Tra orgoglio e rifiuto, due sguardi sul tricolore italiano: la memoria di Nino Benvenuti e la provocazione di Katharina Zeller.

IL TRICOLORE DI NINO E QUELLO DI KATHARINA

Marcello Veneziani

In questo editoriale delicato e insieme pungente, Marcello Veneziani riflette sul significato profondo e cangiante del tricolore italiano, simbolo di appartenenza, identità e, talvolta, di disagio. Due episodi recenti, avvenuti a poche ore di distanza, riportano al centro della scena il vessillo nazionale: da un lato la farsa della sindaca altoatesina Katharina Zeller, che rifiuta ostentatamente la fascia tricolore per marcare una distanza culturale e politica dall’Italia; dall’altro la tragedia della scomparsa di Nino Benvenuti, icona sportiva e patriottica, la cui storia personale è intrecciata al dolore dell’esodo istriano e all’orgoglio di rappresentare l’Italia sul podio olimpico. Veneziani contrappone la leggerezza polemica di un gesto divisivo alla solennità autentica di chi ha vissuto il tricolore come amore e riscatto. Con un tono al contempo nostalgico e critico, l’autore interroga la nostra epoca: cosa significa oggi essere italiani? E quel tricolore che sventolava alto a Roma nel 1960, può ancora unire piuttosto che dividere? (f.d.b.)


Il tricolore, l’orgoglio e il fastidio di essere italiani. Per uno di quegli strani casi della vita, il vecchio tricolore è tornato a farci visita due volte nel giro di poche ore; potremmo dire, citando Karl Marx a rovescio, prima come farsa e poi come tragedia. La farsa è quel siparietto che ha visto protagonista la neosindaca di Merano, la tirolese di sotto Katharina Zeller, che riluttava a indossare la fascia tricolore, se l’è messa, poi se l’è tolta, poi se l’è un po’ rimessa, infine se l’è definitivamente tolta, perché lei con l’Italia non vuole avere niente a che fare e soprattutto vuol farlo sapere ai suoi elettori suditirolesi. La tragedia, invece, è la scomparsa di uno degli ultimi simboli viventi d’italianità, Nino Benvenuti, istriano cacciato da bambino con la sua famiglia dalla sua terra e che amava davvero l’Italia. Lo ha dimostrato mille volte nella sua vita di pugile e di cittadino; ma io ricordo un episodio mitico, che accadde alle Olimpiadi di Roma nel 1960, e che

Nino Benvenuti

alcuni anni dopo fu per me la rappresentazione più bella dell’amor patrio: fu quando Nino vinse la medaglia d’oro e la bandiera italiana fu issata più in alto di quella americana e di quella sovietica che conquistarono le postazioni successive. L’inno di Mameli risuonò sovrano sugli altri inni nazionali. Vedere la bandiera della piccola grande Italia torreggiare su quella degli Stati Uniti e sulla falce e martello dell’Unione sovietica, vale a dire i due imperi allora dominanti, fu per me – ragazzo degli anni Settanta, che sventolava all’epoca il tricolore nelle piazze, quando era quasi proibito, comunque disdicevole e pericoloso – uno dei simboli più belli e rari da sbandierare per la fierezza di essere italiani. Non era il tricolore delle guerre e nemmeno quello dell’Italia fascista, non c’erano discorsi e trombettieri a enfatizzare il tricolore, c’era un tricolore issato in una competizione sportiva, pacifica, dei nostri tempi.

Festa del Tricolore

Quando anni dopo conobbi Nino Benvenuti glielo dissi e gli ricordai che, come molti italiani, refrattari al pugilato, seguii con insolita passione i suoi mitici match con Emile Griffith e poi con Carlos Monzon, nel ‘71; credo di non aver mai partecipato con tanto pathos a un incontro di pugilato, se non quando Benvenuti fu battuto da Monzon. Capì allora, a suon di pugni, la nobiltà della sconfitta; quella sconfitta fu più ricca d’umanità e di onore della vittoria mondiale con Griffith. Il precedente rispetto a Benvenuti era stato Primo Carnera, il gigante friulano, povero emigrato, e poi orgoglio degli italiani d’America e del mondo; ma altra epoca, altro mondo. Ma di tutta quella storia di Benvenuti, l’altro giorno le veline del mainstream sulle prime pagine dei giornali se ne sono dimenticate, per buttarla sulla solita menata, l’amicizia di Benvenuti con Griffith gay e nero, dunque doppiamente benemerito a prescindere.

