”Due figure e un’increspatura affannosa che prende corpo, cresce come un malsano nemico lasciando entrambe su due sponde opposte. La percezione di distanza si costruisce tra le mura di un silenzio dilagante, uno sfregio affettivo, un marchio che ha i colori cangianti della rabbia. È la maternità genuflessa in un atto di abbandono, come una promessa mancata.
Un romanzo pensato, articolato in più risvolti, curato nella forma.
Adolescenza spigolosa dove i perché si confondono lasciando una gestualità intirizzita. Immagine riflessa di una privazione a lungo trattenuta tra le maglie del non detto. Il nostro tempo si stigmatizza feroce, aggressivo nella simbologia di una bufera che allaga e distrugge. Prigione che non concede scampo, ingorgo di frasi smozzicate e di frammenti di verità. Cocci di vetro affilati che feriscono e allontanano. Emanuela Canepa ribalta ruoli avvizziti da modelli ormai poco credibili, elabora uno schema che percorre un cammino in salita. La quieta ferocia dell’essere madri in un romanzo che racconta come sia inevitabile tradire gli altri, per difendere sé stessi.
“Quand’è che le cose con Matilde avevano cominciato a peggiorare?
Emma se l’era chiesto spesso, ma l’origine del disagio le sfuggiva.
Sapeva solo che sempre più di frequente le capitava di sentirsi inutile.
Una madre superflua.”
La trama del romanzo
C’è una donna ferma sulla soglia di un convento. Deve entrare, ma ha paura. Oltre quella soglia, lo sa, avverrà la resa dei conti. Perché è lì che si trova sua figlia, un’adolescente scappata di casa dopo l’ennesima lite con lei. Ed è lì che vive la persona che molti anni prima l’ha abbandonata senza una parola, per seguire la propria vocazione. Dopo la folgorazione che fu L’animale femmina opera prima ambigua e seducente con un punto di vista spiazzante sui ruoli di potere e le rivalse post metoo.Emanuela Canepa torna a scandagliare i conflitti sotterranei che si annidano in ogni rapporto. Stavolta, lo fa attraverso tre figure femminili indimenticabili. Una madre, alla quale la figlia rimprovera un’esistenza di rinunce. Una figlia, che la madre ha sempre sentito inaccessibile. E una suora, che ha lasciato tutto, anche la sua più grande amica, per abbracciare senza riserve il proprio destino. Tre donne profondamente legate tra loro, eppure in costante fuga l’una dall’altra. Perché ogni legame d’amore può diventare un cappio, e ogni distacco trasformarsi in battaglia. Raffinata e minimalista, l’autrice conferma ancora una volta la sua abilità: fa parlare più i gesti che i dialoghi; ama gli scandagliamenti psicologici a tappeto e i personaggi asprigni, in lotta con sé stessi. Il problema è stato fare i conti con la mancata tempesta del titolo, bellissimo e fuorviante. In fondo sono atti di fede: la clausura, l’amicizia, il matrimonio, i figli, e perfino secondi romanzi da cui non si sa mai bene cosa aspettarsi.
Come inizia
a Valentina,
signora della tempesta
La sua paura, così, diventava una paura anche mia.
E io e lei, insieme, dentro la stessa stanza, ci muovevamo
sperduti, come attraverso un fragore prorompente,
che ci urtava, ci avvicinava e ci separava, vietandoci
d’incontrarci mai.
ELSA MORANTE, L’isola di Arturo
Per tutto il viaggio l’acqua non ha smesso di cadere un momento. Veniva giù a dirotto, un lenzuolo liquido che il vento faceva oscillare scaricandolo a sciabolate sull’auto.
Emma raggiunge la sommità della collina e si infila in una piazzetta sterrata. Cerca con gli occhi un varco nel labirinto tra le pozzanghere. Il cielo trema l’ultima volta, poi lentamente comincia a spiovere.
La furia del temporale ha spogliato gli alberi, le aiuole sono ridotte a un pantano coperto di foglie, e il selciato è una costellazione di buche piene d’acqua su cui si riflettono le nubi spazzate via a larghe folate.
Emma riparte e parcheggia sotto una pergola. È rimasto in piedi a malapena lo scheletro. Il tetto della macchina sfiora le code dei rampicanti strappati dal vento che oscillano ancora.
Spegne il motore. Ricomincia a farle male la testa. Un segmento di luce pulsante connette fra loro le tempie. Non importa, si dice. Non è grave. Non è un buon motivo per fermarsi.
Guarda in alto, verso il cielo. Il movimento le causa una fitta alla testa, e il dolore si fa acuto salendo a ondate.
Afferra la borsa ed esce dall’auto. Si avvicina alla chiesa.
L’edificio è modesto. Una facciata in mattoni scandita da quattro lesene e due nicchie vuote, senza statue, come dopo un passaggio di barbari. Non ci sono fregi o decorazioni. Solo una cornice in marmo spezzata in due punti che definisce la linea del portale.
