Per secoli, la letteratura ha raccontato donne imprigionate nei loro ruoli

IL TRADIMENTO DELLE DONNE: LA RIBELLIONE FEMMINILE

NELLA LETTERATURA DEL ’900

Redazione Inchiostronero

Virginia Woolf ci aveva avvertite: “Noi donne moderne dobbiamo accettare la colpa di farci matricide; dobbiamo uccidere la ‘madre’ in quanto modello femminile”. Ma il matricidio di cui parlava non era un atto di violenza, bensì di liberazione. Per secoli, la letteratura ha raccontato donne imprigionate nei loro ruoli, destinate a essere mogli devote e madri irreprensibili. Alcune, però, hanno osato tradire non solo i loro mariti, ma l’intero sistema che le voleva sottomesse.


Questa è la loro storia.

Anna Karenina: l’amore che uccide

Anna Karenina

Anna era bella, elegante, rispettata. Il suo posto nella società era saldo, il suo matrimonio con Karenin irreprensibile. Una vita perfetta, almeno in apparenza. Ma dietro la superficie liscia del dovere e della convenienza si nascondeva una crepa, un’inquietudine che Anna non sapeva ancora nominare. Era moglie, era madre, ma dov’era la donna?

Poi, un giorno, su un binario affollato, tra il vapore del treno e la neve che cadeva lenta, il destino si manifestò sotto forma di un giovane ufficiale dagli occhi ardenti: Vronskij. Un incontro fortuito, un istante di esitazione, e qualcosa dentro di lei si destò.

“Era bella, con un’espressione di dolcezza e di giovanile gioia, ma nei suoi occhi brillava qualcosa di terribile e di duro, che spaventava lui e la spaventava.”

Non fu amore a prima vista, né il semplice capriccio di una donna annoiata. Fu una chiamata, un risveglio. Con Vronskij, Anna scoprì un lato di sé che la vita con Karenin aveva soffocato: il desiderio, la passione, l’idea di poter esistere al di fuori dei doveri coniugali. Ma l’amore, per una donna sposata, non era un diritto. Era un crimine.

All’inizio, credette di poter ingannare il mondo, di sfidare le regole non scritte dell’aristocrazia pietroburghese. Ma il mondo non era pronto a perdonarle l’ardire. Mentre Vronskij restava un uomo rispettato, libero di muoversi nei salotti e nei circoli ufficiali, Anna divenne una paria. Il suo stesso marito, un uomo freddo e calcolatore, non si indignò per il tradimento in sé, ma per il disonore pubblico che lo accompagnava.

“Mi si accusa di non aver sentimenti. Io non ho mai preteso altro che la conservazione del mio nome, la mia onorabilità sociale. E ora, a che cosa serve tutto questo? Io sono un uomo perduto!”

La maternità, un tempo il fulcro della sua esistenza, divenne un’arma contro di lei. Le venne strappato il figlio, il piccolo Serëža, la sua unica ancora di salvezza. Senza più un posto nella società, senza più la certezza dell’amore assoluto di Vronskij, Anna si trovò sola. Una donna che aveva osato vivere secondo i propri sentimenti e che, per questo, non aveva più diritto a vivere affatto.

“Aveva detto che la gelosia era un sentimento insultante per colei che si ama, ma riconosceva ora, con terrore, che egli era non solo geloso, ma che avrebbe dato molto perché lei non fosse stata amata da altri, anzi, che non fosse amata affatto.”

Si guardò allo specchio e non si riconobbe. Non era più la donna luminosa e desiderata di un tempo, ma un fantasma tormentato dal sospetto e dalla paura. Vronskij, l’uomo per cui aveva distrutto la sua vita, iniziava a sfuggirle, e con lui svaniva l’illusione che l’amore potesse essere sufficiente.

Alla fine, il treno tornò. Quello stesso treno che, all’inizio della sua storia con Vronskij, era stato teatro del loro primo incontro e del presagio funesto della morte di un ferroviere. Ora era lì, davanti a lei, con il suo ritmo inesorabile, con le sue ruote d’acciaio pronte a schiacciarla.

Anna si fermò un istante. Il mondo attorno a lei si confuse. Poi, fece un passo avanti.

“E in quell’attimo Anna capì con terrore che, pur amando ancora l’uomo, l’aveva ormai odiato.”

Il treno che l’aveva portata verso la passione la riportò alla morte. E con lei morì il sogno di una donna che aveva osato credere che il cuore potesse vincere sulla società.

