Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie

Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1818, Hamburger Kunsthalle.

IL VIANDANTE SUL MARE DI NEBBIA


Ritratto di Caspar David Friedrich, Gerhard von Kügelgen, circa 1810–20

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Così Giuseppe Ungaretti riassumeva l’esperienza nelle trincee della Grande Guerra, l’angoscia del futuro spezzato, la paura, la provvisorietà tragica tra il rombo dei cannoni, le urla, il lezzo acre di umanità decomposta. Chi scrive si sente il viandante nel mare di nebbia dell’omonimo quadro di Caspar David Friedrich, capolavoro del Romanticismo pittorico.  Proteso su un nudo sperone roccioso, osserva un paesaggio spettrale, in cui la nebbia assomiglia a un mare in tempesta. Nulla il pittore ci mostra del panorama sottostante, se non cime lontane, scabre e sinistre come lo spuntone raggiunto chissà come dal viandante. Questi è ritratto di spalle: nulla sappiamo del volto e dell’espressione: forse è stupito, impaurito, o soltanto affascinato dal paesaggio cangiante della nebbia in movimento. Di sicuro è un uomo ben vestito, curato, che porta anche un bastone da paesaggio. L’unico elemento di disordine sono i capelli color ruggine scompigliati dal vento. La confusione, lo scompiglio vengono da fuori, da ciò che vede e dalla condizione insicura in cui si trova, così contrastante con l’abito di buona fattura, di città, con il portamento signorile.

Trincee nella Prima guerra mondiale

Chissà come avrà gli occhi, il viso, e se prova sbigottimento dinanzi alle forze della natura. Ognuno vede nell’arte qualcosa di personale: per l’autore di queste righe il viandante è il simbolo di quel che egli stesso prova, proteso sul mondo e sul tempo che ai suoi occhi pare un vuoto brulicante, un’incomprensibile danza macabra. È lo straniamento davanti a ciò che non capiamo e produce orrore, il desiderio acutissimo di fuggire in un impossibile altrove, l’inquietudine allarmata che Freud chiamava unheimlich, il perturbante, che tale è in quanto inusitato, non familiare (la radice heim – casa – unita alla negazione del prefisso “un”).

Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli. (1819-1823).

 

 

 

 

 

 

 

 

Radicalmente perturbato e è lo sguardo che gettiamo sulla realtà, ansiosi di ritrarci immediatamente per tornate a Itaca, l’isola che non c’è (più). La contemporaneità dell’occidente terminale – un morto che cammina e parla – fa affiorare alla mente un altro quadro famoso, Saturno divora i suoi figli, di Francisco Goya, contemporaneo spagnolo di Friedrich. È la più celebre delle Pitture nere, visionarie illuminazioni dell’artista giunto al finale della sua vita, esausto, incapace di comprendere un mondo non più suo, impotente dinanzi al male, che può soltanto trascendere per mezzo del suo genio.

L’opera mostra Saturno (Crono, il dio del tempo) mentre divora un bambino, uno dei suoi figli. Sgomenta la scena intera: il nero dell’ambiente in contrasto con il rosso del sangue, soprattutto inquietano i giganteschi occhi allucinati di Saturno, la sua furia cannibale, l’espressione in cui il ghigno diventa violenza cieca e famelica, energia implacabile, le mani come artigli attorno a ciò che resta della preda. Chissà quali incubi ha cercato di esorcizzare Goya, quale messaggio ha lanciato oltre il muro del tempo, immerso in una sofferenza che solo la creatività poteva placare.

Il viandante estraneo al tempo si sente vicino all’artista Goya mentre osserva il mondo come il giovane che sembra sfidare la nebbia del capolavoro di Friedrich. Il sentimento prevalente è il desiderio di tapparsi occhi e orecchie dinanzi allo spettacolo del presente: perturbante perché estraneo, ostile. Soprattutto, viene meno la forza di capire o giudicare, di prendere parte, di avere ancora un ruolo, una volontà attiva. Avanza una rassegnazione amareggiata, senile, attraversata da sensi di colpa: che cosa ho fatto perché la nebbia si diradasse e la civiltà in cui sono nato non divorasse i suoi figli e se stessa, in un atto estremo di autofagia?

C’è un’ulteriore suggestione intima, racchiusa in una breve lirica di Antonio Machado, di cui non amiamo il messaggio, ma dotata di indubbia fascinazione.

Viandante, sono le tue orme/ il sentiero e niente più;/viandante, non esiste il cammino, /il cammino si fa camminando. /Camminando si fa il cammino/ e girando indietro lo sguardo/si vede il sentiero che mai più/ si tornerà a calpestare. /Viandante non esiste il cammino ma solamente scie nel mare.