È tutto chiuso. Affisso su un pannello in legno c’è un minuscolo cartello protetto da un vetro che riporta gli orari delle messe.
Alle spalle della chiesa si allunga in perpendicolare la struttura imponente del monastero, preceduta da un portico ad arcate regolari che inclina ad angolo retto e segue il fianco della navata. In fondo c’è un ingresso, chiuso. A distanza però Emma riconosce la pulsantiera di un citofono.
Costeggia il fianco della chiesa e mentre cammina si impone lunghi respiri. Si prepara come un pugile prima di un incontro. È un atleta che alimenta l’accanimento, l’ostinazione.
Arrivata al citofono preme il pulsante con violenza. Pensa alle parole più adatte a intimidire, ma subito si rende conto che non le servono, perché nessuno le chiede nulla. Non fa nemmeno in tempo a dire il suo nome che una voce le risponde: le apro, ma abbia pazienza, mi ci vuole tempo. Poi la porta si spalanca da sola.
Questo la sbilancia. Era preparata a fronteggiare un rifiuto.
Entra e si ritrova in un ambiente di passaggio di forma squadrata. Di fronte a lei si apre l’ampia grata del parlatorio.
Si lascia alle spalle l’ingresso e si sposta in una sala disadorna. Solo un paio di poltrone molto vecchie e un divano coperto dalla stessa tappezzeria pesante. Sulla parete un grosso crocifisso pende dall’alto, sostenuto da una catena.
Prova a sedersi, ma le è impossibile rimanere ferma.
Si rialza guardandosi intorno. Sopra la porta c’è una stampa con la riproduzione di un’icona. Non la vede bene, troppo alta sullo stipite. Si avvicina.
La Vergine sostiene il bambino che la fissa intimorito e le si aggrappa. Il figlio di Dio ha bisogno di sua madre. Lei non lo ricambia, e non mette alla prova la natura di quella dipendenza. La dà per scontata. Rivolge invece lo sguardo verso il mondo e gli occhi sono duri, pieni di rimprovero, come se paragonasse l’inviolabilità del suo spazio materno, esemplare e compiuto, all’imperfetto mondo dei supplici.
Emma si gira e si mette in ascolto. Cerca di captare il rumore di un suono in avvicinamento, ma non sente nulla. Da quando è entrata lì dentro il silenzio sembra essere più compatto. Avverte intorno a sé una densità quasi vischiosa.
Dalla finestra vede l’avancorpo del porticato allungarsi. Al centro del muro in mattoni si apre un grosso cancello di metallo sbarrato da una catena.
Un fruscio alle sue spalle. Per un istante, prima di girarsi, immagina che possa essere Irene. Tutta la rabbia che ha covato nel corso del viaggio diventa fisica e palpabile. Si volta, pronta a un gesto di forza, ma la donna che ha davanti non può essere lei.
È una suora giovane, in abito da lavoro, con un grembiale grigio che le copre il petto e si allaccia in due giri intorno alla vita. Non può avere più di vent’anni. Sorride.
– Buongiorno. Scusi se l’ho fatta aspettare.
Emma fa un cenno. – Non importa. Cerco mia figlia, Matilde Montanari.
La suora ha un’espressione incerta. – Mi spiace, non so chi sia. Non abbiamo ospiti in questo momento. La foresteria è chiusa.
Emma fiuta la menzogna. Si avvicina per fronteggiare la donna. – So per certo che c’è. Ho ricevuto una chiamata ieri sera.
La suora continua a sorridere. – Una chiamata da qui, dice?
– Era una delle sue compagne. O almeno suppongo che lo sia.
La suora però la guarda e non dice niente.
– Irene Scarpa, – scandisce Emma.
È così che la chiamano ancora, lì dentro? Non ne ha idea. Sono anni che non ci pensa. Anni che non dice il suo nome.
La suora fa segno di avere capito. – Sì, è qui, ma è impegnata. Vuole lasciare un messaggio?
Emma sente con chiarezza che la resistenza della donna va smontata. Che deve attaccare. Che non può essere accomodante per nessuna ragione. Alza la voce.
– Io non me ne vado finché non mi fate parlare con mia figlia. Piuttosto chiamo i carabinieri.
È una bugia. E se lo facesse non servirebbe a nulla. Matilde è maggiorenne e si è allontanata da casa di sua spontanea volontà. Emma spera solo che la suora non lo sappia.
La giovane fa un mezzo passo indietro.
– Mi dispiace, ma senza appuntamento non è possibile –. Abbassa la voce. – È un convento di clausura. Le assicuro che in questi giorni non ospitiamo nessuno.
Emma non la lascia neppure finire. – Chi è il responsabile qui?
– Come dicevo, occorre un appuntamento.
– Non mi muovo finché non mi ci fate parlare. Veda lei cosa le conviene.