Emma Bovary: la trappola delle illusioni

Emma Bovary mentre assume il veleno

Emma sognava. Sognava forte, con un’intensità quasi febbrile, con la disperazione di chi vive più nei propri desideri che nella realtà. Da ragazza, aveva trascorso le sue giornate immersa nei romanzi d’amore, dove dame affascinanti e cavalieri audaci si giuravano passione eterna tra castelli, duelli e fughe rocambolesche. Ma quando chiudeva il libro, la sua realtà era ben diversa: la fattoria di suo padre, il convento in cui era stata educata, la vita monotona e priva di poesia che la circondava.

Poi arrivò Charles Bovary, e con lui la promessa di un cambiamento. Un medico di provincia, buono, devoto, ma terribilmente mediocre. Il suo amore era fatto di piccole certezze, di gesti semplici, di un’ammirazione incondizionata. Per Emma, invece, il matrimonio con lui si rivelò un lento soffocamento.

“Com’era felice nei primi tempi del matrimonio! Ma poi, la noia, come una ragnatela silenziosa, si era posata su di lei, avvolgendola in un velo soffocante di giorni tutti uguali.”

Le visite ai pazienti, i pranzi sempre uguali, il chiacchiericcio insulso delle altre mogli di provincia: nulla di tutto ciò era la vita che aveva immaginato. La sua casa non era un castello, Charles non era un principe, e il suo cuore reclamava ancora la grandezza dei sentimenti dei romanzi.

Poi venne Rodolphe Boulanger.

Alto, affascinante, esperto nelle arti della seduzione, Rodolphe fu per Emma la materializzazione di tutte le sue fantasie. Quando lui le sussurrava parole appassionate, lei non sentiva solo il desiderio di un uomo: sentiva la voce di mille eroi romantici, la promessa che la vita poteva essere altro.

“Egli le fece notare che i doveri della vita spesso si trovano in contraddizione con i sentimenti del cuore. […] Lei abbassò la testa in segno di approvazione.”

Emma si abbandonò a quell’amore come una donna che, dopo anni di sete, trova finalmente l’acqua. E Rodolphe, esperto conoscitore di cuori femminili, seppe nutrire il suo sogno, lasciandole credere che l’avrebbe portata via, che sarebbero fuggiti insieme.

Ma quando il momento arrivò, lui fece quello che gli uomini come lui hanno sempre fatto: si tirò indietro.

“Non sono abbastanza folle per andare a rovinarmi la vita.”

Emma lo aspettava, con le valigie pronte e il cuore che batteva furiosamente. Ma la sua lettera di addio fu una lama che le si conficcò nell’anima. Il sogno si infranse, e con esso la speranza di un destino diverso.

Disperata, ferita, Emma si rifugiò tra le braccia di Léon, un amore più giovane, più idealista, meno cinico di Rodolphe. Con lui tentò di riscrivere la sua storia, di aggrapparsi ancora una volta all’illusione dell’amore assoluto.

Gli incontri clandestini, le fughe in città, le lettere appassionate: ogni bugia era una rivincita contro la vita che la condannava all’ordinarietà. Ma era una battaglia persa. Il mondo non avrebbe mai concesso a una donna come lei di essere libera. Gli uomini potevano tradire impunemente; le donne dovevano pagarne il prezzo.

E il prezzo arrivò sotto forma di debiti, di creditori che bussavano alla porta, di vergogna e disperazione. Non c’era più via d’uscita. Charles era un uomo troppo debole per salvarla, Léon troppo spaventato per restarle accanto, Rodolphe solo un’ombra del passato.

Così, Emma fece la sua scelta.

L’arsenico le bruciò la gola come i sogni che l’avevano avvelenata per tutta la vita. Si contorse nel dolore, e mentre la morte la reclamava, capì: non era stata l’amore a tradirla, ma l’illusione dell’amore. Aveva inseguito fantasmi, aveva creduto che la passione fosse la via d’uscita, ma in quel mondo non c’era spazio per le donne che sognavano troppo.

“Eppure, pensava, avevo ragione io.”

E con questo pensiero, Emma Bovary si spense.

Edna Pontellier: il risveglio di una donna

Edna prima di scomparire tra le onde

A New Orleans, tra il calore soffocante dell’estate e il suono lontano delle onde, Edna Pontellier cominciò a svegliarsi.

