismo sono riduzionistici, ritenendo inferiori i popoli che vivono di autosussistenza in nome della modernizzazione.
Lo sviluppo economico è menzognero nel suo presentarsi in mille declinazioni che abbelliscono la sua sostanza etnocentrica, violenta e antiecologica (S. Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa): l’alternativa a tutto questo non può che essere una decolonizzazione dell’immaginario economicistico, l’approdo ad un doposviluppo antimondialista. Un doposviluppo localistico, conviviale e antieconomico che sappia dunque re-incapsulare l’economia (polanyianamente) nella società e nello Stato molto più che farne delle sue mere succursali egemonizzate da logiche economiche impersonali.
Proprio in funzione di alternativa al sistema mercatistico neoliberal viene così coniato lo slogan postmoderno della “decrescita”, intesa non in senso regressivo ma nel significato più ampio di una messa in discussione del riduzionismo economico in nome dei limiti delle risorse (in accordo con la bioeconomia di Georgescu-Roegen), dell’inevitabile impatto antropico sull’ambiente (connesso alla nostra demografia dissennata), del ripianamento delle disuguaglianze e di una visione più olistica di società. In questa direzione la decrescita equivale alla paziente decostruzione del totem rappresentato dalla “fallacia economicista” di polanyiana memoria, una “demercificazione” (cit. M. Pallante) e insieme un “arretramento progressivo” (nel senso di un abbassamento del Pil nel senso di una moltiplicazione dei servizi sui beni di consumo che finiscono unicamente per ingigantire la footprint).