La donna aggrotta le sopracciglia. Finalmente smette di sorridere. Poi piega la testa.
– Un momento –. Ed esce.
Rientra qualche minuto dopo. – Venga. La accompagno –.
Oltrepassano una porta a vetri ed Emma ha la certezza che Matilde sia lì, a pochissima distanza da lei. Il cuore le si allarga in un riflusso d’amore che la collera non riesce ad arginare.
Scaccia il pensiero. Le occorre lucidità.
Segue la suora. Attraversano due lunghi corridoi perpendicolari su cui si apre una fila di finestre altissime. Oltre i vetri c’è un bosco di alberi fitti e assiepati che formano un fronte discontinuo sulla linea dell’orizzonte.
Poi la suora si ferma davanti a una porta massiccia, stretta e bassa come tutte quelle che Emma ha visto finora.
– Suor Irene può riceverla, – dice. Sfiora lo stipite con le nocche e abbassa la maniglia facendosi da parte senza entrare.
Irene la aspetta in piedi dietro la scrivania, al centro della stanza.
Emma ha il tempo di osservarla. Le sembra molto diversa. I capelli ancora neri sono tagliati corti, una ruga orizzontale le segna la fronte. Indossa una tonaca grigia, lunga e dritta, ma non porta il velo.
Per un secondo Emma oscilla, poi l’impulso alla caparbietà le raddrizza la schiena. Cerca una parola inequivocabile che metta subito in chiaro come stanno le cose tra loro. Non la trova. Si chiude la porta alle spalle e si avvicina alla scrivania.
– Matilde aveva detto che saresti arrivata. Non era necessario, – dice Irene quieta. – Ho chiamato solo per tranquillizzarti.
– Dimmi dov’è. Irene ha un’esitazione, un tremito delle labbra che ha la sembianza di un sorriso
.– Per favore, siediti. Parliamo.
Parte prima
1.
Quand’è che le cose con Matilde avevano cominciato a peggiorare? Emma se l’era chiesto spesso, ma l’origine del disagio le sfuggiva. Sapeva solo che sempre più di frequente le capitava di sentirsi inutile. Una madre superflua.
Forse il primo segnale inequivocabile era stato quel capodanno che Matilde aveva chiesto di passare in montagna con alcuni amici. Qualche mese dopo, a marzo, avrebbe compiuto diciassette anni. Era sempre stata una ragazza autonoma e piuttosto solitaria. Usciva poco, non se ne lamentava, sembrava quasi che non le importasse. L’isolamento era l’unica dimensione che occupava con slancio, e da moltissimo tempo i suoi avevano smesso di badarci. Matilde era fatta così.
La richiesta era insolita, ma poteva segnare una svolta felice. In ogni caso perché Emma e Fausto avrebbero dovuto impedirglielo? Si trattava di un paio di giorni insieme a compagni di classe di cui conoscevano il nome e la famiglia. Non c’era motivo di opporsi, e non lo fecero. Emma però avvertì fin da subito un’increspatura di affanno, qualcosa che la turbava senza avere un contorno preciso.
Matilde sarebbe dovuta rientrare la sera del primo gennaio. Invece quel giorno aveva telefonato dicendo che voleva fermarsi più a lungo. Il pomeriggio successivo aveva ripetuto la stessa cosa, e alla fine solo un messaggio, per avvisare che non sarebbe tornata a casa prima della ripresa della scuola.
Non era mai successo. Il tono era sbrigativo, e quando Emma aveva cercato di contattarla al telefono lei non aveva risposto.
Emma si era innervosita. Sono una madre comprensiva? Direi di sì. Le pareva una cosa di cui essere orgogliosa. Le sarebbe piaciuto che Matilde in cambio le riconoscesse un’elementare forma di rispetto. Anche a una madre compiacente si può usare la cortesia di chiedere con educazione.
– Alla sua età non me lo sarei mai potuta permettere, – aveva detto a Fausto.
– Una volta ho sentito mia madre dire una cosa simile parlando della sua. E mi ricordo di una versione di Seneca dello stesso tono, ed era il I secolo. Significa solo che i figli crescono e noi stiamo diventando vecchi.
Emma aveva messo giù il libro che teneva in mano per guardare suo marito, inginocchiato sul terrazzo davanti alla porta finestra, socchiusa per non fare entrare il freddo. Le dava le spalle. Indossava una vecchia camicia a scacchi rossi e blu, e i guanti verdi da giardiniere, strappati all’altezza delle prime due dita della mano destra. Era sempre felice quando si dedicava alle piante.
Rimestava con la paletta nella sacca di terriccio come in una zuppa sul fuoco. Per lui l’asprezza di Matilde e le difficoltà di Emma significavano poco, erano malesseri irrilevanti.
Non vale la pena discutere, pensò Emma. Non avrebbe saputo nemmeno spiegare cosa la disturbasse tanto. La sua inquietudine aveva ancora radici invisibili.