Non fu un risveglio improvviso, ma un lento, inesorabile disvelamento. Per anni aveva vissuto come una donna doveva vivere: sposata con un uomo rispettabile, madre di due figli, padrona di casa impeccabile. Il marito, Léonce Pontellier, era un uomo d’affari attento, generoso nei suoi doveri, ma cieco di fronte alla sua anima. La vita di Edna era fatta di rituali prevedibili, di visite e convenevoli, di vestiti eleganti e conversazioni vuote. Era felice? Non si era mai posta la domanda.

Poi, tra le spiagge dorate dell’isola di Grand Isle, qualcosa cambiò.

Robert Lebrun era giovane, affascinante, con il sorriso di chi sa giocare con i sentimenti senza prendere nulla troppo sul serio. Con lui, Edna non era la signora Pontellier, non era madre, non era moglie. Era solo Edna.

“La signora Pontellier non era una donna madre. Pensava che avrebbe dato per i suoi figli la vita, ma non se stessa.”

Non fu solo il desiderio per Robert a scuoterla. Fu la consapevolezza che non era nata per appartenere a qualcuno. Che la sua esistenza non poteva essere definita dal ruolo che le era stato assegnato.

Un tradimento silenzioso

Il suo tradimento non fu impetuoso e scandaloso come quello di Anna Karenina o di Emma Bovary. Non si consumò in fughe clandestine o in lettere appassionate. Il tradimento di Edna fu interiore, sottile, ma devastante.

Cominciò a dipingere, a uscire da sola, a rifiutare gli inviti imposti dal marito. Sfidò il codice invisibile che teneva le donne incatenate al dovere. Quando suo marito partì per lavoro, fece la cosa più impensabile: lasciò la casa coniugale per trasferirsi in un piccolo appartamento tutto suo. Un luogo modesto, ma libero.

“Mi sto spostando fuori. Sto lasciando la tua casa. Sto prendendo una piccola casa per me stessa, vicino al quartiere spagnolo. Non voglio più vivere in quella grande casa con le sue innumerevoli stanze e servitori. Mi sento come se mi stessi liberando da una schiavitù insopportabile.”

Non era l’amore di un altro uomo a guidarla. Era l’amore per se stessa.

La scelta finale

Ma la libertà ha un prezzo. E per una donna come Edna, quel prezzo era l’isolamento. Robert, che tanto aveva acceso il suo desiderio di indipendenza, non era abbastanza forte per sfidare la società insieme a lei. Se ne andò, lasciandola sola con la sua nuova consapevolezza.

Cosa restava, allora? Tornare a essere la moglie obbediente? Rientrare nei ranghi di una vita che ormai le stava stretta?

Edna scelse l’unica via che le sembrava possibile. Tornò sull’isola, camminò sulla spiaggia, si tolse i vestiti uno a uno e si immerse nel mare.

“L’acqua era calda, avvolgente come un brivido dolce. Sollevò le braccia e si spinse in avanti con un colpo deciso. Il mare le accarezzò il corpo come un amante.”

Nuotò, lontano, sempre più lontano. Nessuno poteva più dirle chi essere, cosa fare, a chi appartenere.

Il mare la accolse. E con esso, finalmente, la sua libertà.

Nora Helmer: la donna che chiuse la porta

Nora Edner mentre se ne va per il suo destino

Nora sorrideva. Sorrideva sempre. Era una moglie impeccabile, graziosa e giocosa, la perfetta padrona di casa. Torvald Helmer, suo marito, la chiamava “allodoletta”, “scoiattolino”, e lei rideva, girava su se stessa, obbediva. Era l’incarnazione della moglie ideale: bella, spensierata, devota.

Eppure, dietro quel sorriso, dietro i pizzi e i nastri del suo abito, qualcosa si muoveva. Un’ombra, un pensiero inespresso, una verità scomoda che ancora non osava guardare in faccia.

Non era sempre stata così. Anni prima, quando Torvald era malato, Nora aveva commesso un atto impensabile: aveva preso un prestito, falsificato una firma, mentito. Lo aveva fatto per amore, per salvarlo. Eppure, nel momento in cui la verità venne a galla, non trovò in lui né comprensione né gratitudine. Solo orrore, disprezzo. Torvald non si indignò per il sacrificio che lei aveva fatto, ma per la vergogna di avere una moglie colpevole di un atto illegale.

Fu allora che Nora comprese.

“Non ho mai capito fino a questa sera che la legge fosse diversa per un uomo e per una donna. […] Una donna non può prendere un prestito senza il consenso del marito!”