Certo, nel tricolore di Benvenuti c’era la tragica epopea degli istriani e dalmati sfrattati dalle loro case, dalle loro terre.(1) Nel tricolore rifiutato dalla Zeller c’è invece la storia di un’appartenenza mal sopportata, mai digerita, che è costata tanto, a noi italiani e a loro, ma su piani diversi. Forse in un’Italia perfetta, mi dicevo da ragazzo, Nizza e l’Istria, la Dalmazia dovevano essere italiane e l’Alto Adige doveva essere austriaco. Non erano poi sbagliati gli Imperi centrali, spazzati via dalla Prima guerra mondiale, perché i triestini e gli istriani convivevano bene con austriaci e slavi, non si sentivano a disagio sotto gli Asburgo, le diversità erano rispettate.

Ora non pretendo che chi non ha mai sentito l’identità italiana come sua, l’abbracci e si converta. Ci sono modi diversi di mantenere non solo il bilinguismo ma anche il bipatriottismo: un buon esempio è Jannik Sinner, che si mostra fieramente italiano, pur parlando in casa tedesco ed essendo altoatesino (ma risiedendo come molti suoi colleghi a Montecarlo). In fondo anche Alcide De Gasperi era perfettamente integrato nell’Austria, nella lingua e perfino nella Dieta di Vienna, prima di diventare il primo, grande statista dell’Italia repubblicana.

Del resto so bene che l’amor patrio non si può inoculare con un’endovena di bianco, rosso e verde, non è un vaccino obbligatorio da somministrare anche ai riluttanti, e la fascia tricolore non è olio di ricino da far ingurgitare a chi non la digerisce. Dunque, capisco, forse si può ipotizzare per quelle zone a cavallo tra l’Adige e il Tirolo, una fascia simbolica che traduca il bilinguismo, che so, in un tricolore con stemma tirolese. Però l’amor patrio è come il coraggio di don Abbondio e chi non ce l’ha non se lo può dare e tantomeno glielo puoi imporre per decreto. E va riconosciuto che il loro vero amor patrio è verso la casa madre austriaca di cui sono i terroni: il Sud-Tirolo è l’unica regione d’Italia in cui ricorre la parola sud, preferiscono all’Alto Adige il Basso Tirolo: si è sempre i terroni di qualcuno, diceva Luciano De Crescenzo. Fatte queste premesse e condiviso il relativismo pirandelliano applicato alla geopolitica e all’amor patrio, arrivo a una conclusione: ci sono scelte che tu fai in libertà e con passione, e poi ci sono regole che tu devi rispettare anche se non le condividi. Sul piano del giudizio storico e del sentimento patrio, nessuno può impedirti di sentirti estraneo all’Italia e amante di un’altra patria, succede spesso anche da noi, al sud, per esempio. O ai Corsi con la Francia, ai Baschi con la Spagna, e via dicendo. Nel caso della Zeller, poi, mi pare che la bandiera del suo cuore non sia nemmeno quella austriaca ma quella arcobaleno; perché lei non ama il tricolore non tanto perché si sente tirolese (questo magari lo fa più per utilità elettorale) ma perché si sente progressista, cittadina del mondo, pacifista globale e amica dei diversi. Inclusiva verso tutti, meno gli italiani.

Ma finché sei in Italia, devi rispettare le leggi e la Costituzione italiana, devi rispettare lo Stato e il territorio nazionale in cui abiti, pur riluttante, e devi quindi seguire gli obblighi legali, formali e rituali. È lo Stato italiano la tua Casa di Legge, il luogo in cui sei inserito, bene o male che sia; sono i carabinieri italiani, i poliziotti italiani, i tribunali italiani, i governi italiani a tutelare i tuoi diritti. E rispetto a loro e allo Stato tu hai dei doveri. Dunque, fai pure una campagna per avere una fascia diversa o bipatriottica, esprimi pure i tuoi sentimenti e le tue opinioni; ma mettiti quella fascia, è tuo preciso dovere, oppure toglitela insieme alla tua carica di sindaco.

Aggiungo che per quel che mi riguarda sarei ben felice che la signora lasciasse l’Italia detestata. Perché non è sempre vero, come invece è il caso della dipartita di Nino Benvenuti, che sono i migliori ad andarsene per primi.

La Verità – 14 giugno 2024
La Verità – 23 maggio 2025

 

 

 

 

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