Il giorno prima del rientro di Matilde, Fausto provò a distrarre Emma. – Usciamo a prendere una cioccolata, dai.
Lei era stanca. Aveva pulito casa da cima a fondo, un’attività che detestava, anche se tendeva a rifiutare qualsiasi aiuto. E neppure aveva mai accettato di assumere qualcuno. Ne usciva sempre a pezzi e intrattabile. Una volta, molto tempo prima, Fausto le aveva domandato: allora perché lo fai? Lo sai che a noi non importa. Lavori tutta la settimana. Basterebbe un terzo dell’impegno che ci metti, se proprio vuoi occupartene tu. Chiamiamo qualcuno, no? Ed era uscito dalla stanza come se la cosa si imponesse con una tale evidenza da rendere superflua ogni replica.
Emma si era fermata in cima alla scala con una pila di coperte che stava mettendo via, irritata perché la risposta le sfuggiva senza che questo attenuasse l’urgenza. E in più la faceva sentire stupida. Poi quella notte, a letto, le parole le erano venute: perché va fatto, ecco perché. E se non me ne occupo io nessuno se ne prenderà cura nello stesso modo. Era un dato limpido, incontestabile, e lui avrebbe dovuto capirlo da solo. Ma erano passate ore e a quel punto Fausto dormiva profondamente accanto a lei. Sarebbe stato ridicolo svegliarlo, e così Emma se l’era tenuto per sé, né le era mai capitato di tornare sull’argomento.
Stavolta però aveva ragione lui. Prendere una boccata d’aria avrebbe fatto bene a tutti e due.
Uscirono di casa verso le sei e passeggiarono per mezz’ora lungo le strade di Prati, sbucando in via Cola di Rienzo. Le luci di Natale avevano l’aria avvilita che prendono allo scadere delle feste, in giro c’era pochissima gente. Non faceva freddo, si poteva restare seduti fuori accanto alle lampade riscaldanti. Ma Emma continuava a distrarsi, e le chiacchiere di Fausto la innervosivano.
– Sono preoccupata per Matilde, – sbottò all’improvviso, interrompendolo.
Fausto la fissò sorpreso. – Perché torna con qualche giorno di ritardo? Non mi pare grave.
– Non è questo. È cominciato prima. Non so dirti quando con esattezza, ma prima. La sento sempre distante, non so mai cosa le passa per la testa.
– In concreto cosa? Fammi degli esempi.
Emma ci pensò, ma non seppe rispondere. A Matilde non si poteva contestare niente di specifico. Si alzava di sua iniziativa la mattina, a volte perfino prima di loro se le veniva voglia di andare a correre. Era puntuale, precisa, una studentessa capace, e aveva amicizie tranquille. Non c’era nulla in lei dell’adolescente irrequieta. Eppure, anche se formalmente non metteva in discussione l’autorità di sua madre, era da tempo ormai che viveva come se non ne avesse bisogno. Matilde era ineccepibile ma scostante.
Non si poteva nemmeno dire che i loro rapporti fossero mai stati migliori di così. Fino a una certa età Matilde era stata meno distaccata, forse. Ma affettuosa mai, anche se Emma era quasi certa di ricordare un tempo in cui sua figlia aveva provato per lei dell’ammirazione silenziosa, come un cortigiano verso un sovrano illuminato.
– Niente. Non posso rimproverarle niente. Però vorrei capire perché non parla con me ed è ostile. Lo so che è un’adolescente, ma lo è anche per te, invece vi vedo sempre insieme. O l’adolescenza è una condanna che devono scontare solo le madri? – Poi le uscirono parole dure che Fausto non meritava: – Si vede che quando non sei il vero padre certe cose vengono più facili.
Fausto si irrigidì ma non disse niente. Incassò e andò oltre, non era da lui portare rancore. E contro la verità dei fatti non poteva obiettare nulla. – È una fase, – rispose. Ma peggiorò la situazione, acuendo la pena di Emma. – Non è vero che ti ignora. Parliamo spesso di te.
Lo so che parlate spesso di me, pensò lei. È anche questo il problema.
Era cominciato in sordina, impercettibilmente, e all’inizio Emma non se n’era resa conto perché per tutta l’infanzia Matilde era stata una bambina taciturna.
Quando andava a prenderla a scuola la vedeva camminare sempre a passi lenti, senza scalmanarsi come i suoi compagni. Una minuscola adulta, non c’era altro modo per descrivere il senso del suo stare al mondo. Un piede davanti all’altro, lo sguardo dritto di fronte a sé.
All’inizio Emma si era preoccupata. Aveva pensato che avesse problemi di socializzazione, e in fondo la cosa non l’avrebbe stupita. Ma le maestre l’avevano rassicurata. Matilde non aveva nessuna difficoltà in classe, neppure con i compagni. Infatti, osservandola più attentamente, con il tempo Emma aveva finito per riconoscere i segnali impercettibili della sua rete di legami. Certi bambini le lanciavano un saluto passandole accanto, e Matilde rispondeva sorridendo, oppure con un cenno d’intesa.