Non ci apparteneva, in gioventù, il senso di desolazione e inutilità devitalizzata di non credere a un senso, a una direzione comune. Oggi, al contrario, proviamo sollievo all’idea di non calpestare più il sentiero, diventato nemico. Ci consola che le orme della nostra civiltà in asfissia stiano per essere cancellate, come le scie di una nave naufragata.

Una elaborata riflessione dopo aver preso atto di alcuni eventi che ci sono sembrati altrettanti segnali che la campana è suonata, nella terra del tramonto avviata alla notte. È solo cronaca, corregge l’intelletto razionale, che sa prendere le distanze e rimanere impassibile in ricognizione sull’ impervio punto di osservazione del viandante. La crisi viene da lontano: un secolo fa Camillo Sbarbaro chiudeva con queste parole la sua poesia più nota, Taci, anima stanca: […] la vicenda di gioia e di dolore / non ci tocca. Perduto ha la voce la sirena del mondo/ e il mondo è un grande deserto. Nel deserto io guardo con asciutti occhi me stesso”.

Invece no, non possiamo contemplare solo noi stessi, straniti viandanti senza lacrime impegnati invano a fermare l’istante con un selfie. Il deserto è l’indifferenza, lo sbadiglio annoiato, l’incapacità di distinguere il bene e il male. A differenza del poeta, il viandante vuole penetrare la nebbia. Ogni giorno, qualcosa riesce ancora a turbarlo: forse è un indizio di esistenza in vita. Motivi ed esempi abbondano. Uno, più grottesco che tragico, perfetta metafora dell’autofagia terminale dell’occidente che divora se stesso, è la morte di alcuni ricconi nel sottomarino noleggiato a carissimo prezzo per fare una passeggiata subacquea tra i resti del Titanic, il transatlantico orgoglio del primo Novecento, affondato nel viaggio inaugurale dopo aver sbattuto contro un iceberg, muto testimone della potenza della natura.

Strano passatempo, la volontà di fare qualcosa di esclusivo (in quanto costoso, un “consumo vistoso”, destinato all’invidia altrui) nell’era dell’inclusione obbligatoria, consistente nel vedere da vicino della ferraglia incrostata avviluppata dalla vegetazione sottomarina, i detriti di qualche suppellettile d’epoca, il desiderio del brivido, il sogno inconfessato di intravvedere qualche resto umano di oltre un secolo fa. Archeologia consumistica.

“È imploso” La prima cosa che condividono e in cui si identificano è la stupidità.

Scrisse Gilbert K. Chesterton che il sistema capitalistico è un’eresia, poiché, anziché guardare le cose create e riconoscere, come Dio, che sono “buone”, le analizza per verificare se possono essere accaparrate, sfruttate economicamente, divorate indiscriminatamente. Il sistema mercifica tutto, rende oggetti il creato e le creature, anche umane. Fiori e uccelli, albe e tramonti, le rupi del viandante e il cive innevate, le stelle e i fondali marini: tutto in vendita con il cartellino del prezzo e il codice a barre, rocce, cose, mari, mode, esperienze e persone. L’uomo d’Occidente, cancellata la sua storia, concepisce il mondo come un enorme supermercato, un bazar della bramosia di consumare bulimicamente, collezionando esperienze “esclusive” da ostentare sulle reti sociali, il placebo per acquietare temporaneamente il tedio di vivere. Bisogni compulsivi, scariche di adrenalina che una volta esaurite tornano insoddisfatte al punto di partenza: l’eldorado del circo pubblicitario che innalza l’asticella all’infinito.

L’uomo occidentale è un progetto suicida che, collezionando esperienze “esclusive”, si avvicina al suo fatidico destino; i ricchi morti nel batiscafo l’hanno accorciato. In un mondo privo di palpito spirituale, arreso alla voracità consumistica, l’uomo diventa un divoratore dalla sensibilità devastata, incapace di godere di un tuffo nel fiume o di contemplare un muro sbrecciato. Ha bisogno di immergersi nel mare incerto, camminare nelle viscere del Titanic, sapendo che l’esperienza finirà nell’oblio, come il ferro perde la forma dal demolitore.

Una civiltà consegnata al consumo compulsivo del Creato non merita il suo nome; è un ritorno all’animalità: non a quella della rondine o dell’ape, ma della gazza e del tarlo, che trascinano e divorano tutto ciò che catturano, una mela o un fondale marino. L’uomo occidentale, privato della sorgente spirituale, per non soccombere al tedio e al disincanto deve sottoporsi a un crescente bombardamento di stimoli, trasformare il mondo intero in un parco divertimenti per i suoi capricci, consumare “esperienze ” sino a divorare se stesso, bruciare in mezzo al nulla da egli stesso generato, in cui saltella un narcisismo insensato, carne per nevrosi, ansia insoddisfatta, pulsione suicidaria.