Era stata una bambola, per tutta la vita. Prima per suo padre, che la trattava come una piccola creatura fragile, poi per suo marito, che la amava solo come un bel giocattolo da esibire. Nora non aveva mai avuto un pensiero veramente suo, non aveva mai scelto chi essere. Aveva solo recitato il ruolo che gli uomini avevano scritto per lei.

E ora, per la prima volta, si guardava allo specchio e non si riconosceva più.

La ribellione silenziosa

Il suo tradimento non fu un bacio rubato, né un amore clandestino. Fu molto di più. Nora tradì il ruolo che le era stato imposto, il copione che la società le aveva dato in mano il giorno in cui era nata.

Quando parlò con Torvald, non alzò la voce. Non urlò. Non implorò. Gli spiegò semplicemente che non poteva più restare.

“Devo mettermi alla prova e devo capire chi ha ragione, la società o io.”

Non era mai stata Nora. Non sapeva nemmeno chi fosse. E per scoprirlo, doveva andarsene.

La porta che fece tremare il mondo

Torvald rimase seduto, incredulo, mentre lei prendeva il cappotto. Le donne non fanno queste cose, pensava. Le mogli non se ne vanno così, nel cuore della notte. Ma Nora non era più una moglie.

Si avvicinò alla porta. Guardò per l’ultima volta la casa in cui aveva vissuto, i figli che amava, la vita che lasciava. Poi, senza esitazione, girò la maniglia e uscì.

“Non credo più in cose meravigliose.”

La porta si chiuse dietro di lei con un rumore secco, definitivo. Quel suono risuonò in tutta la casa, in tutta la città, in tutto il mondo. Era il suono di una donna che si liberava dalle catene.

E, da quel momento, niente fu più lo stesso.

Conclusione: L’eredità delle donne che tradirono

Anna, Emma, Edna, Nora. Donne di epoche diverse, nate dalla penna di autori altrettanto diversi, ma legate da un filo rosso invisibile e incandescente: il desiderio di essere qualcosa di più di ciò che il patriarcato concedeva loro. Ognuna ha cercato, a suo modo, di infrangere le regole di un mondo che le voleva docili, sottomesse, conformi a un ideale di femminilità che non avevano scelto.

Eppure, la loro ribellione non ha avuto il sapore della vittoria. Anna ha trovato la morte sotto le ruote di un treno, Emma tra le convulsioni dell’arsenico, Edna nelle onde del mare, Nora nell’esilio dalla propria famiglia. Non esiste un lieto fine per le donne che osano sfidare le convenzioni. O almeno, non esisteva allora.

E oggi?

Il tradimento è ancora un atto di ribellione? O il patriarcato ha trovato modi più sottili per incatenare le donne?

La società moderna non impone più matrimoni combinati o l’obbligo della fedeltà coniugale come unico destino possibile, ma continua a dettare le sue regole con nuove forme di controllo. Il modello della moglie e madre perfetta non è stato spazzato via, si è solo trasformato. Ora si parla di “avere tutto”: carriera, famiglia, successo, bellezza, amore romantico. Eppure, come accadeva ad Anna e alle altre, il prezzo da pagare per ogni deviazione dalla norma rimane alto.

Oggi, una donna che tradisce non viene più ripudiata pubblicamente, ma viene ancora giudicata, insultata, emarginata. O, paradossalmente, viene trasformata in un’icona scandalosa, uno stereotipo di libertà sessuale spesso costruito dallo stesso sistema che pretendeva di imprigionarla.

Forse, la battaglia non è finita. Forse, come diceva Virginia Woolf, dobbiamo ancora imparare ad accettare la colpa di essere libere. Dobbiamo ancora imparare a uccidere la madre, a liberarci del senso di colpa che accompagna ogni gesto di emancipazione.

Forse, oggi più che mai, abbiamo bisogno di nuove storie, di nuove eroine. Non più destinate alla tragedia, non più vittime di una punizione inevitabile, ma finalmente capaci di vivere secondo la propria volontà, senza che il prezzo sia sempre la solitudine, l’esilio o la morte.

E forse, questa volta, saranno loro a chiudere la porta e a non tornare mai più indietro.

Riccardo Alberto Quattrini

 

 

Bibliografia

  • Lev Tolstoj, Anna Karenina, 1877
  • Gustave Flaubert, Madame Bovary, 1857
  • Kate Chopin, Il risveglio, 1899
  • Henrik Ibsen, Casa di bambola, 1879
  • Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, 1929

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