Intorno a lei però c’era sempre un vuoto d’aria, una vertigine di isolamento che Emma non riusciva a spiegarsi e che in qualche modo la confondeva.
A differenza delle altre madri aveva smesso quasi subito di andarle incontro. Si era convinta che a Matilde non piacessero le smancerie, e del resto non le amava neppure lei. Vedeva frotte di bambini accendersi come lampadine mentre correvano verso le madri, e si sentiva in difficoltà.
La seguiva con gli occhi dal momento in cui sbucava dal portone. Sollevava la mano per farsi notare, poi la aspettava fuori dal cancello accanto all’auto. Certe volte le pareva di essere un’istitutrice. Una donna pagata per prendersi cura di una creatura di un rango diverso dal suo. Quando arrivavano una di fronte all’altra premeva fra loro, sospesa e invisibile, una bolla di imbarazzo.
A quel punto Emma avvertiva la necessità di fare un gesto materno per ristabilire un legame, il primo che le saltava in mente, e che non risultava mai spontaneo. Le aggiustava il berretto di lana sulla fronte, o le toglieva un filo sporgente dal cappotto. Si salutavano con un bacio leggero e solo a quel punto l’impaccio si dissipava. Matilde era silenziosa e ubbidiente. Non discuteva mai. La fissava e basta.
Poi qualcosa era cambiato nella gerarchia delle sue passioni. Emma si era accorta che lo sguardo di Matilde verso di lei perdeva intensità. Al suo posto aveva preso avvio una nuova confidenza con Fausto, meno implicita e più corporea, che ogni giorno si faceva più forte.
– Torniamo a casa? – disse al marito, alzandosi. – Comincio ad avere freddo.
Cercò di scrollarsi di dosso la tristezza. Matilde sta cambiando, pensò. È sempre più immune dal bisogno della mia approvazione. Forse è un bene. E se è un male, è colpa mia?
Non lo sapeva. Certo, c’era stato lo scoglio di qualche anno prima. Un atto di violenza, così l’aveva definito Fausto, esagerando. Dall’inizio del loro matrimonio era stato l’unico vero motivo di conflitto fra lui ed Emma, la sola divergenza importante sull’educazione di Matilde. Ma Emma non aveva ceduto e ancora oggi era solidamente convinta delle sue ragioni, forse addirittura più di allora. Mentre Fausto, che sapeva di non poter vantare fino in fondo il diritto di padre, aveva dovuto ingoiare la frustrazione e fare un passo indietro.
Matilde sarebbe dovuta rientrare domenica per l’ora di cena.
Emma era nervosa. Vuotando le buste della spesa le era caduto tutto dalle mani, ripetutamente.
– Ti aiuto, – le diceva Fausto. E intanto inseguiva le arance rotolate fin sotto al divano del salotto. Lei non riusciva a sentirsi grata. Pur di restare sola e non dover fare sforzi per nascondere l’irritazione l’aveva rimandato fuori due volte benedicendo il supermercato aperto anche la domenica. Prima l’insalata, poi la senape.
Alla fine Matilde era arrivata. Con mezzi suoi, perché non aveva voluto che andassero a prenderla alla stazione.
Un attimo prima che l’acqua per la pasta cominciasse a bollire, sentirono la chiave girare nella toppa.
– Hai visto? – Fausto le mise una mano intorno alla vita. – L’acqua bolle e lei arriva. È un buon segno, no? – E andò incontro a Matilde.
Emma si sciolse in un sorriso. Forse aveva ragione lui.
Si distrasse abbassando il fuoco e prendendo il piatto con la pasta già pesata. Un istante dopo si girò e vide Matilde ferma sulla soglia. Per un attimo stentò a riconoscerla. Si era tagliata i capelli, non c’era più traccia della naturale sfumatura di luce. Sembravano quasi neri. Li aveva tinti? No, non era questo. Era il suo colore naturale, più scuro alla radice ora che non c’era più la tonalità morbida e castana a schiarire le punte. Emma era talmente sorpresa che dimenticò di salutarla.
Si avvicinò allungando la mano verso la testa di lei. Matilde fece per scansarsi con troppa violenza. Poi, come pentendosi del gesto brusco, si lasciò toccare.
– Dio, un bel cambiamento, – disse Emma, passandole una mano sulla nuca. I capelli cortissimi le solleticarono il palmo.
– Non ti piacciono? – ripeté Matilde stizzita.
– Non ho detto questo –. Emma allargò le braccia. – Ho detto solo che non me lo aspettavo. Lasciati guardare meglio.
Fausto le raggiunse e strinse Matilde per le spalle. – È bellissima, no? – disse.
– Per il momento sei l’unico contento qui dentro, – obiettò lei.