Che dire del ventenne romano che ha travolto e ucciso un bambino di cinque anni alla guida di una Lamborghini (noleggiata, come prescrivono a Davos…) in preda alla cannabis (che non fa nulla, anzi fa bene…). È una gara, bellezza, un allenamento per la competizione obbligatoria della vita secondo il modello liberal globalista. A bordo dell’automobile c’erano alcuni membri di un canale Youtube con seicentomila (!!!) iscritti, intenti a filmare la sfida, anzi la “challenge”, la corsa folle. L’omicida non è nuovo a simili imprese, il cui scopo sono il brivido, la rottura della routine quotidiana, il superamento del limite, senza riguardo per la vita propria e altrui. Figlio degnissimo di un’epoca morta, non peggiore del noleggiatore delle macchinone, sopraggiunto trafelato, in collera “perché la macchina è rotta”.

Sempre a Roma, un giovanissimo straniero, tra sballo, droga e musica trap, una vita raccontata minuto per minuto sui social media, il nuovo esibizionismo, lo spogliarello esistenziale, ha ucciso una ragazza, l’ha chiusa in un sacco della spazzatura tentando di gettarlo tra i rifiuti. Una vita di scarto ne getta un’altra nell’immondizia dopo averla spezzata. Era solito invitare i seguaci (“followers”), tredicimila, a contattarlo per acquisti: cannabis e hascisc che fumava nei video postati. La pubblicità è l’anima del commercio.

Entrambi pagheranno un conto modestissimo per ciò che hanno fatto, di cui probabilmente non si rendono nemmeno conto. Complimenti a noi, che abbiamo allevato animali selvaggi. Che non puniamo se sbagliano: i ragazzi rodigini che aggredirono un’insegnante colpendola con un’arma a pallini sono stati promossi. In fondo, non andavano male a scuola. Il messaggio è chiarissimo: si può fare ciò che si vuole, senza distinguere il bene e il male e senza che alcuno spieghi la differenza, tanto non c’è castigo. Quanto agli insegnanti, il loro prestigio è giustamente cancellato, se accettano di non punire, ossia di sottrarre alle loro responsabilità, i giovani loro affidati. Sindrome di Stoccolma, o semplicemente uno dei mille sintomi del suicidio civile.

Il viandante in fondo era fortunato: non vedeva che nebbia e ombre lontane, non si doveva chinare sulle brutture. Noi non possiamo sfuggire: il mondo ci insegue, si insinua dentro e ci chiama a testimoni con il rimorso di non avere agito, non avere custodito il pezzo di civiltà che avevamo ereditato. D’altronde, la maggioranza imita le condotte delle classi dirigenti, corrotte sino al midollo. I demiurghi del mondo nuovo sono i cervelloni di Silicon Valley, gli inventori delle tecnologie in cui siamo immersi: in gran parte sono tossicodipendenti.

Lo ammettono senza remore in un’inchiesta del Wall Street Journal. Fanno largo uso di funghi allucinogeni, ketamina e altro. Elon Musk lo rivendica senz’altro, asserendo che la ketamina è un ottimo antidepressivo. Poi si pente e cancella il “cinguettio”: in fondo è il padrone di Twitter. Curioso che si senta depresso. Un guru dell’intelligenza artificiale, Spencer Shulem, si fa di LSD (acido lisergico)(1). Era la droga del Sessantotto, quella dei viaggi allucinogeni, la magica sostanza chimica che “apriva la mente “a nuove esperienze e a mondi fantastici. Sembra che l’abitudine del “trip” (il viaggio) sia comune tra i cervelloni dell’Intelligenza Artificiale, con festini psichedelici annunciati in un’app di messaggistica riservata. Sono tra le persone più potenti e intellettualmente dotate del pianeta: Saturno divora davvero i suoi figli. Ridateci gli stupidi, se questo è l’homo sapiens.

E ridate a chi scrive la nebbia, la cara caligine che avvolge, ammanta, cela e lascia all’immaginazione. Il progresso, il felice mondo arcobaleno? Rivoglio il buio passato, un angolino incontaminato, un lacerto, una minuscola zona franca, in fondo a destra, per sfuggire alle magnifiche sorti e progressive, una macchina della nebbia per non vedere, una pillola dell’oblio, il Lete dell’anima. Felice, romantico viandante appollaiato sullo spuntone, esentato dalla vista del trionfo della Ragione, c’è un posticino accanto a te? In fondo, siamo colleghi.

Roberto PECCHIOLI

 

 

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(1)

«LO SCIENZIATO PSICHEDELICO, IL PADRE DELL’ACIDO LISERGICO»

 

 

 

 

 

 

 

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