Emma si sentì attaccata. Subito, e senza motivo.
– Che succede? – chieste Fausto. – Non ti piace?
Emma si irrigidì. – Non ho detto niente di male.
Matilde si rivolse al padre. – Tu hai detto che sono bellissima, e mamma non ha detto niente di male. Mi devo accontentare.
Fausto pareva in imbarazzo. – È quasi pronto. Lascia di là la tua roba e mettiamoci a tavola.
– Ho mangiato un panino un’ora fa, – rispose Matilde. – E domani devo alzarmi presto. Preferisco andare a dormire.
Emma avrebbe voluto dire qualcosa, non voleva rovinare la serata, ma non riusciva a mandare giù il disagio che le dava quel taglio, e la decisione improvvisa che Matilde aveva preso senza nemmeno avvisare, come se ci tenesse a far capire che non doveva rispondere di niente a nessuno.
Matilde si avviò verso la sua stanza.
È solo un taglio di capelli, si ripeté Emma. Nient’altro. Eppure la tensione che teneva a bada da giorni riprese a pulsare all’altezza della gola.
2.
Alla ripresa della scuola le cose peggiorarono ancora.
Emma non sapeva come comportarsi. Ogni giorno si sforzava di individuare il punto di minor resistenza, senza successo.
– Sabato pomeriggio sono libera. Perché non facciamo un giro in centro? Non hai bisogno di niente?
Matilde alzava lo sguardo sospettosa mentre lei attendeva la risposta, in ansia come un innamorato.
– Viviamo a Prati, è pieno di negozi. Che bisogno c’è di andare in centro? Comunque non mi serve niente –. E tornava a infilare la cuffia abbassando il viso sullo schermo del portatile.
Non chiedeva mai soldi, si arrangiava con quello che riusciva a guadagnare facendo lavoretti improvvisati. Diceva pochissimo di sé, l’indispensabile, qualche volta con la cupezza degli introversi, ma più spesso con un mezzo sorriso e una certa misura di sarcasmo.
Un giorno però, rientrando dal lavoro, Emma l’aveva intravista al bar sotto casa in compagnia di due amiche. Al lato opposto della strada, sotto un tendone bianco inclinato, le tre ragazze parlavano. Il suono delle loro voci arrivava a Emma acuto e distante.
Le conosceva, erano compagne di classe di Matilde. Si godevano un’ondata di caldo fuori stagione destinata a durare poco. Le amiche portavano leggings neri al polpaccio e magliette fosforescenti con le stringhe incrociate sulla schiena. Emma notò i borsoni a terra. Evidentemente tornavano dalla palestra e avevano citofonato a Matilde sulla via di casa. Lei invece indossava jeans e una maglia a maniche lunghe, tirate su fino al gomito.
Seduta tra le due ragazze, che erano bionde e con i capelli lunghi e legati in una coda, Matilde risaltava come sempre per la natura della sua fermezza, che si notava perfino nella posa rilassata. Dava le spalle a Emma, che ne vedeva solo la schiena ampia, le scapole dritte e sporgenti, i gomiti sui braccioli della sedia in vimini. Non si sporgeva quasi mai in avanti, a differenza delle amiche, che si lasciavano trasportare dalle chiacchiere e spesso accostavano il viso l’una all’altra. Seduta in mezzo a loro, Matilde dava l’idea di concedere udienza.
Cosa sapevano quelle ragazze di sua figlia? Matilde parlava di lei?
Fece per rientrare in casa quando l’esplosione di una risata la spinse a girare di nuovo la testa verso di loro. Il viso di Matilde, di profilo, sembrava disteso. Il mento tremava d’allegria. La gioia le incideva i tratti e la trasfigurava in una persona che in casa Emma non vedeva mai.
Infilò le chiavi nel portone con stizza, premendo tutto il corpo contro l’anta di legno come fosse un nemico personale da abbattere. La consapevolezza di non avere accesso a quel lato di lei le pareva iniqua. L’ostilità selettiva di Matilde rendeva quell’allegria quasi impudica.
Ogni sera, a letto, Emma tornava sullo stesso argomento: – Non capisco cosa le ho fatto.
Fausto diceva qualcosa di inutile e consolatorio per poi spegnere l’abat-jour sul comodino. Erano frasi scontate, prive di cura. – È tutto nella tua testa. Ha solo bisogno di essere lasciata in pace –. Con il tempo Emma si accorse che Fausto cominciava ad averne abbastanza. Per lui la sua stava diventando un’ossessione senza fondamento.
– Hai una figlia che non dà nessuna preoccupazione, cerca di rendertene conto.
Emma non trovava il modo di replicare, così smise di parlarne.
La sera tornava a casa dall’ufficio stanchissima. Faticava a addormentarsi e riusciva a trovare pace solo la mattina presto, aggirandosi per casa nel silenzio prima che gli altri si alzassero.
L’appartamento aveva un unico terrazzo. Ogni mattina Emma spalancava la porta finestra e usciva, anche in inverno. Non le importava che fosse umido o freddo. Si stringeva addosso la vestaglia e si appoggiava al davanzale con una tazza di caffè lungo tra le mani.
La circondavano le piante di Fausto, che erano ovunque, qualcuna perfino appesa dentro piccoli contenitori conici fissati con una catenella al soffitto, che oscillavano alla minima bava di vento e ogni tanto si staccavano senza grossi danni, perché Fausto li caricava solo dei bulbi più resistenti. Sapeva riconoscerli a colpo d’occhio, non sbagliava mai. Potevano sopravvivere a una caduta, poi bastava una spazzolata veloce e un nuovo innesto, ed era come se nulla fosse accaduto.
Emma non avrebbe saputo far crescere neppure la gramigna, e non le interessava. Però quel verde le dava conforto.
Il terrazzo affacciava sul cortile interno, che aveva una vaga forma ottagonale, risultato di quattro grossi palazzi umbertini a forma di elle che si guardavano le spalle a vicenda. Visti dalla strada, all’altezza dell’ingresso principale, era quasi impossibile immaginare che avessero un cortile in comune. Poi però, passando l’ingresso e superando un’ampia galleria buia che sbucava nel cortile, si capiva subito che quelle isole costituivano un’unità funzionale, come alberi enormi che fanno a gara per innalzarsi verso la luce ma sotto la terra, al buio, intrecciano un groviglio di radici.
La superficie del cortile era attraversata in diagonale da un vialetto a ciottoli che univa gli edifici disegnando una croce. Al di fuori del viale tutto era occupato da aiuole enormi, dentro cui il custode faceva crescere decine di alberelli che ruotavano nella fioritura stagionale. Le chiome si allargavano tra un’aiuola e l’altra tendendo i rami e creavano delle gallerie attraverso cui in estate filtravano minuscoli filamenti luminosi.
A volte, prima di andare al lavoro, Emma si infilava una tuta e scendeva. Percorreva l’acciottolato sfiorando il bordo tagliente e scabro delle siepi tenute sempre in ordine a circa un metro dal suolo. Cercava di riconoscere gli odori o i suoni appena percettibili, ma tutto quello che riusciva a cogliere era l’alito pesante dell’umidità e della terra smossa, e i frammenti dei suoni del risveglio che provenivano da qualche appartamento al piano terra.
Si fermava ad ascoltare, soprattutto quando sentiva voci di bambini. Provava a immaginare le parole e lo sguardo delle madri, ma niente le era familiare o le ricordava qualcosa che avesse a che fare con lei. In ogni caso le finestre rimanevano sempre chiuse.
Lì sotto non incontrava mai nessuno, eccetto una donna anziana che abitava da sola nello stabile di fronte. Le capitava di incrociarla anche fuori, alla posta o al mercato rionale. Usciva spesso la mattina presto per annaffiare le piante nel terrazzino al piano rialzato. Era capitato che invitasse Emma a prendere un caffè, in passato. Lei aveva accettato solo la prima volta, per cortesia.
Si era seduta educatamente nel cucinino, guardandosi intorno. Sui muri c’erano tre piccole stampe incorniciate, una sull’altra.
«Mi piaceva il teatro, – aveva detto la donna, seguendo il suo sguardo. – Mi piace ancora. Vado molto spesso».
Era vedova? Aveva figli? Emma avrebbe voluto saperlo, ma chiederlo sarebbe stato indiscreto. Non l’aveva mai vista in compagnia di altri, e neppure le era sembrato che i saluti per strada fossero un’indiretta richiesta di contatto, come accade con le persone anziane. Era socievole ma non cercava compagnia. Pareva esserle indifferente che la gente si fermasse a fare due parole oppure no.
«La vedo spesso in giardino, la mattina».
Emma aveva annuito. «Mi rilassa molto prima di uscire, anche solo dieci minuti».
«Non lo trova sovraccarico? Troppi alberi. E tutti diversi”. Emma aveva guardato attraverso il varco della porta finestra aperta. Era vero, il risultato aveva qualcosa di incombente. Ma quando poi si ritrovava vicina alle piante sapeva che era proprio il genere di compagnia di cui aveva bisogno. Si sentiva accudita dal silenzio di quella affollata compagnia vegetale. La pace del cortile era sedativa, anche se durava poco. Solo fino al risveglio di Matilde e al peso del suo sguardo.
Aveva finito il caffè ed era uscita scusandosi per la fretta. Mi perdoni, faccio tardi al lavoro. Allo stesso modo aveva rifiutato gli inviti successivi, che erano stati occasionali e non particolarmente pressanti. Poi la donna aveva smesso di farne. Continuava però a salutarla con gentilezza sincera e senza rancore, incontrandola in giro per il quartiere. Emma non riusciva mai a evitare di sentirsi vagamente in colpa.
Al mattino Matilde apriva gli occhi al trillo della sveglia e la spegneva immediatamente. Quasi sempre era il momento in cui la madre cominciava ad aggirarsi per casa. Riconosceva i suoi passi in cucina mentre trafficava con la tazza grande del caffè e il bollitore sul fuoco, che spegneva al primo accenno del fischio. La immaginava attraversare il salotto, affacciarsi in terrazzo. Vedeva il filo dei suoi pensieri con una consistenza di vapore che si disperdeva nell’aria mischiandosi al fumo del caffè. Ne percepiva la pesantezza, la ricorsività. Le dava i brividi.
Perché non riesco a ignorarla e basta?, pensava.
Ne era in grado, lo sapeva. In termini di forza era lei la più dotata. Un animale robusto e veloce che avrebbe potuto spazzare via gli ostacoli con una zampata, oppure scattare in avanti sollevando una nuvola di polvere, e sparire alla vista. Ma non ci riusciva, e si disprezzava per questo.
Per la tensione scalciava via le lenzuola e si metteva in piedi troppo in fretta. Respirava forte, il tempo necessario a recuperare l’equilibrio, poi spalancava la porta.
Spesso le capitava di incrociare Emma che proprio allora rientrava dal terrazzo. Anche Matilde, come sua madre, aveva imparato presto a riconoscere il segno di una perturbazione, come se ogni volta fosse necessario un atto della volontà per ristabilire una connessione tra loro. Per Emma quello sforzo era un impaccio molesto, ma non gli attribuiva davvero importanza. Per Matilde invece era un intralcio che non riusciva a ignorare con leggerezza. Niente sarebbe stato meno conforme al suo carattere che fingere di ignorarlo.
3.
All’arrivo dell’estate, Emma e Fausto cominciarono a parlare di viaggi. Ma venne fuori un problema. Non c’era verso di ottenere ferie in contemporanea se non per pochissimi giorni intorno a ferragosto. Matilde come al solito sembrava disinteressata. Non partecipava alle discussioni, non faceva proposte e non manifestava entusiasmi.
Fausto temporeggiò, promise che avrebbe provato a insistere, ma la settimana successiva chiamò Emma dall’ufficio per dirle che non c’erano speranze. Stavano gestendo una commessa importante, il personale era ridotto all’osso.
– A Natale andrà meglio, mi farò perdonare.
– Per me non è un problema. Non mi dispiace restare a casa a riposare. Ma Matilde?
– Si è già messa d’accordo con i suoi amici. Vanno all’Elba, credo.
Emma rimase un istante sospesa. Non ne sapeva nulla. Ormai le notizie le arrivavano solo da Fausto.
– E quando te l’avrebbe detto?
– La settimana scorsa, è colpa mia, ho dimenticato di parlartene. Secondo me è una buona idea. Sono gli stessi amici con cui è stata in montagna, li conosci anche tu.
Questa volta però non sarà per qualche giorno, pensò Emma.
Chiuse la telefonata senza aggiungere altro. La irritava che la sua approvazione fosse data per scontata.
Più tardi, con Fausto, tornò sull’argomento, e come al solito lui prese le difese della figlia.
– Non possiamo tenerla qui tutta l’estate
– Potrebbe andare dai miei, a Fregene.
L’idea era ridicola. Emma stessa la sentì stridere subito dopo averle dato voce. Matilde era quasi maggiorenne. Non c’era più niente in lei della bambina che passa i mesi estivi con i nonni. Perfino per Emma un’estate con i suoi sarebbe stata un martirio. Ma non le veniva in mente un’alternativa che la facesse sentire tranquilla. Era comunque meglio che sapere Matilde in un posto sconosciuto dove lei e Fausto non avrebbero potuto raggiungerla.
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L’autrice
Emanuela Canepa è nata a Roma dove si è laureata in Storia Medievale, vive a Padova dal 2000. Lavora come bibliotecaria per l’Università e si occupa di assessment in psicologia.
Nel 2017 ha vinto la XXX edizione del Premio Calvino con il romanzo “L’animale femmina”, pubblicato da Einaudi Stile Libero ad aprile del 2018.
- Insegnami la tempesta
- Emanuela Canepa
- Editore: Einaudi
- Formato: EPUB con DRM
- Testo in italiano
- Cloud: Sì Scopri di più
- Compatibilità: Tutti i dispositivi (eccetto Kindle) Scopri di più
- Dimensioni: 396,82 KB
- Pagine della versione a stampa: 248 p.
- EAN: 9788858433386. [btn btnlink=”https://www.ibs.it/insegnami-tempesta-ebook-emanuela-canepa/e/9788858433386″ btnsize=”small” bgcolor=”#59d600″ txtcolor=”#000000″ btnnewt=”1″ nofollow=”1″]Acquista. € 9,99[/btn]